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PARTE TERZA


Lenin, primo dottrinario della g.r.

 Comunicazione di CARLO DE RISIO

 I dirigenti e gli ideologi del marxismo si sono in tutti i tempi interessati a fondo del problema congiunto della guerra e della rivoluzione. Per essi questo problema è una tradizione, che risale alle origini, all'attività ed agli scritti degli stessi fondatori della socialdemocrazia marxista, Engels e Marx. Infatti pochi ricordano che Friedrich Engels diede un forte contributo agli studi militari e che nel suo Antiduehring - che col Capitale di Marx serviva da manuale nei circoli di studi marxisti - si trovano pagine e pagine dedicate a questi problemi. L'interesse particolare che Engels dedicava agli studi militari è all'origine di un soprannome che i suoi amici e lo stesso Marx gli avevano affibbiato chiamandolo « compagno Stato Maggiore ».

Anche Lenin ebbe questa inclinazione ed è noto che egli studiò con attenzione Clausewitz e a commento della celebre opera Della guerra del generale prussiano, Lenin scrisse: «Un buon leader ».

Soprattutto la corrispondenza Marx-Engels (I850) suscitò in Vladimir Ilic un interesse particolare per l'opera di Clausewitz. E quanto marcato fosse questo interesse lo si può constatare nei Leninskriyé Tetraki (Piccoli Quaderni di Lenin).

Un autore militare russo, il capitano di vascello Lukin, nel suo studio su Clausewitz e Lenin ritiene che « si può dire perfino che il grande stratega della rivoluzione fu l'allievo più attento del grande stratega della guerra ».               .

Per Lenin il centro dell'opera di Clausewitz è nelle sue meditazioni sui rapporti tra la politica e la guerra. « È - scrive Lenin uno dei momenti più profondi dell'opera di Clausewitz. I marxisti hanno ragione quando considerano queste tesi come la pietra di volta di ogni interpretazione nel senso di qualsiasi guerra particolare ».'

Lenin cita la definizione che Clausewitz dà alla guerra come «fenomeno sociale» per indicare che, in nessun caso, si deve pensare alla guerra come un fenomeno a se stante. «Non bisogna scorgervi altro che uno strumento della politica. Ed allora noi comprenderemo quanto diverse debbano essere le guerre per il loro carattere e per le circostanze nelle quali nascono ».

La realizzazione del fine politico della guerra non si riduce sempre - per Vladimir Ilic - allo schiacciamento delle Forze Armate del nemico o all'occupazione del suo territorio perché la guerra non è atto cieco della passione. «Vi è sempre presente l'elemento politico. Il suo valore deve essere determinato dalla vastità dei sacrifici con cui ci si appresta a pagarla e se questi sacrifici sono superiori al valore dell'obiettivo politico, è meglio rinunciarvi ». In determinate condizioni, quando i due contendenti non sono in condizioni di infrangere definitivamente la resistenza dell'avversario, si può ricorrere ai mezzi di azione politica come, per esempio, la rottura delle alleanze, la ricerca di nuovi alleati, l'occupazione del territorio non più per annetterlo ma per devastarlo e per prelevare tributi onde suscitare nel nemico il desiderio di finire la guerra amichevolmente. La scelta di questi mezzi è determinata, prima di tutto, dal fine politico della guerra.

Secondo questo criterio, Clausewitz respinge la valutazione puramente militare della situazione strategica ed il piano puramente militare della guerra: «È inutile - secondo lui - dedicarsi alla soluzione dei problemi strategici basandosi soltanto sulle meditazioni speculative, fuori delle condizioni concrete e degli obiettivi politici positivi della guerra ». Non è un ragionamento marxista? - postilla Lenin - mentre legge queste righe di Clausewitz.

        È interessante notare come Lenin impieghi la terminologia militare già nel suo primo scritto politico risalente al 1897.

        Intitolato I compiti dei socialdemocratici russi, questo scritto

tratta della « disciplina necessaria per togliere al capitale una posizione dopo l'altra» e della «insurrezione e dello sciopero politico delle masse come mezzi di attacco ». Un tema sul quale Vladimir Ilic tornò sempre in seguito, tanto che nel marzo 1902 il suo libro Che fare? abbonda di suggerimenti militari.

Giova anche ricordare che Lenin non esitò a condannare come inutili e anacronisti i sistemi del terrorismo politico anarchico rifuggendo gli schemi rivoluzionari nihilisti da lui definiti goffi e controproducenti. Tanto è vero che iniziò una energica polemica col partito social-rivoluzionario che voleva far rinascere la tradizione terroristica della Narodnaia Volia che predicava il terrore individuale come il mezzo principale di lotta contro il mondo borghese e capitalistico. 

«Noi pensiamo - scrisse Lenin in quell'occasione - che un centinaio di regicidi non possono avere, dal punto di vista dell'educazione della massa, un effetto simile a quello prodotto dalla partecipazione di alcune decine di migliaia di operai agli avvenimenti ai quali partecipi la massa stessa. Questa partecipazione diretta sgomenta il governo, suscita nella folla la comprensione della legittimità delle rivendicazioni dei lavoratori e la rivela all'esercito ».

Lenin riteneva insensato sacrificare «un buon rivoluzionario» per annientare «una diecina di inutili persone ».

Ma non bisogna pensare che questo ripudio della singola azione terroristica equivalga in Lenin al ripudio del terrorismo in generale. In un altro articolo egli afferma che quando gli attivisti conducono la « massa» ad una manifestazione nelle strade, esse devono dare ai manifestanti questa semplice direttiva per quel che concerne l'atteggiamento da usare nei confronti delle forze dell'ordine, della polizia e dei soldati: «uccideteli! ».

Alla fine del 1905 Lenin espose il suo piano di formazione delle unità rivoluzionarie e suggerisce per la prima volta le tecniche rivoluzionarie. Esse mirano a conseguire due risultati: l'azione militare indipendente e la guida della folla.

« I reparti rivoluzionari - asserisce Lenin - devono essere composti di uomini residenti in località vicine o che s'incontrino sovente. Essi devono fare in modo da poter essere insieme nei momenti più critici e nelle condizioni più inattese. Ciascun reparto deve dunque elaborare in precedenza procedure utili, segni convenzionali sulle finestre o fischi e grida per riconoscersi nella folla, segnali speciali per gli incontri notturni.

I reparti possono rappresentare la parte più seria: I) conducendo la folla; 2) attaccando all'occasione un agente di polizia o un soldato isolato per togliergli le armi; 3) liberando i compagni arrestati o feriti quando i poliziotti sono poco numerosi; 4) salendo sui piani superiori delle case e sui tetti per lanciar pietre, acqua bollente ed altro sulle truppe. Se i reparti possono armarsi, tanto meglio, a condizione però che si armino direttamente senza aspettare aiuti da altri. Ciascuno deve armarsi come può: fucili, pistole, bombe, coltelli, stracci imbevuti di petrolio per incendiare, corde, filo di ferro spinato, chiodi (contro la cavalleria) ».

Ai reparti rivoluzionari Lenin raccomanda in particolare le bombe: «La bomba ha cessato di essere l'arma di un isolato, di un bombardiere. Essa è diventata l'attrezzo necessario dell'armamento del popolo. Col cambiamento della tecnica militare, cambiano e devono cambiare i mezzi e gli aspetti del combattimento rivoluzionario. (...) La fabbricazione delle bombe è possibile dovunque. Nessuna forza potrà resistere ai reparti dell'armata rivoluzionaria che si armeranno di bombe e che una bella notte sferreranno attacchi simultanei ».

Come Lenin si figurava la formazione rivoluzionaria lo si può constatare in una lettera che inoltrò il 16 ottobre 1905 al « Comitato di Combattimento» dell'organizzazione socialdemocratica di Pietroburgo: «Cari compagni - egli scriveva - vi ringrazio molto di avermi inviato il rapporto del" Comitato di Combattimento" e la nota sull'organizzazione della preparazione dell'insurrezione con lo schema di questa organizzazione. Da quanto posso giudicare da questi documenti, l'affare potrebbe degenerare trasformandosi in scartoffie burocratiche. Tutti questi schemi, tutti questi piani di organizzazione del" Comitato di Combattimento" danno l'impressione di non essere altro che cartaccia...

In un affare simile, gli schemi relativi alle funzioni del Comitato e dei suoi diritti sono del tutto pleonastici. In questo campo occorre una grande energia. Con sfrontatezza, sì, ve lo giuro, con sfrontatezza, si parla da più di mezzo anno di bombe senza che se ne sia fabbricata una sola. Andate verso i giovani, signori, è l'unico mezzo salutare. Altrimenti avrete tutte le vostre note scientifiche, tutti i vostri piani e disegni, tutti i vostri schemi e tutte le vostre magnifiche ricette ma non avrete né -un'organizzazione né un'opera viva.

Andate verso i giovani. Organizzate immediatamente e dovunque alcuni reparti di combattimento presso gli studenti e soprattutto presso gli operai. Create immediatamente gruppi di dieci, venti uomini che si armino immediatamente, come è possibile, con una pistola, con un coltello, con uno straccio imbevuto di petrolio per l'incendio ecc...

Non esigete alcuna formalità; cancellate tutti gli schemi e mandate al diavolo tutte le funzioni, tutti i diritti e tutti i privilegi.

Non chiedete ai - membri dei reparti una formale adesione al partito; è assurdo quando si tratta di rivoluzione. Se vogliono aderire al partito, va bene; ma esigèrlo sarebbe un grave errore. Il centro di gravità in un simile affare è l'iniziativa della massa dei piccoli gruppi.

Essi faranno ogni cosa e senza di loro la vostra comunità di 'combattimento è zero... Se in uno o due mesi il vostro comitato non conterà al minimo 200 o 300 piccoli gruppi, il vostro Comitato di Combattimento sarà morto e allora non vi resterà da far altro che sotterrarlo.

