Motivi del Ricorso per Cassazione 27 Maggio 1991

Motivi del ricorso per Cassazione del Procuratore Generale della Repubblica
 

INDICE

 

 

 

Motivi del ricorso per Cassazione del Procuratore Generale della Repubblica

Dottor Franco Quadrini sost. ................................................................................................ pag. 2

 

Motivi del ricorso per Cassazione

del Prof. Avv. Guido Calvi e Avv. F. Berti ........................................................................... " 22

 

Motivi del ricorso per Cassazione

dell'Avv. Paolo Trombetti e Prof. C.F. Grosso ...................................................................... " 30

 

Motivi del ricorso per Cassazione

dell'Avv. Giuseppe Giampaolo ................................................................................................ " 43

 

 

PROCURA GENERALE DELLA REBUBBLICA

 

BOLOGNA

 

 

 

 

 

 

PROCEDIMENTO PENALE N. 32/1989 R.G.C.A.

 

a carico di:

 

 

 

BALLAN MARCO + 19

 

 

 

imputati di associazione eversiva, banda armata,

strage e calunnia

 

 

 

 

MOTIVI

 

a sostegno della dichiarazione del RICORSO per CASSAZIONE

proposta avverso la sentenza emessa dalla

Corte di Assise di Appello di Bologna

in data 18 luglio 1990

 

IL PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA

presso la Corte di Appello di Bologna

 

 

 

deduce i seguenti motivi a sostegno della dichiarazione del RICORSO per CASSAZIONE proposto avverso la sentenza emessa in data 18 luglio 1990 dalla Corte di Assise di Appello - Sez. 2a - di Bologna che, in parziale riforma della sentenza emessa in data 11 luglio 1988 dalla Corte di Assise di Bologna:

 

1) ha assolto, fra gli altri, Licio GELLI. Pietro MUSUMECI, Giuseppe BELMONTE, Paolo SIGNORELLI e Massimiliano FACHIN1 dal delitto di cui all'art. 270 bis C.P., perché il fatto non sussiste;

 

2) ha assolto PAOLO SIGNORELLI, Massimiliano FACHINI, Roberto RINANI, Giovanni MELIOLI e Sergio PICCIAFUOCO dal delitto di cui all'art. 306 C.P., per non aver commesso il fatto;

 

3) ha assolto Massimiliano FACHINI, Sergio PICCIAFUOCO, Giuseppe Valerio FIORAVANTI e Francesca MAMBRO dai delitti loro contestati di strage, omicidio plurimo, collocazione di ordigno esplosivo, lesioni volontarie plurime ed attentato ad impianto di pubblica utilità, per non aver commesso il fatto;

 

4) ha assolto Licio GELLI e Francesco PAZIENZA dal delitto di concorso in calunnia aggravata, per non aver commesso il fatto;

 

5) ha escluso per Pietro MUSUMECI e Giuseppe BELMONTE, condannati per il delitto di concorso in calunnia, l'aggravante speciale di cui all'art. 1 della legge 6 febbraio 1980 n. 15;

 

6) ha condonato, di conseguenza, agli stessi imputati Pietro MUSUMECI e Giuseppe BELMONTE la pena loro inflitta per il delitto di concorso in calunnia nella misura di anni tre di reclusione;

 

7) ha omesso, nel dispositivo letto in udienza, la pronuncia in ordine al delitto di cui all'art. 270 bis C.P. contestato a Francesco PAZIENZA.

 

 

Nullità della sentenza a norma dell'art. 475 n. 3 c.p.p., in relazione all'art. 524 p.p. n. 3 c.p.p., per vizio di motivazione e limitatamente alle posizioni processuali evidenziate in premessa.

 

1. La motivazione della sentenza emessa dal Giudice di Appello non risponde ai necessari requisiti di completezza, di correttezza e di logicità.

Nell'itinerario logico - giuridico diretto alla ricostruzione dei singoli episodi, lo stesso Giudice, nel complesso, si è limitato ad un esame sommario e superficiale delle circostanze e degli elementi di fatto acquisiti e dai quali ha tratto il proprio convincimento, senza operare una necessaria, quanto doverosa e più approfondita disamina degli stessi.

Nel procedimento diretto alla valutazione degli stessi episodi, ad un giudizio analitico dei singoli indizi, emergenti da quelle stesse circostanze ed elementi di fatto, non ha fatto seguire quello di sintesi, unitario e logico; di valutazione globale degli stessi; di analisi del reale significato che potevano esprimere nel loro complesso e nella loro concatenazione logica.

La mancata coordinazione dei singoli elementi indiziari, già in maniera incompleta e sommariamente dedotti, e la omessa valutazione del loro significato unitario, ha determinato una artificiosa scomposizione dei dati di giudizio in una miriade di monadi, ognuna delle quali, isolatamente considerata, non ha potuto, come non avrebbe potuto, risultare idonea per la ricostruzione di una realtà complessa, per una interpretazione di questa nella sua effettiva portata, per un giudizio valutativo sulla stessa sufficientemente concludente.

Come metodo di base, soprattutto, lo stesso Giudice ha rifiutato ed omesso uno scrupoloso ed esauriente esame esteso all'interno e complesso materiale indiziario esistente ed offerto alla sua cognizione e valutazione proprio per determinarlo a fondare sullo stesso un più intelligente e consapevole convincimento e trarre, di conseguenza, un giudizio, in merito ai singoli avvenimenti, che fosse il frutto di una paziente opera di analisi dì una realtà, quanto più articolata e completa possibile.

Operando in tal modo, l'intera visione prospettica della complessa e multiforme vicenda processuale è risultata profondamente alterata nelle sue linee essenziali; recisa nelle sue coordinate logiche; monca ed insufficiente per una ricostruzione dei singoli avvenimenti aderente alle acquisizioni. Un vero e proprio errore logico nel processo di formazione del giudizio ha condizionato l'intera motivazione della sentenza ed, in maniera determinante, le conclusioni cui essa è pervenuta.