  I predicatori devono dare a ciascun reparto istruzioni brevi e -semplicissime per la fabbricazione delle bombe, una spiegazione elementare del genere di lavoro da fare e poi lasciarli coi loro propri mezzi. I reparti devono cominciare immediatamente l'istruzione militare per alcune operazioni urgenti. Gli uni procederanno immediatamente a:n'assassinio delle spie, alla distruzione con esplosivi di un -commissariato di polizia; gli altri all'attacco di una banca per confiscar fondi, gli altri ancora faranno una manovra, una prova dei piani ecc... Non abbiate paura di queste esercitazioni di assaggio...

         Che ciascun reparto faccia pratica, per esempio, col massacro dei

poliziotti: alcune diecine di vittime nei loro ranghi frutteranno centinaia di esperti combattenti che domani trascineranno con loro centinaia di migliaia di nuovi combattenti ».

         Un anno dopo, il 30 settembre 1906, Lenin ritorna sull'argomento in un articolo sulla « guerra dei partigiani ».

         Egli incomincia col confutare i rimproveri dei suoi avversari (menscevichi) che l'accusano di raccomandare una tattica « anarchica ». « Il marxismo - scrive Lenin - non rinuncia ad alcuna forma di lotta. La storia del marxismo nell'Europa Occidentale ci fornisce innumerevoli esempi che lo confermano. La socialdemocrazia europea considera attualmente il parlamentarismo ed il movimento sindacale come principali forme di lotta, ma precedentemente ammetteva la lotta armata e nel futuro sarà pronta ad ammetterlo nuovamente.

Negli anni '70 del XIX secolo, la socialdemocrazia respingeva lo -sciopero generale come panacea sociale e come mezzo per rovesciare d'un sol colpo la borghesia mediante una azione non politica; ma oggi la socialdemocrazia riconosce interamente nello sciopero politico .delle masse uno dei mezzi di lotta necessari in determinate condizioni (era ancora fresco il ricordo dei cruenti avvenimenti di Pietroburgo del 19°).

La socialdemocrazia ammetteva il combattimento stradale sulle barricate negli anni 40 del XIX secolo, lo respingeva alla fine del -secolo XIX per motivi fondati su alcuni dati concreti, ma poi si è dichiarata pronta a rivedere questa posizione negativa ed a riconoscere             la necessità della lotta a seguito dell'esperienza russa.

Il fenomeno che ci interessa è la lotta a mano armata.

Questa lotta persegue due fini differenti che occorre distinguere: in primo luogo l'uccisione dei notabili, dei capi e dei subordinati di polizia e poi la confisca dei mezzi finanziari del governo e dei privati.

Le somme confiscate vanno al partito ed all'armamento, alla preparazione della lotta, al mantenimento degli uomini che conducono la lotta. Si dice: la guerra dei partigiani avvicina il proletariato cosciente ai bassifondi,. agli ubriaconi ed agli accattoni. E' giusto.

Ma ne risulta che il partito del proletariato non potrà mai considerare la guerra dei partigiani come mezzo unico o perfino principale della lotta: questo mezzo dovrà essere nobilitato dall'influenza concentrata ed organizzatrice del socialismo.

Senza quest'ultima condizione, nella società borghese tutti i mezzi di lotta, assolutamente tutti, avvicinano il proletariato ai diversi strati non proletari, al di sopra o al di sotto di esso, e, abbandonati a loro stessi, questi mezzi si sfigurano, si prostituiscono.

Abbandonati al loro sviluppo spontaneo, gli scioperi si snaturano e si trasforma in alleanze degli operai coi loro padroni contro i consumatori ».

Le argomentazioni addotte da Lenin nei suoi scritti del 1905 e I906 e che contengono «in nuce », allo stato embrionale forse, i principi di un nuovo metodo di lotta (armata) che allora si instaurava e si saggiava non convinsero i socialdemocratici russi con i quali Vladimir Ilic « ruppe» clamorosamente nel 1907. Quell'anno, al congresso di Londra, il partito socialdemocratico russo condannò la guerriglia raccomandata da Lenin e ordinò a tutte le organizzazioni locali di sciogliere i loro « gruppi di combattimento» e di proibire categoricamente le «espropriazioni ».

Gli anni 1905 e 1906, in conclusione, furono quelli dello sviluppa del pensiero militare e rivoluzionario di Lenin, incorag-giato dagli avvenimenti russi contemporanei alla guerra in Estremo Oriente.

L'interesse per questi problemi si risveglierà nuovamente in Vladimir Ilic nel 1914, all'indomani dello scoppio del primo conflitto mondiale, e aumenterà a mano a mano che gli eventi bellici faranno precipitare la situazione politica interna della Russia zarista verso la rivoluzione del marzo e dell'ottobre 1917.

 

Guerra rivoluzionaria in Italia 1943-1945

 Intervento del 4 maggio di GIORGIO PISANÒ

 

Si tratta di un tema enormemente vasto, ed io in pochi minuti spero di poterlo sintetizzare. Devo dire prima di tutto che ho accettato con molto piacere di intervenire a questo convegno, perché, come ha detto Ragno, qualche cosa si sta muovendo, un po' da tutte le. parti. lo, infatti, non vi parlo a titolo personale: vi parlo a nome di un gruppo che a Milano si è dedicato da tempo allo studio della tecnica della guerriglia comunista, perché ci siamo resi conto perfettamente che non è possibile parlare e non è possibile condurre una. efficace azione anticomunista, se noi non impariamo bene come il comunismo agisce, in base a quale tecnica si muove, in base a quali piani procede contro di noi. Noi siamo scesi su un campo pratico, immediatamente. A parte il fatto che stiamo traducendo tutta questa nostra esperienza in pubblicazioni, stiamo anche confrontando. la tecnica seguita in Italia nel '43-'45, con le tecniche seguite in tutti gli altri Paesi del mondo dove il comunismo si è fatto avanti. Dobbiamo dire che abbiamo trovato delle analogie veramente impressionanti. Tratterò il tema del '40 '43, perché quello è stato il periodo durante il quale i comunisti, in Italia, hanno applicato, nella maniera più spietata, più feroce, secondo il loro costume, la tecnica della conquista del potere. Potere che non hanno conquistato nel 1945, a guerra. finita, esclusivamente perché la situazione interna e internazionale li. ha portati ad arrestare la loro azione, momentaneamente, il 25 aprile. Parlerò di quel periodo da un punto di vista storico, come se fossesuccesso duemila anni fa: senza passionalità. Parlerò di fascisti e di partigiani, di brigate nere e di brigate Garibaldi da un punto di vista di studioso, se cosi mi posso definire. Che cosa è successo, allora? L'8 settembre, il P. C. contava in Italia si e no mille uomini, non di più. Vi dico subito che queste notizie che vi do, sono notizie che ho avuto da fonte diretta, perché a questo gruppo di studio, che si è -formato a Milano, collaborano anche ex partigiani, che sono stati nelle brigate comuniste, sono stati comunisti, e che si sono staccati dal P. c., portando un contributo di notizie veramente inedite. Notizie che ci hanno aperto gli occhi, che ci hanno sbalordito, perché nessuno di noi si immaginava (e molti di noi hanno vissuto quel periodo) che il P. C. avesse adottato determinati sistemi per poter iniziare la guerra civile.

        Quell'8 settembre la situazione italiana era quella che tutti conoscete: i comunisti erano, si e no, un migliaio; di questo migliaio, fino :a pochi mesi prima, gli attivi, così li chiamano loro, in territorio nazionale saranno stati due o trecento, non di più; il nucleo più sostanzioso era a Milano, con 45 uomini; tutta gente che aveva dai 18 ai 30 anni. Il grosso del P. C. in quel tempo era al confino (c'erano circa 1500 comunisti confinati, o in carcere), però in quei 1500 uomini 11 P. C. contava i tecnici della guerriglia. Ora, per il P. C. tecnico della guerriglia in quel momento era definito colui che aveva partecipato alla guerra di Spagna.

        Il P. C. si trova con questi mille uomini attivi, e 1500 nelle carceri. Attraverso una serie di ricatti di carattere politico, su cui non .è il caso di dilungarsi, ottengono, nell'agosto del '43, che questi 1500 uomini vengano liberati dal governo Badoglio. Essi si riuniscono immediatamente qui a Roma, dove il P.C. è agli ordini di Longo fin da quel momento e si disperdono immediata-mente nei principali centri nevralgici, specialmente industriali, con il compito di fare proseliti nelle fabbriche. Arriviamo alla data dell'8 settembre. L'8 settembre il P. C. ha posto le sue basi politiche; state attenti: non è uscito dalla -clandestinità. Questo è un fatto che bisogna sempre considerare. Noi abbiamo due specie di P. C., il P. C. ufficiale, che allora era di poche -decine di uomini e di alcune centinaia nella clandestinità, come adesso abbiamo un P. C. ufficiale che è composto di alcuni milioni di votanti, alcune centinaia di migliaia di tesserati e alcune migliaia di apparte_nenti all'apparato terroristico.

All'8 settembre essi si rendono conto immediatamente che gli anglo-americani non arriveranno tanto presto nell'Italia centro-settentrionale, quindi si sposta la direzione immediatamente da Roma a Milano; a Roma restano Scoccimarro e un altro dirigente, a Milano si portano Longo e Secchia, con il compito di organizzare la guerra ,clandestina. Alla data dell'8 settembre il P. C. passa immediatamente nella clandestinità, e a Milano radunano una quindicina di elementi :non di più, tecnicamente capaci di scatena-re la guerra civile attraverso le squadre terroristiche. Questi elementi hanno già fatto la loro esperienza, non solo in Spagna, ma in Francia, al comando di italiani, che si chiamavano Barontini, Filippo Baia, fratelli Pajetta. Cosa fa il P. C.I. Organizza i G.A.P. Sui G.A.P. ci sarebbe molto da dire, è una organizzazione che va studiata attentamente, perché è il seme, è la cellula, dalla quale si diparte tUtta l'organizzazione, tutta la base della guerra civile e lo scatenamento della guerriglia comunista si posa quasi esclu-sivamente sull'azione iniziale dei G.A.P. I G.A.P. sono squadre, composte di due o tre uomini. Noi ne abbiamo sentito parlare tanto, a quel tempo, ma non sapevamo bene come funzionassero. Costoro vivevano in una clandestinità ancora più stretta di quella in cui vivevano i clandestini comunisti; non avevano collegamenti altro che con la direzione del partito; erano collegati attraverso una staffetta; avevano una loro fabbrica di bombe e di esplosivi; non avevano contatti con nessuno e vivevano sotto falso nome. Qual'è il compito dei G.A.P.? lo vi dico qual'era il compito dei G.A.P. allora, perché la tecnica della guerriglia, lo scatenamento, la fase iniziale di una guerra di sovversione, variano a seconda del Paese, della mentalità della popolazione. Se, per esempio voi leggete il manuale di Che Guevara, braccio destro di Fidel Castro, voi imparate in che maniera a Cuba è stata scatenata la guerriglia comunista, seguendo cioè una tecnica diversa, in quanto lì si doveva agire su masse contadine, mentre al nord si doveva agire su masse operaie.       

         Dunque, in che situazione si trovano? L'occupazione tedesca e il ritorno di Mussolini, il quale promuove le leggi sulla socializzazione, praticamente, li paralizzano per alcune settimane. Mi hanno raccontato elementi che appartennero ai G.A.P., che ella fine di ottobre del 1943 la direzione del P. C.I. era preoccupatissima, in quanto, avendo tentato di smuovere, attraverso sciope-ri, alcune fabbriche, avevano notato che gli operai non rispondevano. Perché non rispondevano? Per tre motivi: primo: perché gli agitatori comunisti che durante 45 giorni si erano esposti, all'arrivo dei tedeschi e dei fascisti se ne erano andati in montagna, e quindi le fabbriche erano rimaste prive degli elementi attivi; secondo: perché la politica sociale della Repubblica Sociale aveva impressionato le stesse masse operaie; terzo: perché non avevano voglia di combattere. Gli antifascisti non comunisti, dal canto loro, non ne volevano sapere di scatenare la guerra civile. Badate che questa inquadratUra del fenomeno della guerra civile in Italia è importante, perché si arriva alla conclusione che se i comunisti non avessero iniziato, non ci sarebbe stata guerra civile. La resistenza è un fenomeno al1'80% voluto dai comunisti, guidato dai comunisti, e composto dai comunisti. Quindi, che cosa fanno alla fine dell'ottobre 1943? Si accorgono che le masse non rispondono. Ma i comunisti sanno che in montagna, in determinate località, si sono riuniti dei gruppi, che essi hanno definiti attendisti. Leggete quello che stanno scrivendo in questo momento sui fascicoli di storia della resistenza i comunisti, è una lettura molto interessante, perché adesso incominciano a dire la verità, incominciano a confessarsi. Essi ammettono, per esempio, che quei primi gruppi di guerriglieri non comunisti che andarono in montagna dopo 1'8 settembre, cioè i cosiddetti badogliani, loro non li potevano vedere, non vedevano l'ora che venissero distrutti, perché davano fastidio; volevano essere loro, i comunisti, ad iniziare l'azione, secondo un ben determinato piano di guerra sovversiva. Fatto sta che riescono a farli eliminare (tutti questi gruppi vengono stranamente eliminati: i comandi tedeschi ricevono delle « soffiate », non si sa da chi, non si sa da dove, fatto sta che vengono fatti fuori tutti). Allora i G.A.P. si mettono in azione. Alla fine dell'ottobre del '43 il P. C. decide di rompere la situazione, e la rompe attraverso 50 uomini: soltanto 50. Noi abbiamo saputo tutti i nomi e li abbiamo pubblicati in uno degli ultimi fascicoli della nostra storia sulla guerra civile. A Milano erano in tre; a Torino altri tre; a Genova due; a Bologna quattro. Questi uomini ebbero ordini precisi: dovevano uccidere, perché questa è la maniera per scatenare la guerriglia. Uccidere, ma uccidere con intelligenza, non uccidere a vuoto. Quali furono le categorie, infatti, che dovevano essere eliminate per provocare la rappresaglia, per provocare le fucilazioni, per provocare cosl lo scontento nell'opinione pubblica? Furono scelte tre categorie di persone:

i fascisti moderati, state attenti, non gli intransigenti, perché se si ammazza l'intransigente e resta vivo il moderato, il moderato tiene ferma la rappresaglia, ma se si ammazza il moderato, si scatena l'intransigente, ed è esattamente quello che capitò a Ferrara con Eugenio Pisellini, a Milano con Aldo Resega, a Bologna con Eugenio Facchini e a Forlì col federale. Quattro federali, quattro città chiave: Milano perché era Milano, Bologna perché Facchini s'era accordato coi socialisti che non volevano la guerra civile (a parte il fatto che poi ammazzarono anche i socialisti che non volevano la guerra civile), a Ferrara perché, con i 160.000 braccianti ferraresi avevano bisogno di smuovere quella zona per prendere sotto controllo quella massa, Forlì, perché era la città di Mussolini, ed essi volevano che fosse sparso sangue per rappresaglia (invece questo non avvenne, perché Rachele Mussolini si oppose). Comunque, questi quattro furono uccisi per primi. Ma poi diedero un altro ordine: uccidere i comandanti dei distretti. Perché?

 

Perché la chiamata alle armi della Repubblica Sociale aveva dato 1'83% di giovani che rispondevano. Fu ucciso il comandante del distretto di Alessandria, dove c'erano stati 5.000 volontari; quello di Firenze, dove c'era stato il 91% che aveva risposto alla chiamata di leva; di Chieti, dove s'era verificato lo stesso fenomeno e di Imola, dove c'era stato il cento per cento di presentazioni. Li accopparono uno per uno. E si ebbe la reazione. A questo punto si entra nel campo della controguerriglia. Allora, e anche adesso, non si capì e non si è ancora capito quale dev'essere la tecnica della controguerriglia; perché alla tecnica della guerriglia si può opporre una tecnica della controguerriglia, c'è la maniera di poterla arginare immediatamente. I comunisti speravano che ci fossero le rappresaglie; avevano bisogno di sangue e lo ebbero. Infatti da questa parte non si capì che l'unica maniera per poter tenere la situazione era di non fare il gioco dell'avversario, il quale uccideva per fare uccidere. Comunque, questo fu l'inizio. Contemporaneamente, mentre i G.A.P. uccidevano nelle strade, i comunisti mandano in montagna tecnici con nozioni militari, scegliendoli tra coloro che non se la sentivano di far parte del G.A.P.

In quel momento il partito comunista disponeva, tra gappisti e squadre militari, sl e no di 150 uomini, non di più. State attenti alle cifre, perché le guerre sovversive incominciano cosl, con cento uomini; non c'è bisogno di aver le masse che scendono in piazza, c'è bisogno di pochi uomini scelti. Mandano in montagna della 'gente e, attenzione, scelgono determinate zone non a caso. Nel biellese, per esempio, mandano Piero Pajetta, detto Nedo, combattente di Spagna. Nelle zone dell'udinese e nel Friuli, mandano le squadre che si uniranno con quelle slave; nel bolognese mandano soltanto i gappisti, perché non c'é la situazione matura. Nel vercellese, che ritengono la zona più favorevole, impostano le bande partigiane. Attenzione: la tecnica della guerriglia comunista, è un fatto militare, ma richiede uno studio psicologico per promuovere l'azione militare. Tutto quello che loro fanno è condizionato da quelle che si presumono siano le reazioni dell'opinione pubblica, della massa, del popolo, degli abitanti di una certa zona. Loro debbono garantirsi l'appoggio delle popolazioni, altrimenti la guerriglia non si fa. Se la popolazione non aiuta, la banda non si forma. Questa è un'altra regola della guerriglia, fondamentale. Vanno nel biellese perché c'è una tradizione socialista che già si è manifestata nel '19-'20-'21 con degli scioperi che i più anziani qui presenti ricorderanno. Li è nato Secchia, Il hanno vissuto i fratelli Pajetta, Il ci sono altri capi comunisti. Nel biellese costituiscono una divisione, che chiamano brigata Garibaldi. Incominciano a fare i guerriglieri, ma la popolazione non risponde, sfugge loro dalle mani. Allora passano alla seconda fase, che è quella brutale, quella sulla quale bisogna proprio aprire gli occhi e sapere con chi abbiamo a che fare. Una sera scendano a ... prelevano 13 persone. Non riescano a prelevarne altre venti, perché arrivano i fascisti e durante il conflitto alcuni comunisti vengano uccisi. Prelevano dunque 13 persone, le partano in montagna e le fucilano. A titolo di esempio, per  far sapere

o ci aiutate can le buone, a vi ammazziamo, non c'è via di mezzo. Così fanno nel biellese, così fanno nella zona di Ovada. Terrorizzando la popolazione riescono ad ottenere due scopi: l'appoggio logistico, diremo così, e un afflusso di volontari nelle loro formazioni. Riescono così ad arruolare alcuni ragazzi che scappano di casa, oppure che sono incerti, non sanno che cosa fare. Ora arriviamo alla terza fase: quando il gappista ha ucciso per le strade ed ha scatenato la reazione, creando una frattura tra il governo e la popolazione. Allora la popolazione incomincia a parteggiare per il ribelle. Siamo alla terza fase: il mascheramento. In Italia, la tecnica della guerriglia si è basata soprattutto. sul mascheramento: a un certo momento le insegne e i distintivi comunisti non compaiono più: le brigate si chiamano Garibaldi, si chiamano Mameli, si chiamano Piave, Grappa, Isonzo, Italia. Anzi, in una brigata proletaria che si formò nella zona di Udine, accopparono. subita il comandante che voleva chiamarla proletaria, come accopparono i capi delle brigate Stelle Rosse. Ricordatevi che essi sona spietati: sia nei confronti degli avversari, sia nei confronti degli innocenti che gli servano per determinati scapi, sia nei confronti di loro stessi,. che quando non funzionano li fanno fuori, non discutono.