 

2. La visione storica degli avvenimenti, intesa come analisi, articolata e comparata, del loro susseguirsi in una realtà che non può essere disgiunta da quella precedente e da quella seguente, né può essere artificiosamente frantumata ed isolata nei suoi singoli momenti, costituisce un percorso logico - giuridico, diretto alla identificazione ed alla valutazione della prova, di per sé doveroso in ogni processo e necessitato per la conseguente ricostruzione dei fatti, ma diventa un imperativo irrinunciabile ed un itinerario obbligato in quello dove il Giudice è chiamato a pronunciarsi su uno degli episodi più gravi di violenza politica commesso in Italia, come la strage di Bologna.

Ed, invero, le istruttorie ed i giudizi dibattimentali che hanno preceduto quello in corso, e che concernevano i molteplici episodi di violenza politica verificatisi nel Paese, hanno posto in luce e documentato, in modo certo ed inoppugnabile, l'esistenza di un indissolubile intreccio tra i momenti più significativi della storia della politica nazionale e quelli della simultanea attività eversiva e terroristica, tra due realtà che correvano, quindi, in parallelo e diventavano, per ciò stesso, logicamente e probatoriamente sovrapponibili.

Ne derivava la necessità di assumere come elementi di giudizio, di rilievo essenziale e decisivo, l'imponente materiale probatorio raccolto nelle diverse procedure giudiziarie, per l'arricchimento che esso poteva fornire in merito ai comportamenti, a volte perfettamente e significativamente ripetitivi, alle intese, ai programmi ed agli obiettivi che, di volta in volta, erano stati incidentalmente accertati come frammenti di una realtà, non sufficienti, isolatamente considerati, ad un accertamento giudiziario di responsabilità penale, ma che, successivamente, nel loro insieme ricompattato, rappresentavano un insostituibile patrimonio di conoscenze, nuovamente valutabile per fini diversi e determinante per una intelligente e completa ricostruzione dei lineamenti delle strutture, che avevano programmato e portato avanti una attività di violenza politica, e degli obiettivi politici, che con questa si intendevano perseguire.

Diventava, ancora, essenziale per la comprensione stessa di un episodio di violenza politica una analisi non limitata al singolo avvenimento, ma una lettura ed una interpretazione di questo come fatto inserito in un contesto storico e nei vari passaggi della storia stessa della violenza politica.

La costante mancanza di una concludente risposta giudiziaria su ogni singolo atto di strage ha oramai definitivamente dimostrato l'erroneità di una opposta metodologia operativa e l'impossibilità di trarre da questa una chiave interpretativa, sufficientemente sicura, per la comprensione di quegli episodi di terrorismo, che si sono puntualmente succeduti nel tempo.

A queste deludenti conclusioni si è pervenuti proprio per il rifiuto di un inquadramento e di una impostazione atomistica della ricostruzione dei singoli avvenimenti, posto in essere ad ossequio della ricerca di una impossibile prova processuale inserita, con tutto il suo spessore decisivo, ed ogni volta, nel singolo processo.

La realtà processuale ha dimostrato, al contrario ed oramai in modo incontestabile, come sia impossibile comprendere i motivi che spingono a compiere atti di violenza politica e, di conseguenza, decifrarne a pieno le sue componenti, se non vengono inquadrati all'interno di una ricostruzione unitaria dei singoli avvenimenti eversivi, che si sono susseguiti sulla scena politica nazionale per quasi un ventennio.

A ben diversa soluzione può giungersi unicamente con la volontà di applicare un metodo, nella individuazione e nell'analisi degli elementi di giudizio, che consenta l'integrazione del materiale probatorio, il collegamento dei vari filoni di accertamento, la ricostruzione delle coordinate ideologiche, politiche ed ambientali nelle quali ha prosperato il terrorismo.

Solo non abbandonando e non sottovalutando il metodo della ricomposizione del quadro; solo compiendo uno sforzo diretto ad una conoscenza obiettiva e dialettica, ossia storica e, per ciò stesso, articolata e risalente nel tempo, dell'intero arco degli avvenimenti di violenza politica, è possibile riconoscere il filo unitario che ha legato i vari atti di terrorismo; individuare le singole responsabilità; stringere il cerchio anche attorno ai mandanti ed ai manovali della violenza; capire, prima ancora, quale sia stato l'obiettivo politico di questi; cogliere, m conclusione, le radici del fenomeno per riconoscerne i frutti ed avere di questi una completa conoscenza.

In definitiva, la natura stessa del crimine, la sua indubbia matrice politica esigono — come per i delitti della criminalità organizzata — preliminarmente una esauriente e diligente ricostruzione del contesto storico - politico nel quale è venuto a collocarsi; impongono la conoscenza, più estesa e completa possibile, del retroterra organizzativo, dal quale è partita ed ha tratto impulso la violenza politica e nella quale ha ritrovato la sua unitaria matrice ideologica; quella ulteriore degli obiettivi finali che lo stesso si proponeva e del suo intero organigramma, come unica possibilità metodologica per giungere alla individuazione della prova anche in merito alle responsabilità individuali di coloro che hanno portato avanti una strategia di terrore o di questa si sono avvalsi per i loro obiettivi politici e di quanti si sono assunti il compito di assicurare l'impunità.