Mascherandosi, i comunisti assumano l'apparenza nazionale. Non fanno più la guerra comunista. È un fenomeno che avviene da tutte le parti, anche a Cuba; non si parla di guerra comunista, non si parla di guerra sovversiva; no! è la nazione che entra in balla, sono i valori della nazione. Perciò riescano ad attirare e ad ingannare anche coloroche non sono comunisti. Moscatelli, per esempio, di cui avrete sentito parlare, a un certa momento, fa sparire tutte le insegne rosse, adotta come distintivo l'edelweiss. E chiamano - ecco la quarta frase – gli ufficiali di complemento a guidare le loro squadre. I comunisti vogliono, la sovversione, ma nelle loro file sana di una rigidità e di un gerarchismo pauroso; vogliono che tutti righino dritto, altrimenti li ammazzano tutti.

In Italia tuttavia mancavano di quadri militari. Allora cercarono ufficiali di complemento disposti a diventare dei loro. Tutti conoscono il caso clamoroso di Davide Lajala. Francesco Scotti, altro capo comunista che in quel tempo era comandante delle brigate comuniste in Piemonte, si recò nell'astigiano dove vi erano due o tre bande che erano composte di delinquenti comuni; uno di essi si era specializzato nella soppressione di signore danarose. Si trattava di inquadrare queste bande. Così fu avvicinato Davide Lajolo dicendogli: o vieni con noi o saranno guai. Così arruolarono altri ex-fascisti tentennanti come Davide Lajolo, i quali però non ebbero incarichi politici, ma militari. Dietro di essi c'era un commissario politico che aveva diritto di vita e di morte.

Sembra che la storia della guerra civile e di sovversione in Italia sia fatta di azioni condotte allo scopo di aiutare le forze armate alleate, ma ai comunisti invece non importava niente di aiutare gli Alleati. Tant'è vera che vi è stata una strana moria di inviati delle missioni. inglesi; come, dopo la guerra, vi è stata una ancor più strana moria di comandanti partigiani non comunisti uccisi in incidenti automobilistici.

Comunque i comunisti non desideravano che arrivassero presto gli anglo-americani nell'Italia del Nord, perché col passar del tempo potevano dettare le basi politiche ed organizzative, propagandistiche e psicologiche per la conquista del potere. Quanto oggi essi raccontano è una storia a posteriori per mascherare, sotto un aspetto nazionale, la sostanza della guerra rivoluzianaria sovversiva che i comunisti condussero in Italia dal '43 al '45.

La tecnica della guerriglia comunista non trovò un'adeguata risposta della controguerriglia. La controguerriglia non può essere basata sui principi tradizionali della guerra (Beltrametti ne ha parlata a lunga). Si possono sollevare dei problemi di natura morale, ma se noi pensiamo di battere i comunisti mantenendoci fedeli ai canoni della concezione militare, noi falliremo lo scopo. Bisogna avere il coraggio di contrapporre alla guerriglia comunista una controguerriglia altrettanto feroce e spregiudicata. Allora non si capi che per disperdere una banda era inutile partire dal fondo valle con i battaglioni, i carri armati, i cannoni, i soldati in divisa, le fanfare e le bandiere in testa. Di frante a questa dispositivo la guerriglia adotta il sistema della difesa elastica o dell'imbucamento, vale a dire dell'occultamento sotto terra.

Così, se ci mettiamo nei panni del contadino a del montanaro o dell'italiano in genere, che non ha una grande sensibilità politica, ci spieghiamo come la popolazione, vedendo i rappresentanti dello Stato legale beffeggiati, inseguiti, attaccati, pensa che i più forti sono i guerriglieri e l'opinione pubblica si schiererà, prima con riluttanza, ma poi con sempre maggiore convinzione, con il guerrigliero. Il quale diventa così il simbolo di un mondo nuovo, sul quale tuttavia i comunisti  evitano di essere molto precisi.

Voglio ora dire due parole per spiegare come alla fine della guerra i comunisti non arrivarono al potere. È un fatto inedito e drammatico.

Il 17 maggio Togliatti venne a Milano in via Amper, dove radunò i comandanti delle brigate Garibaldi. Il discorso che fece ad essi Togliatti fu molto semplice: dovete disarmare, disse, dovete accettare .gli ordini degli americani e tornarvene a casa, perché noi dobbiamo cambiare tattica. Una ventina di questi comandanti di brigata si rifiutarono, perché, essi dissero, avevano fatto alla guerra proprio per conquistare il potere Togliatti rispose che non potevano farlo per tre motivi: se lo facciamo adesso succede come in Grecia e noi dovremmo tornare in montagna perché gli americani ci spareranno addosso; secondo perché la popolazione è alla fame e se noi conquistiamo il potere gli americani non manderanno più un chicco di grano, anzi gli italiani ci spareranno addosso; terzo, perché io penso che noi possiamo arrivare al potere in Italia lentamente attraverso un dialogo con le forze cattoliche di sinistra.

Tuttavia la ribellione di alcuni capi partigiani comunisti non cessò ed uno di essi, che poi si è ritrattato, mi ha raccontato che ad un certo momento vide a quella stessa riunione uno scambio di occhiate tra Togliatti, Longo e Pajetta e capì quello che sarebbe successo. Infatti gli altri 15 o 16 capi partigiani comunisti sonò stati tutti uccisi nelle ore seguenti. Oggi i loro nomi campeggiano per le vie di Milano su bellissime lapidi con la scritta: ucciso dai nazi-fascisti.

Ora noi dobbiamo comprendere questa mentalità sovversiva della guerra rivoluzionaria, che i comunisti hanno perfezionato, man mano :adeguandosi alle condizioni politiche, psicologiche ed ambientati del popolo italiano. Che cosa credete che sia andato a fare Pajetta a Pechino in questi giorni se non per mettersi d'accordo perché alcuni :attivisti del P.C.I. si portino nel Vietnam onde addestrarsi? Non è necessario a mandarne molti, basta mandarne 50, perché l'esperienza n:segna che bastano 50 uomini per scatenare una guerra civile. Con Fidel Castro erano prima 80 e poi soltanto 16 uomini.

Comunque dobbiamo seguire l'evoluzione delle tecniche comuniste e mettere a punto i nostri sistemi per batterli. lo so che Beltrametti ha posto un problema: se dobbiamo adottare i loro sistemi noi verremo conflitto con i valori di cui siamo portatori. Però, caro Beltrametti, la contro-guerriglia c'impone comunque un'azione violenta ed io mi chiedo perché mi debba difendere in modo da attirare gli odi della popolazione, fucilando in piazza un terrorista come nel Vietnam, oppure cercare di prevenire ciò che fanno i comunisti con metodi più efficaci. Per esempio vi è il sistema della controbanda, che fu parzialmente sperimentato nel 1943-44 e '45 e che ha dato dei grattacapi per esempio al gruppo di Moranino. Il guerrigliero si sente forte finché colpisce il nemico in divisa che avanza; ma se non sa più dov'è il nemico, se se lo sente alle spalle o vicino a lui, scappa.

Venendo al momento attuale, noi sappiamo che i comunisti sono preparati per scattare, il loro dispositivo è perfettamente oleato. Che cosa si oppone ad esso in questo momento? Niente. Il comunismo sta: entrando lentamente nel santuario, il quale è completamente indifeso. Secondo me non ci sono possibilità di difesa. La classe politica è incapace, impreparata e non ha pensiero per queste cose. Essa si è già arresa. Allora è tempo di fare qualcosa che vada al di là di questo Convegno per fare praticamente qualcosa. Visto che possiamo aspettarci niente dall'Italia ufficiale, bisogna studiare con tutta calma la possibilità di difesa prescindendo dall'atteggiamento del potere politico ed anche dalle Forze armate. Da questo Convegno, da questi incontri, da tutti coloro che cominciano a prendere coscienza effettiva del pericolo e della sua reale configurazione, deve sorgere questa possibilità, se no è inutile che ci riuniamo a discutere. Occorre adottare sistemi altrettanto rivoluzionari di quelli che usano i comunisti, entrare cioè in un nuovo ambiente mentale. I comunisti hanno sinora -avanzato sul piano legale, ma non è escluso che al momento opportuno scatti il loro dispositivo militare. Le Forze armate godono la mia e la nostra piena fiducia e sono pronte a fare miracoli, ma non basta; perché i comunisti conducono una guerra completamente fuori da ogni schema fino ad oggi accettato.

Vi ringrazio di avermi ascoltato, ho finito di parlare e scusate la mia franchezza.

 

La controrivoluzione degli ufficiali greci

 Comunicazione del dottore GIANO ACCAME

 

Tra le risposte occidentali alla guerra rivoluzionaria quella dell'esercito greco merita una attenzione particolare, perché ci fornisce un esempio di reazione vittoriosa all'aggressione comunista nel quadro della «terza guerra mondiale ». Non rifaremo qui tutta la storia del durissimo conflitto che dal dicembre 1944 alla fine del 1949 impegnò i greci contro le formazioni dell'ELAS, l'esercito illegale comunista, limitandoci a brevi cenni su alcune situazioni più direttamente legate al nostro tema e soprattutto sulla parte che ebbe nella felice soluzione della campagna una lega militare denominata IDEA.

Lo scrittore greco-tedesco Johannes Gaitanides, a cui si deve il miglior panorama sulla Grecia d'oggi, osserva: Con appena una punta d'esagerazione si potrebbe dire: la Nazione ha battuto i comunisti nonostante il Governo. La necessità, che di solito è il più sicuro strumento di unificazione, non riuscì ad adempiere nemmeno in quelle ore al suo compito politico. Maggioranze friabili, sempre in movimento, che non davano nessuna continuità al comando e all'opera di ricostruzione, una burocrazia elefantiaca e parassitaria, incline agli abusi e malfida, ritardarono, insieme alle permanenti crisi di governo, il risanamento sociale ed economico. Dalla liberazione nell'ottobre del I944 sino alle elezioni del novembre I952 il paese bruciò una ventina di gabinetti, superando persino l'esempio francese, con una durata media di sei mesi. La Nazione non sarebbe sopravvissuta a questa labilità di direzione, se essa non fosse stata bilanciata dal contrappeso dell'aiuto americano e della monarchia (J. GAITANIDES, Griechenland ohne Saulen, List Verlag, 1963, p. 272).

In queste condizioni il compito dei militari non poteva restringersi a mansioni puramente tecniche; a loro spettava individuare tutte le cause degli insuccessi nella campagna contro i comunisti, e, se le cause più gravi risiedevano nella instabilità politica del paese, essi in qualche modo dovevano esercitare una pressione correttiva sulla politica, secondo una concezione globale dell'arte della guerra, che non può trascurare alcuno dei fattori che contribuiscono alla vittoria o che la ostacolano.

Dopo l'occupazione italo-tedesca della Grecia nel 1941, le prime formazioni regolari dell'esercito greco si riorganizzarono faticosamente, con l'assistenza degli inglesi, in Egitto ed in Palestina. Esse mantenevano contatti coi gruppi militari della resistenza fortemente impegnati in patria non solo contro i tedeschi, ma anche contro le bande comuniste dell'ELAS che, preparandosi a prendere il potere dopo la liberazione, cercavano di eliminare ogni concorrente. Al Cairo, ove si era rifugiato il Governo, gli ufficiali di grado più elevato e perciò più vicini alla politica erano disposti a trattare con i comunisti, aderendo passivamente alle direttive del Governo, privo di poteri ma non per questo meno travagliato da crisi e rimpasti. Papandreu dal Cairo giunse ad offrire sei ministeri del suo gabinetto ai comunisti nel maggio del 1944, quando già in Grecia i partigiani comunisti avevano assassinato, il colonnello Demetrio Psarros, capo dell'EKKA, una formazione della resistenza li sfondo liberale e governativo. I giovani ufficiali, al contrario, capivano che la situazione non si sarebbe sanata con dei compromessi e si associarono per propiziare interventi più drastici. Il 25 ottobre 1944 ad Atene venne fondata l'IDEA, una lega nella quale fini col confluire l'ENA (Enosis Neon Axiomatikon - Unione Giovani Ufficiali) formatasi in Palestina nel 1943 col compito di reagire all'influenza disgregatrice dell'estrema sinistra nelle nuove forze armate.

Ieros Desmos Ellinon Axiomatikon significa Sacro Vincolo degli Ufficiali Greci. I primi soci furono animati da una concezione quasi mistica dell'ellenismo, come lascia chiaramente intendere il carattere, da essi dichiarato « sacro », della loro organizzazione. Dei sette fondatori due sono rimasti ignoti; gli altri furono il capitano d'artiglieria Costantino Zacarakis, il capitano del genio Michele Kiurtsoglu, il capitano d'artiglieria Argirio Mardas, il sottotenente di fanteria Demetrio Alevras, poi caduto in combattimento contro i comunisti, ed il sottotenente del commissariato Giorgio Maraveleas. Essi formarono il primo direttorio, in cui entrò prestissimo il maggiore Giovanni Karabotsios, che fu probabilmente il principale ideatore dell'organizzazione, ma si trovava all'ospedale, ferito, all'atto della costituzione. Questi nomi vanno ricordati proprio perché rimasti oscuri, nonostante la grande parte avuta nella storia del loro paese: esempio di devozione silenziosa, di una passione divorante per l'efficacia nell'azione e quindi disposta a sacrificate sempre le apparenze ai risultati concreti. Non si sa nemmeno per quanto tempo conservarono il comando e se e quando passarono la mano ad altri colleghi, Di certo risulta soltanto che essi formularono la «dottrina dell'IDEA» in un EPTALOGO, poi integrato da successive precisazioni che lo storico dell'organizzazione, il luogotenente generale a riposo Giorgio Karaghiannis, elenca in un libro a circolazione riservata (Karaghiannis Gheorghios, Antistratigos E. A. - I940-I952 To drama tis Ellades - Epi kai Athliotites - I.D.E.A.; pagine 279, senza indicazione di data ma stampato nell'inverno 1962-63), in dodici punti:

1) L'IDEA credeva al libero sviluppo d'ogni attività umana nel quadro della legge ed alla giustizia sociale come necessità della moderna società ellenica; 2) era per la monarchia costituzionale (l'espressione impiegata è quella di «Regia Democrazia », Basileuomenis Dimokratias), ma lasciava i suoi aderenti liberi di votare, durante il referendum istituzionale, secondo coscienza, quindi anche per la repubblica; 3) gli affiliati potevano votare per qualunque partito nazionale ed era proibita ogni forma di propaganda e pressione psicologica a favore di un determinato partito; 4) andava evitata l'iniziazione di ufficiali superiori, che avrebbero potuto profittarne a fini personali; 5) doveva combattere ogni altra manifestazione associativa nell'esercito, che ne avrebbe minato l'unità, ed affrontare con le armi ogni tentativo di imporre soluzioni politiche con la forza; 6) gli ufficiali ammessi a far parte dell'IDEA dovevano distinguersi per «fanatismo patriottico, moralità, spirito combattivo, preparazione professionale, serietà di carattere »; l'iniziazione degli arrivisti e dei superficiali doveva essere evitata; costoro, se le loro. opinioni coincidevano con quelle dell'IDEA, dovevano essere utilizzati volta per volta, ma senza immetterli nei segreti dell'organizzazione; 7) gli ufficiali manifestamente legati a qualunque partito politico dovevano essere considerati nemici e sorvegliati; 8) l'IDEA doveva essere sempre e ovunque portatrice di una volontà d'ordine, di disciplina nell'esercito; i comandi potevano quindi contare sulla piena collaborazione degli ufficiali dell'IDEA e solo in caso di palese trasgressione ai doveri nazionali sarebbero stati affrontati come pericolosi per la patria; 9) il comunismo doveva essere considerato come nemico non solo della nostra, ma della stessa stirpe greca, « che esso cerca di far sparire dalla faccia della terra in piena collaborazione coi bulgari e con l'imperialismo russo panslavista »; 10) l'IDEA doveva adoperarsi per assicurare stabilità politica al paese; II) l'iniziazione di ufficiali di complemento era esclusa, malgrado molti di loro ne fossero veramente degni, per evitare il pericolo che i segreti dell'IDEA uscissero fuori dall'esercito dopo il loro congedo; 12) l'attività dell'IDEA doveva svolgersi in segretezza, per evitare la reazione dei partiti, che avrebbero costretto l'organizzazione o a sciogliersi o a difendersi con l'impiego della violenza.

Apparentemente semplicistico e contraddittorio, privo di ogni pretesa dottrinariamente organica, ma sempre marcato da una sana, simpatica generosità giovanile, questo programma rappresentava la somma delle aspirazioni più sentite tra i giovani ufficiali, ne appagava le esigenze di moralità, di serietà professionale, aggirava con istintiva scaltrezza i dubbi posti dallo spirito di disciplina, dalla repugnanza per le compromissioni col mondo politico e coi borghesi, solleticava il senso di casta sublimandolo nell'idea di una missione. Si trattò di una lega militare contro la piaga balcanica delle leghe militari, di una iniziativa politica contro la politica, di un mezzo per far meglio, più coscienziosamente, la propria carriera contro i carrieristi: offri tutti i vantaggi dell'intrigo e di una coscienza pulita. Alla fine del 1945 già un migliaio di giovani ufficiali in servizio permanente effettivo era affiliato all'IDEA.

Essa non ebbe mai un capo (tranne, per brevissimo tempo, il generale Solone Ghikas) preferendo mantenere tutta una gamma di poteri collegiali. I1 gruppo direttivo centrale (D.D.), Dioikousan Desmin, fu composto da cinque a sette membri con rapporti paritetici. Dal DD dipendevano i comandi periferici PDD (Perifereiakon Dioikousin Desmin) di Salonicco, Larissa, Kozani e Giannina. A questi comandi regionali erano sottoposti i «gruppi di guardia» (Desmai Frouron), a cui erano a loro volta subordinati i «gruppi d'unità» (Desmis Monados), formati ognuno da varie «cinquine» (pentada) o gruppi di cinque ufficiali. La maggior parte degli ordini veniva diffusa verbalmente; solo il gruppo direttivo centrale disponeva di un sigillo: un tondino con all'interno rozzamente raffigurati Armodio e Aristogitone, i tirannicidi. L'iniziazione non comportava particolari cerimonie, .né giuramenti: bastava la parola d'onore. L'IDEA è riuscita a serbare sino ad oggi i suoi segreti; su oltre un migliaio di ufficiali effettivi che ne fecero parte solo pochi Sono stati identificati e, per lo più, anche questi perché lo hanno voluto:

alcuni, delegati a mantenere i rapporti esterni, dovevano necessariamente scoprirsi per farsi portavoce dell'organizzazione.

L'IDEA fu sin dall'inizio sollevata da uno dei più gravi problemi che hanno sempre tormentato i gruppi politici e le società segrete: quello dei finanziamenti. Praticamente non ne aveva bisogno, perché l'organizzazione era snella ed i suoi affiliati, tutti ufficiali in servizio, erano mantenuti dallo Stato. Per la medesima ragione non doveva spendere un soldo per procurarsi le armi; lo Stato le forniva, obbligandoli alla disciplina, anche i soldati: invece di sprecare danaro per la propaganda, l'IDEA aveva un mezzo più diretto di convincimento, quello di comandare. Per le poche spese che non si confondevano naturalmente, come acqua nell'acqua, con il bilancio della difesa nazionale, i membri dell'IDEA sopperivano con quotazioni individuali di 20 dracme al mese: una cifra irrisoria, ma sufficiente.