L'aver omesso, sottovalutato o non tenuto in debito conto tali elementi di giudizio; l'aver proceduto ad una disarticolazione del significato complessivo dei singoli momenti di violenza politica e, di conseguenza, ad una ingiustificata svalutazione del reale messaggio che le prove e gli indizi emersi potevano esprimere nella loro visione di insieme, ha significato un rifiuto, da parte dell'interprete della realtà, di compiere un doveroso sforzo di penetrazione e di decifrazione degli avvenimenti proprio nel momento più rilevante del suo magistero, quello dell'accertamento e della ricostruzione di essa.

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4. Gli episodi di violenza politica che, puntualmente e significativamente, esplodevano nel corso dell'anno 1969 e facevano da corona alla strage di Piazza Fontana, meritavano di conseguenza, da parte del Giudice di Appello, una adeguata e profonda analisi per poterne cogliere la naturale e logica evoluzione dei contenuti ideologici e programmatici...

 

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Così, a seguito di un altro esecrabile atto di terrorismo, quale la strage consumata a Peteano, Vincenzo VINCIGUERRA, reo confesso di essa, poté notare che "automaticamente scattò a suo favore... una copertura da parte di tutti i servizi informativi all'epoca operanti...".

"Comprese anche quale fosse il fine politico di questa copertura: poiché l'attentato veniva presentato come attuato da elementi della sinistra, ... si voleva evitare che la matrice di destra fosse resa nota...".

Con l'attentato di Peteano, VINCIGUERRA ebbe finalmente "chiara consapevolezza dell'esistenza di una vera e propria struttura occulta, capace di porsi come direzione strategica di attentati e non solamente, come aveva pensato in precedenza, di una serie di rapporti umani di affinità politica tra persone che operavano all'interno degli apparati statali ed altre operanti nel suo ambiente".

Questa struttura, "per raggiungere i propri scopi politici prevedeva anche l'utilizzo di attentati o facendoli eseguire da autori incolpevoli o eseguendoli direttamente o, comunque, istigando, e dando di fatto copertura a coloro che li eseguivano, quando ciò fosse stato funzionale al perseguimento dei fini strategici da essa individuati".

Ancora una pagina processuale, di notevole e significativo rilievo probatorio per l'internità della sua fonte e per i riscontri cui è corroborata, dalla quale potevano trarsi elementi di prova non solo della continuità operativa del Movimento di Ordine Nuovo nella ispirazione, nella progettualità e nella esecuzione degli atti di terrorismo politico, quanto più della permanente saldatura esistente tra le azioni del primo e l'opera di copertura e di favoreggiamento dei servizi di informazione, come rispondente ad un progetto di intervento globale, obbediente a precisi obiettivi politici e riconoscibile unicamente attraverso una analisi completa degli avvenimenti, ricostruiti nel loro fluire e nella loro visione di insieme.

 

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"La tesi, secondo la quale membri di Ordine Nuovo avrebbero eseguito la strage in quanto ispirati, armati e finanziati dalla Massoneria, che dell'eversione e del terrorismo di destra si sarebbe avvalsa per bloccare il progressivo slittamento a sinistra del Paese, ha trovato gravi e sconcertanti riscontri nel processo, soprattutto con riferimento alla ben nota Loggia Massonica Propaganda 2... Deve, poi, sottolinearsi essere provati i rapporti tra la Loggia P2 e gli extraparlamentari di destra aretini,...".

Da quelle pagine processuali scaturiva, ancora una volta, l'accertata esistenza di un filo unico che collegava una ideologia politica, i tentativi di scuotimento delle Istituzioni e gli attentati terroristici alla prima strumentali e di un miscuglio di intese tra gruppi della eversione violenta, frammenti di Stato ed una organizzazione segreta, intrecciata per una comune ed immutata identità dello scopo politico da perseguire, che rappresentava al tempo stesso il fattore unificante che rannodava le multiformi strategie operative in una trama omogenea e le poneva, di conseguenza, sotto una unica direzione strategica.

Questa era sempre più riconoscibile nella lega gelliana e nell'uomo che teneva asservito al suo potere i sodali con il giuramento - testamento di "pronta, cieca ed assoluta obbedienza"; in colui che riteneva "un grave pericolo... la penetrazione del comunismo" ed incitava ad "agire subito e ad abbandonare i filosofismi, di fronte al timore di svegliarci un brutto giorno con i clericali ed i comunisti al Governo". Per questo obiettivo non disdegnava l'elaborazione di un complesso programma operativo, articolato in ogni sua forma possibile, composto anche di violenza e di terrorismo, ma sempre idoneo allo scopo e modellato alla situazione contingente.

 

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Puntualmente, quella estate, il 4 agosto avveniva il massacro del treno Italicus ed il 10 agosto, la notte di S. Lorenzo, vi era un tentativo di soluzione istituzionale di stampo autoritario, nel quale rimanevano coinvolti personaggi iscritti alla Loggia P2, appartenenti ai Servizi di Sicurezza ed ai vertici delle Forze Armate.

Augusto CAUCHI, appartenente all'articolazione aretina del Movimento di Ordine Nuovo, veniva indicato dal Gen. SANTOVITO, direttore dei Servizi Segreti ed affiliato alla Loggia P2, come collaboratore del SID e nel contempo, dal teste BOLDINI, come finanziato da Licio GELLI per "puntare sul tema della difesa dell'iniziativa privata, in rapporto alla scelta dell'anticomunismo, in vista del dopo - referendum".

Nel corso delle indagini sulla tragedia del treno Italicus, il Gen. BITTONI, affiliato alla stessa Loggia P2, si rivolgeva proprio al GELLI per essere "illuminato" dalla "lungimiranza" di quell'"esperto", inscenando, in tal modo, un autentico rituale che verrà puntualmente ripetuto anche nel corso delle indagini sulla strage di Bologna, ad univoca dimostrazione della immutabilità dei comportamenti e della decisiva rilevanza di una loro valutazione nella completezza del loro susseguirsi.