  

Mentre l'IDEA si organizzava, la situazione generale del paese peggiorava paurosamente. La rivolta comunista di Atene del dicembre 1944 era stata domata con difficoltà e, dopo una illusoria pacificazione raggiunta tra il governo ed i partigiani, essa era ripresa nel marzo del 1946 sottraendo al controllo delle autorità legali tutta la Grecia centrale, da Florina al Parnaso, all'Olimpo, alla catena del Pindo, l'interno del Peloponneso e la maggior parte della Macedonia. Roccaforte del «generale» Markos Vafiadis erano le montagne del Grammos, vicino all'Albania, e del Vitsi, a ridosso della Jugoslavia. La disponibilità di basi logistiche su territorio straniero si rivelò come uno degli elementi essenziali per il successo della guerriglia: messi alle strette, i partigiani potevano sconfinare nei vicini Stati comunisti e, passando dall' Albania alla Jugoslavia e viceversa, ricomparire nella zona opposta a quella in cui l'esercito regolare, con grande spiegamento di forze, li aveva attaccati. Il fattore strategico che risolse la guerra fu la chiusura della frontiera jugoslava ai comunisti, decisa da Tito dopo la sua rottura con Mosca. Altro elemento decisivo fu lo stabilirsi di una relativa tregua politica fra i partiti legali, le cui lotte intestine avevano seriamente nuociuto allo sforzo militare della nazione. Fu proprio qui che apparve l'efficacia e l'importanza dell'IDEA.    '

Tenendo fede al suo programma, che escludeva là pura e' semplice identificazione con uno qualsiasi dei partiti, essa estese le trattative a tutti i settori politici anticomunisti. Ovviamente i punti di vista collimavano sempre di meno, man mano che si passava dai partiti di destra verso il centro-sinistra, ma ciò non impedì all'IDEA di stabilire anche con esponenti della sinistra ottimi, rapporti di collaborazione. A destra, ove prevaleva il Partito Popolare di Costantino Tsaldaris, si reclamavano misure di intransigenza; al centro misure di pacificazione. Era infatti convinzione dei moderati e delle sinistre non impegnate che molti guerriglieri non fossero veramente comunisti, ma cittadini democratici costretti a rifugiarsi in montagna per l'eccessivo rigore della reazione: si auspicavano quindi provvedimenti adatti a distinguere i comunisti, contro i quali era necessario combattere senza quartiere, dai loro alleati di circostanza, che potevano essere ricuperati. L'IDEA separò il giusto problema del recupero delle popolazioni dall'errore che rappresentava un ennesimo tentativo di «pacificazione ». Nelle zone occupate dai ribelli persino elementi monarchici erano costretti ad accodarsi a loro, perché minacciati di morte o di rappresaglie contro i famigliari; ed essi si confondevano con altri malcapitati,che per il loro generico progressismo erano stati classificati come comunisti e temevano rappresaglie dall'altra parte. Occorreva quindi fare una attenta discriminazione tra i prigionieri, per non tartassare degli innocenti, travolti soltanto dalle circostanze, mentre ogni concessione politica sarebbe andata praticamente a vantaggio del nemico. La mediazione dell'IDEA andò oltre questo problema particolare, propiziando la formazione di un Governo di concentrazione nazionale (quindi spostando l'asse politico dalla destra, che in quel momento governava da sola, verso il centro, così nuovamente associato alle responsabilità di potere) presieduto da Temistocle Sofulis, capo del partito liberale repubblicano.

I rapporti di collaborazione trii l'IDEA e Sofulis (che morì al potere nel giugno del 1949 dopo aver governato per quasi due anni) furono strettissimi ed il primo ministro accettò la maggior parte delle proposte che l'organizzazione segreta militare gli faceva pervenire. Raggiunta una relativa stabilità di governo, che consenti di assestare i primi duri colpi ai comunisti, si poneva ora la urgenza di riorganizzare le forze armate per metterle in grado di affrontare un tipo di guerra non convenzionale. L'esercito greco è stato il primo a impostare alcune moderne tecniche di lotta antisovversiva, che poi, dopo l'esperienza d'Indocina, furono elaborate, con maggiore mezza dottrinaria ma con ben diverso risultato finale, dai colonnelli francesi in Algeria. Come capita quasi, normalmente, le buone idee furono suggerite dalla situazione stessa e solo dopo ordinate in una teoria ancora fortemente osteggiata dai militari di mentalità tradizionale in tutto il mondo e che si riassume, in parole povere, così:, la collaborazione dell'elemento civile a tutti i livelli è un fattore essenziale nella risposta alla guerra sovversiva ed uno dei principali strumenti in cui si articola la collaborazione dei civili è rappresentato dai «gruppi. di autodifesa» costituiti fra la popolazione.

Nel 1946 il colonnello Ghikas, non ancora affiliato all'IDEA, si inc6ntrò con Karaghiannis e gli propose di estendere l'organizzazionesegreta a quella parte della popolazione che desiderava partecipare alla lotta anticomunista. Il direttivo centrale dell'IDEA, subito interpellato, rimase fermo al principio di non allargare le iniziazioni al di fuori dei giovani ufficiali effettivi (già una deroga fu l'ammissione di qualche ufficiale superiore, peraltro limitata a pochi casi)_ ma si adoperò alla costituzione di «gruppi di combattimento nazionali» da affiancare all'esercito soprattutto nelle operazioni di controllo dei territori ricuperati. A tal fine membri dell'IDEA presero contatto con i capi delle formazioni non comuniste della resistenza e vennero costituiti i primi nuclei civili d'autodifesa, col compito di proteggere da eventuali incursioni partigiane i villaggi che l'esercito non poteva permanentemente presidiare. Questi gruppi diedero occasione a frequenti lamentele per essersi trasformati in strumento per la esecuzione di vendette politiche, e, in seguito, di pressioneelettorale in favore dei partiti di destra, ma, nel complesso, risposero allo scopo e dimostrarono l'efficacia del contrapporre alla guerra partigiana altre formazioni egualmente affidate alla rapidità di intuito e di decisione, agili, sburocratizzate, pratiche del terreno ed al corrente delle opinioni di ognuno nella ristretta cerchia paesana in cui agivano. Ricevettero poi una struttura permanente e più ordinata con i TEA (Tagmata Ethnofilakis Amunis, Reggimenti di Difesa per la Guardia Nazionale), organismi paramilitari strutturati come le antiche guardie nazionali, di volontari normalmente non retribuiti, chetengono le armi a domicilio, si esercitano la domenica, intervengono in caso di necessità inquadrati da ufficiali dell'esercito.

I TEA, una delle più originali innovazioni nella risposta alla guerra rivoluzionaria, diedero un contributo notevole alla sconfitta del comunismo in Grecia. Fino a poco tempo fa i TEA bloccarono ogni fermento rivoluzionario, soprattutto nelle zone di confine, soggette alla infiltrazione di emissari dal mondo comunista. Recentemente il governo di centro-sinistra li ha smobilitati, imputando loro prepotenze e brogli elettorali; mentre è stata autorizzata la costituzione dei Lambrakides, una organizzazione giovanile di massa guidata dai comunisti, che, se non ha gli stessi caratteri paramilitari istituzionalizzati, li ha di fatto, ed è fatalmente destinata a prendere il posto dei TEA, ma all'estrema sinistra, come strumento di intimidazione.

Restava da risolvere il problema del comando: Ogni comandante d'armata o di divisione agiva per conto suo e cercava con dichiara:doni alla stampa di presentare se stesso come una stella del firmamento, facendo propri gli eventuali successi e facendo cadere sulle spalle dei colleghi gli insuccessi. Nessun coordinamento di operazioni e nessun controllo da parte del comando supremo dell'esercito, ma, dopo ogni rovescio, veniva sostituito il Capo di Stato Maggiore e

nominato un altro, sino a che a sua volta anche questo finiva col cadere (G. KARAGHIANNIS, loc. cit., p. 256). Per rimediare a ciò, L'IDEA propose la nomina del generale Alessandro Papagos, protagonista della brillante campagna del 1940-41 sul fronte d'Albania, come comandante supremo con pieni poteri; e Sofulis vi aderì, nonostante l'opposizione di vari partiti, che accusavano Papagos di fascismo per essere stato il più vicino collaboratore, in materia militare, del dittatore Metaxas. Fu l'ultimo importante atto politico del vecchio leader repubblicano, che di lì a poco morì, lasciando l'esercito nelle salde e capaci mani di un grande generale monarchico che lo avrebbe condotto finalmente alla vittoria.

 

Sino a qui la nuda e ristretta esposizione storica di un aspetto poco noto e praticamente inedito della lotta anticomunista in Grecia. Nel 1952 !'IDEA, vista la stabilizzazione della vita politica, raggiunti i suoi scopi, annunziava ufficialmente il suo scioglimento, senza riuscire tuttavia a convincerne le sinistre e il centro, che, appena smesso di tremare per il pericolo comunista, ripresero a lamentarsi contro i militari ed a esigere epurazioni nelle forze armate. Nel 1956 un gruppo di dodici ufficiali veniva allontanato dal servizio, come concessione che i politici di destra facevano al centro, per dimostrare la loro volontà di eliminare i residui dell'IDEA. Arrivato a sua volta al Governo, il centro-sinistra non cessa di lamentare complotti militari ai suoi danni e di minacciare provvedimenti. Ma le molte centinaia di ufficiali effettivi che a suo tempo aderirono all'IDEA sono tuttora in servizio e stanno facendo carriera. Nulla autorizza a pensare che abbiano mutato sentimenti, anche se, per riflesso, la Grecia vittoriosa sul comunismo si sta allineando tra le altre nazioni della zona critica, come !'Italia.

L'episodio ora descritto ci invita a ristudiare meglio, soprattutto con minore sufficienza, il fenomeno balcanico delle leghe militari. Nella prima metà del secolo esse hanno tracciato la trama segreta della storia greca. Nella maggior parte dei casi avevano un contenuto democratico, repubblicano, progressista; erano rivolte contro una società invecchiata, .impigrita e corrotta, che i giovani ufficiali si proponevano di rinnovare. Un grande esempio venne dalla Lega dei Giovani Turchi di Kemal, che ha costruito la Turchia moderna dalle rovine dell'impero ottomano. Per quanto riguarda la Grecia, la rivolta comunista di Atene del dicembre 1944 segna una svolta, forse la fine di questo fenomeno, sottraendo alle forze armate il monopolio .della forza e dell'iniziativa rivoluzionaria. E infatti l'IDEA, nata in funzione anticomunista, si sviluppa sul modello tradizionale delle leghe militari balcaniche, ne riprende l'aspirazione di ammoderna. mento,. di svecchiamento, di pulizia, con cui le nuove generazioni 'hanno sempre incalzato i vecchi «che si sono seduti », ma a differenza delle leghe che l'hanno preceduta è, sia pur con una certa ,disinvoltura, legalitaria. È interessante osservare come una società militare abbia saputo fare virtù dei suoi stessi difetti ed esprimere 'soluzioni efficaci adattando alle nuove esigenze i moduli più superati.