 

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Che il vertice dei Servizi di Sicurezza, composto dal Gen. SANTOVITO, dal Col. MUSUMECI e dal T. Col. BELMONTE, avesse posto in essere una dolosa macchinazione diretta a predisporre prove false ed accusare persone innocenti e da questa avesse tratto anche benefici economici personali, costituiva oramai accertamento definitivo ad opera dei giudici romani, che avevano indagato solo su alcuni comportamenti riferibili alla stessa struttura e limitatamente ad una specifica ipotesi accusatoria.

Accertare se la stessa macchinazione fosse stata predisposta anche per incidere sull'andamento delle indagini in corso sulla strage di Bologna, se tra i due avvenimenti vi fosse un filo di collegamento; se fosse riferibile anche ad altri soggetti, collegati ai primi da vincoli extra - istituzionali; se in definitiva dovesse inquadrarsi in un più ampio contesto strategico e rappresentare la manifestazione esteriore di un vincolo associativo esistente tra soggetti che avevano cosi operato per ben altri e diversi fini, era compito che il giudice romano aveva rimesso a quello bolognese, per essere lo stesso estraneo all'oggetto del proprio giudizio e comunque impossibilitato ad essere portato a termine, per carenza di un adeguato supporto processuale.

Era, quindi, dovere del giudice di Bologna procedere ad una integrazione del materiale probatorio; affrontare una disamina penetrante e minuziosa dei comportamenti dei singoli imputati, quali emergenti dall'intero incarto processuale acquisito; operare un giudizio di sintesi del significato che ogni indizio riusciva ad esprimere singolarmente; inquadrare, in definitiva, la vicenda in un più ampio contesto, processualmente individuabile ed indicato dalle parti.

In questa direzione, cioè, si rendeva necessitata un'opera di penetrazione più acuta da parte del giudice di appello e ciò, non soltanto per l'esplicito rinvio contenuto nella sentenza romana e la verifica della prospettazione della tesi accusatoria, che pur si presentava ampiamente esposta e motivata, quanto per l'indicazione della stessa difesa di alcuni imputati e, soprattutto, per l'esigenza di una adeguata valutazione logica delle motivazioni dei singoli comportamenti, operata con riferimento specifico alla diversa ed attuale imputazione.

Molteplici erano gli elementi dai quali si sarebbe potuto dedurre, in maniera univoca e concordante, che la illegittima appropriazione dei fondi rappresentava, nella dinamica dell'intera ed articolata vicenda, solo un dato di fatto accertato, uno tra i molteplici comportamenti posti in essere dalla triade (SANTOVITO, MUSUMECI e BELMONTE) al vertice del SISMI, ma non l'obiettivo finale della stessa.

Già la natura stessa della operazione c.d. terrore sui treni, altamente riprovevole per le sue finalità dirette a predisporre, nei confronti di persone innocenti, elementi di accusa per un gravissimo reato di strage, non era logicamente compatibile con motivazioni di ordine esclusivamente truffaldine.

La personalità degli imputati, appartenenti ai gradi più elevati della gerarchia dell'Arma dei Carabinieri; le loro funzioni ai vertici del massimo organo di sicurezza dello Stato; la ingente disponibilità di fondi da parte di questo ente e la possibilità del loro utilizzo ad opera dei primi con elevato margine di discrezionalità, diradavano ancor più una simile ipotesi, che incominciava a mostrare i contorni di un alibi, architettato per nascondere responsabilità ben maggiori.

Già la sentenza romana, d'altronde, aveva accertato che BELMONTE, nella evoluzione dell'intera vicenda, era stato "doppiamente menzognero" ed aveva predisposto "atti soggettivamente ed oggettivamente falsi, creati in vista di una futura paventata utilizzazione processuale" (f. 55 sent. app.), riconoscendo, in tal modo, allo stesso un'attitudine alla dolosa prefabbricazione di comportamenti da ostentare a mascheramento di altri, di più marcato spessore criminoso.

L'impegno diretto, ed altamente rischioso, degli stessi imputati nella fase meramente esecutiva della operazione, testimoniavano ancora, in maniera univoca e determinante, l'importanza della posta in gioco e la rilevanza dell'obiettivo che si intendeva raggiungere, che logicamente non poteva coincidere con un semplice ed esiguo vantaggio economico.

La prospettazione da parte degli stessi imputati della inesistenza di una ipotesi calunniosa e del fine unicamente informativo e di indirizzo dell'Autorità Giudiziaria verso i veri responsabili di quell'atto di strage toglievano, infine, ogni residua giustificazione logica ad un anomalo impossessamento di danaro come compenso per l'attività svolta, per l'incompatibilità tra il fine istituzionale di questa e le modalità di sotterfugio del primo.

La composizione dell'esplosivo messo nella valigia, perfettamente identico a quello che i periti di ufficio avevano indicato come utilizzato per la strage di Bologna; il contesto processuale nel quale l'operazione veniva a collocarsi, proteso ancora verso la esatta puntualizzazione della matrice organizzativa dell'atto di terrorismo, ponevano, poi, i due avvenimenti in diretto ed immediato collegamento tra loro e li univano in una concatenazione logica, dalla quale non si poteva venir fuori fermandosi alla superficie, con una operazione di rifiuto a procedere fino in fondo.

Le modalità esecutive dell'azione che, in effetti, potevano indirizzare l'Autorità Giudiziaria procedente verso Massimiliano FACHINI, per il mitra artefatto posto nella valigia, ed a Valerio FIORAVANTI, per il momento ed il luogo in cui l'intera operazione era stata gestita (la collocazione della valigia era avvenuta sul treno in partenza da Taranto, dove Valerio FIORAVANTI, ed il suo gruppo, disponeva di un rifugio e nei giorni in cui questo veniva abbandonato) costituivano altri elementi, di univoco significato, dai quali il Giudice doveva dedurre, con i caratteri della certezza, che quel collegamento si estendeva fino a ricomprendere anche coloro che venivano indicati come gli autori della strage e che il vero obiettivo dell'azione poteva cogliersi solo all'interno di questa triangolazione: strage di Bologna, indagini sui suoi autori, valigia sul treno.