Ad un esame superficiale può sembrare che le leghe militari e le loro ricorrenti tentazioni di impiegare la forza in politica siano la principale malattia degli Stati balcanici. In realtà, la principale malattia è il loro endemico disordine politico e le iniziative politiche -o parapolitiche dei militari non ne sono che una manifestazione sintomatica e qualche volta addirittura un metodo di cura. Una società ordinata ed armonica limita i compiti dei militari, mentre una società disordinata e squilibrata allarga il loro dovere di intervento. Sottolineo la parola dovere: è infatti una naturale tentazione, ma al tempo stesso un dovere, per l'unico grosso nucleo sociale bene -ordinato che esiste in un paese, quello di intervenire anche in settori che non sono di sua stretta competenza per riportarvi ordine e porre un freno al dilagare della corruzione, dell'incompetenza, del tradimento contro gli interessi nazionali.

Esistono sempre zone di interferenza e compiti che, se male -assolti da chi vi è preposto, devono preoccupare altri. L'esercito

non deve interessarsi istituzionalmente dell'ordine pubblico, ma non può consentire sommosse alle sue spalle. L'esercito non deve interessarsi istituzionalmente di problemi economici, ma non può restare Indifferente al problema degli approvvigionamenti non solo per se, ma anche per la popolazione. Egualmente i responsabili della difesa saranno portati ad intervenire sulla programmazione dell'economia per evitare, ad esempio, che restino scoperti alcuni settori essenziali in caso di guerra, che si costruiscano certe industrie chiave in zone di confine o troppo esposte, che si trascurino le scorte di certe materie prime, ecc. La politica dei trasporti, la programmazione: delle industrie navali e aeronautiche, non competono istituzionalmente alla difesa, ma l'interessano. Così i problemi dell'istruzione e della qualificazione operaia e professionale. I responsabili della difesa non devono interessarsi istituzionalmente di problemi sociali, ma non possono nemmeno trascurare il fatto che certe campagne relativamente facili sul terreno militare siano poi terminate con una sconfitta per averne ignorato il sottofondo sociale: è il caso dell'Algeria, che una riforma agraria e l'integrazione dei musulmani caldeggiata da Soustelle e dai colonnelli dell'OAS avrebbe reso più difendibile. Forse è anche il caso del Vietnam, che una riforma agraria fatta a tempo avrebbe pacificato meglio dei marines. I responsabili della difesa non devono, infine, interessarsi istituzionalmente di problemi politici, ma abbiamo ora visto dall'esperienza greca quanto l'instabilità di governo abbia nuociuto alla condotta delle operazioni contro la ribellione comunista e come una premessa per debellarla sia stata appunto il favorire, anche con pressioni militari, la costituzione di un governo più stabile. L'azione dell'IDEA è interessante soprattutto perché essa ha individuato la misura di un intervento politico che al tempo stesso non rappresentò sconfinamento dai compiti prettamente militari. Gli ufficiali dell'IDEA non si trasformarono in piccoli politicanti in collusione di intrigo coi partiti. Restarono ufficiali; militari ed influirono sui circoli politici quel tanto che era necessario ai fini della difesa e della sopravvivenza del paese. Soltanto, non si fecero intrappolare da una concezione specialistica, tecnicistica, limitata, dei loro doveri verso la patria. Ebbero il senso della globalità della lotta che oggi si conduce contro il disgregamento delle libere e civili istituzioni ed integrarono la loro azione lì dove stava mancando quella dei politici. Non ci fu in loro una volontà di prevaricare, ma solo di colmare delle lacune, di raddrizzare delle storture. La delimitazione delle competenze è utile e necessaria, ma non deve diventare mai un pretesto per giocare a scaricabarile e lasciare che il paese vada alla deriva con la scusa che certi compiti toccano ad altri.

In linea di massima le condizioni politiche del proprio paese sono un dato della realtà a partire dal quale i militari devono impostare i problemi della difesa. Sognare condizioni politiche diverse è, in altre parole, un atteggiamento altrettanto ripugnante a una seria dottrina militare, come l'immaginare un terreno d'operazioni diverso da quello che è, per semplificare i problemi. Nella concezione globale della guerra gli errori della politica vanno calcolati come facenti parte delle difficoltà naturali, come gli ostacoli rappresentati da condizioni topografiche o atmosferiche. Il malgoverno va accettato come il maltempo. Pretendere di modificare il proprio governo è un po' come pretendere di modificare i rigori dell'inverno, il corso di un fiume, le asperità di una montagna. Tuttavia, come dei correttivi sono possibili rispetto agli ostacoli puramente naturali, così essi sono possibili anche rispetto a quelli politici. E più la situazione politica è incerta, friabile, più questa possibilità di modifìcarla esce dal novero delle posizioni velleitarie ed antiscientifìche, per rientrare in quello .delle misure che competono a chi abbia la responsabilità della difesa.

La esigenza di una più stretta integrazione fra società politica e militare non ha ancora trovato nuove forme istituzionali, ed è soprattutto l'assenza di queste, probabilmente, che ha costretto gli ufficiali dell'IDEA a riunirsi in una società segreta nel proposito di esercitare pressioni sul mondo politico oltre che sul loro stesso

ambiente militare invecchiato. L'irrequietezza ed i fermenti manifestatisi negli ambienti militari di diversi paesi democratici (si pensi alla Francia, che ha visto nascere la IV e la V Repubblica ad opera: di militari, come conseguenza della ribellione di De Gaulle nel giugno del 1940 e quella di Algeri nel maggio del 1958) sono forse anche momenti di incubazione di nuove strutture integrate in cui forza e legalità, militari e civili, trovino una via più moderna di cooperazione.

  

I giovani patrioti europei

 Intervento del 3 maggio del dottore GINO RAGNO

 

L'intervento del dr. Ragno sulla più clamorosa iniziativa presa a Berlino per favorire le fughe dei tedeschi dalla Germania comunista, è stato svolto attraverso la proiezione di diapositive.

Il dr. Ragno dopo aver accennato alle tre zone calde della g.r. - Vietnam, Berlino, America Centrale - ha proposto l'adozione di una nuova strategia occidentale e di nuovi metodi d'iniziativa psicologica per la difesa civile e si è domandato se esistono in occidente uomini e strumenti affinché in tutto il mondo, in Europa e in Italia, si possa passare alla controffensiva contro questo nuovo tipo di guerra senza fronte.

Egli ha poi proseguito richiamando l'attenzione su ciò che accade .a Berlino. La divisione della Germania offre a Berlino un quadro significativo di ciò che ha fatto la «giovane resisten7Ja tedesca» per violare ripetutamente il «va1lo costituito dal muro de1la vergogna ». Infatti esiste .a Berlino una tensione patriottica ed impaziente lungo non soltanto il muro di Berlino ma lungo anche i 1350 chilometri della cortina di ferro. Il vice cancelliere tedesco Erich Mende in proposito ha affermato che potrebbe divampare a Berlino e lungo il confine con la zona sovietica una seconda Algeria.

Comunque da Berlino ci viene oggi un esempio il quale dimostra che, vincendo la pigrizia mentale e lo scetticismo, si può violare l'incomunicabilità con il mondo sovietico.

Così il dr. Ragno ha illustrato, con una serie di diapositive scattate durante la fuga da Berlino est di 57 abitanti della zona sovietica attraverso un tunnel, l'impresa di un gruppo di giovani patrioti tedeschi ed europei, fra cui alcuni italiani. Sono state proiettate le scene più drammatiche delle escavazione del tunnel lungo 146 metri, il quale dalla Bemauerstrasse raggiungeva una toilette della Strelitzerstrasse nel settore Est. Il «commando» anticomunista ha impiegato sei mesi lavorando duramente alla profondità di dieci metri per sei mesi consecutivi, usando autorespiratori e maschere e spesso scavando immerso nell'acqua. Sono stati installati anche collegamenti telefonici fra la base del gruppo che operava a Berlino ed i giovani «fluchthelfer» (i volontari delle fughe), i quali in territorio comunista raccoglievano coloro che volevano fuggire in un cortile di una casa disabitata del numero 55 della Strelitzerstrasse.

Le diapositive presentate raccoglievano momenti di alta drammaticità. Si è visto infatti anche !'improvvisa sparatol1ia fra i «vopo» e la retroguardia dei giovani patrioti europei ed un sottufficiale dei «vopo» ucciso in un conflitto a fuoco nel tratto di galleria in zona comunista.

Il dr. Ragno ha anche ricordato che questa non è stata la sola impresa organizzata per favorire le fughe 'dalla Germania comunista e che ben quattro patrioti della «giovane resistenza tedesca» hanno pagato con la vita il loro amore per la libertà. Fra questi è stato citato il «fluchtbe1fer > Erich Noffke.

Con il suo intervento il cit. Ragno ha voluto sottolineare che la lotta anticomunista in Europa e in Germania ha già i suoi gruppi patriottici, i suoi volontari, i suo giovani eroi. «Da Berlino, dalle imprese coraggiose di pochi giovani - ha concluso il cit. Ragno - ci viene un esempio di come può essere pensata la risposta occidentale alla g.r. e tale esempio può contribuire per studiare, anche in Italia, i mezzi idonei per violare il campo nemico sia sul piano psicologico, sia su quello operativo ».

  

Un'esperienza controrivoluzionaria dei cattolici francesi

 Comunicazione del dottore ALFREDO CATTABIANI

 

Subito dopo l'ultima guerra alcuni giovani intellettuali francesi provenienti dagli ambienti genericamente anticomunisti e nazionali, cominciarono a riunirsi regolarmente per esaminare la situazione politica e per vedere se fosse possibile trovare degli strumenti efficaci per opporsi all'infiltrazione marxista, per combattere efficacemente la «guerra psicologica », come la definivano loro, che aveva sostituito in tempo di pace quella « calda ».

Questi giovani avevano capito che la rivoluzione comunista aveva adottato la propaganda, l'utilizzazione della cultura e l'infiltrazione in tutti gli ambienti professionali.

Era necessario quindi trovare una formula di reazione adatta alle nuove condizioni storiche: i partiti, e in modo particolare il partito cattolico unico, non potevano rispondere allo scopo perché non incidevano più sulla realtà politica e nello stesso tempo erano condizionati dalla stessa propaganda marxista, l'unica ad avere una certa incisività. Anche le alleanze fra gruppi affini per combattere il comunismo si erano dimostrate alla distanza prive di solidità e di vera efficacia,. anche se talvolta necessarie per fini tattici.

Il problema fondamentale che venne sottolineato allora dai primi amici del futuro « Office» era di penetrare capillarmente nel tessuto. connettivo della nazione, cosi come avevano fatto i comunisti, per compiere una vera e propria « riforma intellettuale» delle élites del paese, per sottrarle all'influenza diretta e indiretta del marxismo e per offrir loro una dottrina sociale e delle soluzioni politiche valide. Soltanto in questo modo diventava possibile un'opera controrivoluzionaria di vasto respiro. Attraverso le élites si sarebbe potuto incidere su tutto il paese.

Per ottenere un tale risultato era però indispensabile trovare. un'omogeneità dottrinaria che servisse come base per l'insegnamento ideologico e per l'azione in campo politico e sociale. Anche in questo .caso l'esperienza fatta dalle organizzazioni di ispirazione anticomuni.sta fra le due guerre aveva insegnato che l'eccessiva polverizzazione e la mancanza di chiarezza in campo filosofico, che giungeva spesso ad .accettare le tesi travestite della propaganda rivoluzionaria, portava come conseguenza diretta il fallimento di ogni iniziativa seria e sistematica.

L'unità ideologica fu trovata nella dottrina del diritto naturale e cristiano e nell'insegnamento dei Papi contenuto nelle encicliche. Il cristianesimo infatti, secondo i fondatori della «Cité Catholique» - così venne chiamata nel 1949 la loro organizzazione - era non soltanto il tessuto connettivo dell'Europa, ma l'espressione del più .autentico umanesimo, in quanto si identificava con quelle norme di diritto naturale che reggono la vita degli uomini e delle società.

Si trattava adesso di dare a questa dottrina una forma adatta a una certa opera di chiarificazione ideologica, di adattarla quindi alle -esigenze del momento e di presentarla infine nel modo più chiaro possibile. Essa infatti non doveva servire ad aride discussioni fra « intellettuali », ma alla formazione delle élites professionali dell'uomo medio, di chiunque fosse impegnato nella vita pubblica. L'opera -di approfondimento dottrinario non veniva certo scartata, ma era rimandata in altra sede. Gli amici della «Cité Catholique» avevano capito infatti che la migliore dottrina del mondo, anche i saggi più :seri e ponderati non avrebbero prodotto alcun effetto se non fossero :stati discussi, se non fossero diventati lievito per una maturazione morale e intellettuale e per un'azione in campo pratico.

         Venne fondata in questa prospettiva una rivista, «Verbe », che si presentava da un lato come un bollettino di informazione e di coordinazione, dall'altro come organo di presentazione periodica della dottrina della « Cité Catholique ». Nello stesso tempo nascevano nella provincia francese decine e decine di centri di studio, di gruppi di amici legati fra di loro o da motivi professionali o da un vincolo di natura locale, che cominciavano a studiare i temi delineati sulla rivista e sulle prime pubblicazioni, come « L'introduction à la politique ». «Le travail », «La famille », «Le Beau », «La vie sociale ou le problème des corps intermédiaires ».

Nel 1957 uscì. un'opera di mille pagine di Jean Ousset, « Polir qu Il regne », che SI presentò come la sintesi del1a dottrina del1a ,< Cité Catholique » e che diventò il libro-base per l'educazione politica delle cellule.

In questo saggio, che rappresenta a parer nostro uno strumento di lavoro fondamentale per la formazione ideologica del1'uomo-medio, viene esaminata dapprima la « rivoluzione» moderna in tutte le sue differenti manifestazioni dottrinarie e tattiche, cogliendo il fenomeno ::fin dalle radici, cioè nelle prime espressioni dello spirito ateo e progressista che risalgono ad alcuni secoli fa, e giungendo fino al1a sua attuale conclusione storica rappresentata dal marxismo. Viene quindi offerta una visione interpretativa, dal punto di vista storico-filosofico, che dà la possibilità al lettore di orientarsi di fronte ai fenomeni dell'epoca moderna e di superare certi pregiudizi inculcati proprio dalla «guerra rivoluzionaria ».

A questa parte cosiddetta critica segue una parte dottrinaria, che spiega qual'è la retta dottrina, quali sono i principI su cui essa si basa e quali soluzioni propone sul piano sociale. Jean Ousset si riferisce costantemente alle Encicliche Papali e a quegli autori che sono conosciuti per le loro posizioni «integrali» nell'ambito del cattolicesimo.

Infine vengono indicati i mezzi migliori per un'azione politica in campo sociale che, come abbiamo accennato precedentemente, consistono soprattutto in un'azione di propaganda psicologica fatta attraverso gruppi di studi a carattere locale e professionale, non ufficiali, quindi indipendenti formalmente dal centro - cioè dalla vera e propria «Cité Catholique» - collegati soltanto da un vincolo di fedeltà alla dottrina esposta nei testi dottrinari e da un impegno di applicarla costantemente e sistematicamente.

Queste cellule - scriveva Jean Ouset nel 1959 - sono presemi ormai dappertutto: nei salotti e nelle cascine, nelle capanne africane e nelle sale dei patronati, nelle università e nelle fabbriche, nei collegi e negli arsenali, nelle caserme e nelle officine delle ferrovie, nelle banche, nelle amministrazioni pubbliche e private, nei tribunali e negli ospedali... La gente arriva alla «Cité» da movimenti politici come «l'Azione cattolica », dai sindacati come dai terz'ordini, e la « Cité », che vuole essere essenzialmente «centrifuga », vede i suoi amici moltiplicarsi nei movimenti più disparati; il che dimostra ancora una volta come sia necessaria f,tna varietà di strumenti e di opere fra di loro indipendenti.

In tal modo l'azione del1a «Cité Catholique» veniva a svilupparsi attraverso i seguenti strumenti:

1) opere e saggi di formazione dottrinaria in campo filosofico,storico, economico, scritte in modo chiaro per un pubblico medio;

2) cellule di studio e di azione sociale autonome, decentrate, col1egate al centro da un vincolo dottrinario;

3) congressi annuali atti a rafforzare i legami fra i vari gruppi aderenti, ad approfondire certi temi fondamentali, a mantenere un clima di entusiasmo e di impegno;

4) indipendenza assoluta nei confronti della gerarchia ecclesiastica sul piano delle scelte di ordine temporale, perché l'organizzazione si presentava semplicemente come un'associazione di cattolici laici che si proponevano di applicare la dottrina della Chiesa. Sicché gli aderenti erano liberi di assumere, quando certe decisioni «temporali»della Chiesa contrastavano con il bene comune, un atteggiamento critico.

 L'organizzazione intanto cominciava ad avere fili azioni all'estero, in Belgio, in Svizzera, in Spagna, in Portogallo, in Argentina, in Cile, in Brasile, in Canada, in Australia. I libri fondamentali, come ad esempio «Pour qu'il règne », venivano tradotti nelle varie lingue contribuendo cosi alla formazione dei primi nuclei. Da questo fervore operativo gli unici assenti - ed è, a parer nostro, un fenomeno molto significativo - erano e sono gli italiani.

Le nuove dimensioni dell'organizzazione e lo sviluppo sul piano internazionale consigliarono i dirigenti a sciogliere nel 1963 la « Cité Catholique» e a permettere la costituzione di un nuovo organismo a carattere internazionale, L'« Office international des oeuvres de formation civique selon le droit naturel et chrétien », avente come funzione quella di mantenere una certa coordinazione fra i vari gruppi nazionali e internazionali, di curare la pubblicazione e la diffusione

delle opere controrivoluzionarie e infine di organizzare convegni, incontri e il consueto Congresso annuale. Una nuova rivista, «Permanences », sostituiva a sua volta « Verbe ».

L'ultimo congresso dell'« Office », tenuto a Losanna durante le feste pasquali del 1965 e dedicato al problema dell'informazione nel mondo moderno, ha visto presenti più di duemila delegati e partecipanti a titolo personale. Il successo di quest'iniziativa è ormai evidente. 1'« Office » è articolato come una vera e propria società pluralistica, formata cioè da molti corpi interdipendenti e operanti a livelli differenti. Accanto alle cellule professionali e locali, ai gruppi di studio, troviamo ormai associate a questa organizzazione riviste di alto livello come « Itinéraires » di Jean Madiran, il mensile di cultura cattolica che è il diretto antagonista di « Esprit », intellettuali e scrittori come Gustave Thibon, Marcel De Corte, Michel de Saint-Pierre, Louis Salleron, Alexis Curvers, Thomas Molnar, R.-Th. Calme! O. P.

L'azione di propaganda ha raggiunto proprio in questo ultimo periodo risultati di una certa consistenza: citiamo a titolo d'esempio il romanzo « I nuovi preti » di Michel De Saint-Pierre, venduto a più di 200.000 copie, che ha messo a fuoco il problema dei preti progressisti e filocomunisti; le rivelazioni intorno all'organizzazione comunista « Fax », finanziata direttamente dal governo polacco e infiltratasi negli ambienti cattolici di sinistra francesi; e infine la continua presenza critica nei confronti del progressismo cristiano e delle teorie di Teilhard de Chardin. Altri risultati, logicamente meno visibili, si sono avuti persino nell'ambito dell'esercito, in cui molti generali non nascondono la loro simpatia nei confronti dell'« Office ».

Quindi, ricollegandoci all'argomento di questo convegno sulla guerra rivoluzionaria, l'esperienza dell'«Office» ci ha insegnato che l'organizzazione dell'insegnamento dottrinario e della propaganda è uno strumento fondamentale per poter svolgere una funzione controrivoluzionaria nella società attuale.

 

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