 

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La magistratura bolognese aveva diretto la sua attenzione verso il panorama italiano della estrema destra eversiva: aveva adottato, appena poche settimane dopo la strage, provvedimenti cautelari nei confronti di numerosi neofascisti, sulla base di un rapporto della DIGOS di Roma; alcuni inquirenti avevano avuto anche parole di elogio per l'attività investigativa svolta dal SISDE.

Con la massima tempestività, il vertice del SISMI e coloro ai quali questo era indissolubilmente legato, si adoperavano ad inaridire il terreno di cultura della magistratura procedente e nel contempo a deviarne il percorso in un ambito nebuloso e di fatto a quella inaccessibile.

Fin dalla prima manifestazione concreta dell'attività inquirente dei giudici bolognesi, nell'immediatezza di essa e con continuità di azione, i comportamenti dei soggetti che trovavano il loro punto di raccordo nella struttura dei Servizi di Sicurezza e contemporaneamente nella Loggia P2, si atteggiavano in maniera significativamente unitaria e confluente, con un rapporto di funzionalità e di complementarità, verso la denigrazione delle piste prescelte e la prospettazione di quella matrice internazionale dell'atto terroristico.

 

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Se anche questa vicenda fosse stata collegata con la precedente, il Giudice avrebbe colto, in un panorama di insieme, le ragioni logiche di tali comportamenti ed avrebbe individuato la prova univoca dell'esistenza di un filo di collegamento che univa i comportamenti di Francesco PAZIENZA, quelli dei vertici del SISDE e del SISMI e le "indicazioni" di Licio GELLI, al quale questi ultimi erano saldamente legati dal vincolo di affiliazione massonica.

Il Col. GIOVANNONE, infatti, era presente al colloquio tra Francesco PAZIENZA ed il giornalista Andrea BARBERI in merito al terrorismo internazionale ed era stato lui a promettere uno sviluppo più consistente della pista internazionale. L'intervista pubblicata dalla Rita PORENA costituiva, quindi, solo un primo passo verso una più ampia ed articolata manipolazione delle informazioni, destinata a protrarsi a lungo, fino ai viaggi del Giudice Istruttore in Libano, nel luglio e nel novembre del 1981, propiziati e gestiti dallo stesso Col. GIOVANNONE.

La "pista libanese" veniva, cioè, ad inserirsi coerentemente in una più vasta manovra deviante ed a rappresentare una delle articolazioni di quella "pista internazionale" del terrorismo che doveva essere "necessariamente" seguita in alternativa a quella delle formazioni annate del neofascismo italiano e dei loro protettori, che dovevano invece rimanere nell'ombra.

Si materializzava, a questo punto, la prova diretta su un ben delineato gruppo di persone, confluente nelle stratture del SISDE e del SISMI e nella Loggia di Licio CELLI, sul progetto preciso che intendevano portare avanti e sull'obiettivo unitario che perseguivano.

Francesco PAZIENZA ed i vertici del SISMI da un lato e Licio GELLI ed i vertici del SISDE dall'altro, attraverso organi di stampa ed "illuminando" i fratelli della Loggia, agendo con azioni contestuali e coordinate ed a ridosso dell'emissione degli ordini di cattura per la strage, condividevano l'estrema "sfiducia" per la pista prescelta dagli inquirenti e provvedevano ad indicare la "necessità di seguire quella internazionale, nel cui groviglio la magistratura sarebbe rimasta intrappolata, nel cui campo di indagini impantanata, con conseguente perdita della credibilità della sua stessa immagine e della sua attività.

La forsennata opera di inquinamento della prova, portata avanti dai vertici dei servizi informativi, era pervicacemente diretta allo scopo e rappresentava la manifestazione concreta del ruolo assegnato agli stessi nell'ambito del vincolo associativo che annodava quel gruppo di persone.

In conclusione, solo da una analisi completa ed attenta della quantità e della qualità dei documenti informativi inviati dai Servizi di Sicurezza alla magistratura il Giudice di appello avrebbe potuto dedurre, con i caratteri della univocità, la inconsistenza della tesi difensiva diretta a sostenere il loro obiettivo di indirizzo degli inquirenti verso la reale matrice operativa della strage di Bologna.

Il loro contenuto estremamente vago, mai preciso ed a volte spudoratamente disinvolto nell'indicare una molteplicità di filoni di indagini, anche contrastanti tra loro e con la realtà emergente per altre fonti, mal si conciliavano con il fine dichiarato e non poteva trovare una seria e logica giustificazione neanche con l'asserita esigenza di dover comunque soddisfare gli inviti e le sollecitazioni, talora pressanti, del Giudice istruttore.

Testimoniavano, al contrario, che organismi deputati istituzionalmente alla ricerca della verità facevano un uso perverso della comunicazione. Si servivano di essa non per informare ma per disinformare; non per aiutare la ricerca della verità ma per ostacolarla; non per fornire dati certi ma contraffarli ed assegnare loro un significato contrario alla realtà.

Rappresentavano la prova documentale di una tenace, ostinata e sottile manipolazione delle informazioni, dalla quale non poteva dedursi altro, con una rigorosa operazione di conseguenzialità logica, che l'intento era quello di allontanare il magistrato inquirente da quel gruppo di neofascisti italiani raggiunti da provvedimenti di cattura e distoglierne l'attenzione diretta ad un maggiore e più pericoloso approfondimento dei loro collegamenti operativi.

Le modalità esecutive della c.d. "operazione terrore sui treni" veniva a porsi come preciso riscontro obiettivo ed assegnava a questa deduzione gli ulteriori caratteri della univocità e della certezza, conferendo alla stessa la dignità di piena e determinante prova processuale.

 

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In conclusione, da una valutazione globale dei comportamenti e da un giudizio di sintesi degli elementi indiziari emergenti dagli stessi, il Giudice di appello avrebbe compreso il reale contenuto e l'univoco significato della "dolosa macchinazione": rappresentava una calcolata miscela di verità e di menzogne, capace di far presa e nel contempo di fuorviare, idonee le prime per un eventuale utilizzo processuale a proprio favore e le seconde per raggiungere l'obiettivo prefissato, quello di rendere sterili gli elementi veri e di condurre il magistrato a conclusioni improduttive o a determinarlo a valutazioni decisamente negative.

Avrebbe, in tal modo, individuato la prova logica, rigorosamente univoca e coerente, di come l'intera messa in scena non rappresentava altro che un'abile opera di favoreggiamento, attuata dal servizio informativo deviato, in obbedienza ad un copione oramai consueto e con lo scopo primario di impedire la scoperta di un filo di collegamento che univa il gruppo operativo alla stessa struttura ed a quanti a questa erano collegati da vincoli non palesi; di scoprire in definitiva, il sodalizio che li accomunava nel segno di una comune matrice ideologica e di una identità di obiettivo politico.

Venuta, infatti, meno qualsiasi altra logica motivazione, soltanto l'esistenza di un legame di qualche natura tra gli autori della strage e gli artefici di quella forsennata opera di simulazione poteva coerentemente spiegare simili comportamenti: o la strage era stata eseguita dai primi su mandato degli altri o la stessa, sebbene autonomamente organizzata ed eseguita, rientrava in un comune progetto politico; si poneva come mezzo e fine per chi doveva essere in grado di dare una dimensione politica allo smarrimento dell'opinione pubblica di fronte a quell'atto terroristico e, di conseguenza, la sua gestione richiedeva necessariamente che non ne fossero scoperti i responsabili.

"Un atto di strage non ha senso se non vi è chi può coglierne gli effetti politici", affermava Fabio DE FELICE.

Coerentemente una ostinata opera di deviazione processuale, in un atto di strage, non ha senso se non si collega, direttamente ed immediatamente, a chi quegli effetti politici è deputato a gestire e ad assicurare.

La immediata e puntuale scoperta della matrice organizzativa di quell'atto di terrorismo; la conseguente cattura dei referenti della lotta armata della estrema destra, che questo aveva eseguito, proprio nella consapevolezza della esistenza e della disponibilità di un valido apparato istituzionale di protezione; la consapevole possibilità di una estensione delle indagini verso la giusta direttrice e fino a ricomprendere i collegamenti esistenti tra i primi ed i secondi, il progetto che li aggregava, i compiti a ciascuno assegnati ed il sodalizio nel quale avevano trovato il punto di raccordo e che era deputato a dare una dimensione politica alle loro azioni, avevano determinato i vertici di questo sodalizio verso comportamenti di autodifesa ed alla predisposizione di strumenti operativi idonei allo scopo.

Quei collegamenti operativi tra chi doveva condurre una lotta armata e chi doveva garantirne la indecifrabilità, funzionale alla sua gestione politica, dovevano rimanere, come sempre, occulti, perché altrimenti avrebbero svelato la reale natura eversiva del sodalizio, il suo obiettivo politico, il progetto che, per questo, intendeva portare avanti, anche con l'utilizzo della violenza.

E la posta in gioco ed il livello di rischio erano diventati, ad un certo punto, talmente alti che l'intero vertice dell'"organismo parallelo" dovette scendere in campo, chi "illuminando" ed indirizzando allo scopo i comportamenti altrui, chi dando a questi concretezza operativa, con una sequenza di idonee manovre fuorvianti, entrambi non esitando, alla fine, ad incolpare persone innocenti.

Per la messa a punto di questo piano calunnioso gli operativi si trovavano insieme, in prima persona, nella immediatezza della sua esecutività. Di tale delicatezza era l'operazione che non poteva essere trattata da intermediari e richiedeva l'intervento diretto di chi l'avrebbe interamente gestita, dell'uomo che era alle dirette dipendenze del Gen. SANTOVITO e, nel contempo, a diretto contatto con Francesco PAZIENZA, stretto collaboratore del primo, e con il Maestro Venerabile della sua Loggia di appartenenza.

Tanto grande era diventato il timore che una verità su un atto terroristico, riferibile all'operatività della estrema destra, fosse finalmente scoperta; che una realtà fosse interamente penetrata e smascherata nelle sue articolazioni e nei suoi collegamenti ideologici, programmatici ed esecutivi, che il vertice operativo di quell'"organismo parallelo" si fece trovare "con le mani nel sacco", impegnato ancora una volta a rendere indecifrabile un altro atto di terrorismo, per la sua gestione e l'utilizzo politico dello stesso.

Così era avvenuto anche a seguito della strage di Peteano, quando ancora un Generale dei Carabinieri, appartenente al sodalizio di Licio GELLI e su sollecitazione di questi, aveva fatto "pressioni" per attribuire l'attentato ad oppositori politici; per impedire che si indagasse sull'estremismo di destra; per trarre, in definitiva da quel gesto criminale una retribuzione politica, anche attraverso la concessione dell'impunità ad un terrorista e ad un assassino di vittime innocenti, che per di più, appartenevano alla stessa Arma.

Così era avvenuto nel corso delle indagini in merito agli attentati terroristici del 1974, che fecero da corona alla strage del treno "Italicus", quando il Generale BITTONI si rivolgeva al suo Maestro Venerabile Licio GELLI, per essere "illuminato" dalla "lungimiranza" di quell'"esperto", inscenando un autentico rituale, destinato a non rimanere isolato.

Così era avvenuto per gli episodi di violenza politica che scandirono gli inizi degli anni settanta. Non solo la gestione della informazione in seno ai Servizi di Sicurezza non fu — come accertò il requirente romano — ispirata a criteri di pubblico interesse, ma anche allora il dirigente di questo, Gen. Vito MICELI, appartenente anch'egli alla Loggia P2, spudoratamente mentì, potentemente violando fondamentali obblighi del suo ufficio. Alla menzogna accompagnò il silenzio come "dolosa agevolazione dei congiurati e sintomatica manifestazione di una volontà diretta ad intralciare il corso della giustizia".

Ma il rifiuto opposto dal Giudice di appello, nel percorso diretto alla individuazione delle prove, di ricostruire la saldatura esistente tra una struttura parallela dei servizi di informazione e le organizzazioni extra - parlamentari della estrema destra, iniziata all'Istituto Pollio e continuata ininterrotta; di penetrare il costante e molteplice intreccio di complicità esistente tra l'organizzazione di Licio GELLI e lo stesso organismo informativo, dove la prima era profondamente penetrata fino a conseguirne il controllo completo, ed estesa fino a ricomprendere frange operative di quei movimenti, ha impedito allo stesso di cogliere la circolarità dei rapporti esistente tra la struttura segreta, quella clandestina e l'altra "parallela" ed i profondi e solidi collegamenti passanti attraverso i loro vertici; di comprendere, in definitiva, come quell'ultimo atto di simulazione non rappresentava una isolata e puerile operazione truffaldina di due avidi ufficiali di carabinieri, ma la manifestazione palese di un vincolo associativo che annodava gli artefici della stessa.

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L'operazione "terrore sui treni" veniva a coincidere, infatti, con il cedimento psicologico del Prof. Aldo SEMERARI, determinato dalla carcerazione per i fatti di Bologna.

Il criminologo era ridotto allo stremo delle sue forze psichiche e minacciava di inviare un memoriale al Giudice, per scrollarsi di dosso una così opprimente accusa, alla quale doveva sentirsi estraneo, conoscendone i responsabili.

Il verificarsi di quella evenienza avrebbe sicuramente avuto effetti devastanti, perché avrebbe dischiuso un "archivio" vivente delle strutture deviate, clandestine e segrete e dei loro collegamenti operativi, che sarebbero diventati noti e completamente decifrabili.

Criminologo, massone, piduista ed esponente di spicco della destra radicale, il Prof. Aldo SEMERARI era un personaggio al centro di molteplici rapporti, inserito, ad un tempo, nelle componenti ordinoviste di Paolo SIGNORELLI e di Massimiliano FACHINI, nelle frange degli apparati di sicurezza ed in contatto diretto con il Venerabile piduista.

 

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Ed, infatti, quando annientato dalla carcerazione, invocò disperatamente soccorso, fu agli uomini dei Servizi, ai "fratelli" della massoneria piduista, a Renato ERA, a COGLIANDRO, a SANTOVITO, a rivolgersi ed a far pervenire messaggi e velate minacce.

Se questi comportamenti fossero stati adeguatamente presi in considerazione ed attentamente valutati, il Giudice di Appello avrebbe compreso che dalla cella di SEMERARI ora, come un tempo da quella di POZZAN, si dipanava un filo che collegava direttamente un atto di terrorismo ad una struttura parallela dei Servizi di Sicurezza e ad un'altra piduista, profondamente collegata alla prima, e che costituiva da tempo il costante tessuto connettivo di ogni operazione eversiva. Il rapporto tra queste strutture ed i militanti della estrema destra, fino alla metà degli anni settanta — fino a quando cioè era sembrata possibile l'imposizione autoritaria di un diverso assetto politico — si era sviluppato in maniera diretta e profonda, quasi di coinvolgimento totale ed aveva trovato il suo punto di raccordo necessariamente all'interno stesso delle Istituzioni.

 

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A questo punto, l'attenzione del Giudice di Appello si sarebbe dovuta soffermare sulla riunione tenuta, nello stesso contesto temporale, nell'abitazione di Aldo SEMERARI e riferita da Paolo ALEANDRI, una "delle voci più limpide del processo", come sottolineava il requirente romano.

In essa "si discusse della nuova struttura da creare, ovviamente clandestina e della sua linea politica. Circa la struttura, ognuno dei partecipanti assunse una funzione specifica ed un nome di copertura: DE FELICE prese il nome di Ciro, SIGNORELLI quello di Luca, FACHINI quello di Enzo, CALORE quello di Daniele ed io (Paolo ALEANDRI) quello di Maurizio".

 

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A questo punto, se il Giudice di Appello avesse proceduto ad una adeguata coordinazione logica tra questi momenti di vita nazionale e l'opera sistematica di "solidarietà" dimostrata dai Servizi di informazione ai gruppi militanti di Ordine Nuovo a partire dal 1969, avrebbe compreso come, nell'ambito di quel "patto", il ruolo assegnato ai Servizi di Sicurezza era quello di copertura della responsabilità di coloro che si assumevano, di volta in volta, il compito di portare avanti una lotta armata, che si inseriva in un disegno politico, diretto ad un ben individuato obiettivo comune.

Avrebbe, a questo punto, colto il collegamento esistente tra gli indizi di coinvolgimento raccolti a carico di esponenti dello stesso gruppo di matrice ordinovista in esito alla strage di Bologna e la forsennata opera di inquinamento attuata dagli esponenti di una struttura parallela dei Servizi di informazione.

Avrebbe, in tal modo. Compreso anche il significato univoco di questa ultima operazione di favoreggiamento dagli stessi attuata a beneficio dei militanti della stessa organizzazione operativa, comunque denominata o atteggiantesi all'esterno, ed alla stessa assegnato una motivazione logica e rigorosamente coerente.

Con un'opera di più profonda analisi, lo stesso Giudice avrebbe anche colto le dimensioni della realtà associativa che era dietro ai personaggi che mostravano il loro volto nella programmazione, nell'esecuzione e nella protezione della lotta armata.

Questi erano tutti in diretto collegamento con l'organizzazione di Licio GELLI, che non disdegnava di conclamare la necessità di perseguire gli stessi obiettivi politici e si poneva, in tal modo, come punto di raccordo dalle diverse istanze in tal senso e come struttura idonea a gestire il ricavo politico delle azioni dei primi.

Già nel 1978 tutti i vertici dei Servizi di Sicurezza erano affiliati alla sua Loggia, così pure l'organismo parallelo del SISMI, costituito da SANTOVITO e MUSUMECI e BELMONTE. In diretto contatto con il Venerabile, e nella contestualità della strage di Bologna, era anche il Prof. Aldo SEMERARI.

 

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Al contrario, il Giudice di primo grado, dopo aver sottoposto ad una scrupolosa analisi critica tutte le risultanze processuali, aveva messo in evidenza gli indizi raccolti a carico degli imputati PICCIAFUOCO, FIORAVANTI, MAMBRO e FACHINI ed, in una accurata e minuziosa motivazione, aveva riconosciuto in essi i requisiti della certezza e della gravità e quelli ulteriori della concordanza tra loro in direzione di una univoca conclusione, operando con un procedimento logico di sintesi ispirato al massimo rigore ed alla più assoluta correttezza.

Ed, infatti, gli elementi che sorreggevano l'impianto accusatorio a carico di Sergio PICCIAFUOCO potevano individuarsi solo a seguito:

 

a) di una coordinazione logica tra una indelebile presenza dello stesso sul luogo dell'eccidio e nel momento in cui questo si consumava e la molteplicità di menzogne dallo stesso riferite a proposito dei suoi comportamenti e delle motivazioni di essa e dalla conseguente valutazione da assegnare a queste ultime ed alla prima;

 

b) di una interpretazione del significato globale dei numerosi collegamenti che univano l'imputato al gruppo armato facente capo a Valerio FIORAVANTI, nel mentre anche questi veniva indicato come contemporaneamente presente nello stesso luogo e principale artefice dell'evento stragista;

 

e) di un raccordo di tutti i precedenti indizi e di una riunione delle verità via via scoperte nel percorso di Sergio PICCIAFUOCO, in una visione contestuale, nella luce che ognuna riusciva a trasfondere ad un'altra e nella luminosità del loro insieme.

Solo operando, in tal modo, poteva dirsi di aver penetrato in fondo la realtà processuale e di aver colto la risultante della confluenza di una molteplicità di indizi; di essere pervenuti, infine, ad un giudizio consapevole in merito all'autentico significato da attribuire a quella ingombrante presenza sul luogo del crimine; a quel reiterato mendacio, con il quale si intendeva adulterare l'intrinseco valore probatorio della stessa, ed ai collegamenti passanti tra PICCIAFUOCO e l'unica cellula armata dell'eversione di destra, capace al momento di operare con micidiale incisività.

Sergio PICCIAFUOCO era presente nella stazione ferroviaria di Bologna al momento della esplosione e di questa sua presenza non ha voluto fornire motivazioni veritiere, anzi ha sempre mentito in merito, con ostinazione, simulando e dissimulando ogni circostanza che di quella potesse rappresentare un frammento di verità.

Ha contestato la genuinità delle prove testimoniali che lo smentivano e non ha provato disagio neanche di fronte a quelle documentali.

Per limitarsi a queste ultime, aveva ancorato le motivazioni della venuta a Bologna al suo arrivo tardivo alla stazione di Modena. Al contrario, il treno era partito quel mattino con notevole ritardo e dopo il suo ingresso in quella stazione.

Aveva sostenuto di trovarsi, al momento della esplosione, al terzo binario della stazione di Bologna. Al contrario da questo stesso binario era partito, proprio due minuti prima il diretto per Milano.

Aveva affermato di essersi recato all'ospedale Maggiore di Bologna, per farsi medicare le ferite riportate a seguito dell'esplosione, nel tardo pomeriggio dello stesso due agosto. Risultava, per tabulas, al contrario il suo ingresso alle ore 11,39.

Questo sconcertante comportamento veniva sottovalutato dal Giudice di appello nel suo valore altamente sintomatico, così come quello ulteriore diretto a sorreggere un "alibi psicologico".

A dire dell'imputato, la richiesta improvvisa dell'appartamento ad opera del proprietario, che si era presentato da lui al mattino presto ed in compagnia di una giovane polacca, toglieva ogni carattere di preordinazione al suo viaggio a Bologna e, quindi, di compatibilità di questo con l'evento.

Sulla verifica di questa circostanza, ritenuta determinante per una esatta comprensione e valutazione dei suoi successivi spostamenti, l'imputato teneva impegnata la Corte in una estenuante ricerca dei personaggi indicati.

Quando il proprietario dell'immobile smentiva in dibattimento, con dovizia di particolari e con riscontri obiettivi, l'assunto dell'imputato, questi dapprima insisteva nella sua versione e solo al termine dell'esame testimoniale sosteneva di trovarsi di fronte a persona erroneamente indicata.

Di fronte ad un mendacio tanto articolato ed incurante, quasi sprezzante, della sua verifica e della sua scoperta, appaiono prive di consistenza logica le argomentazioni della Corte poste a sostegno delle sue perplessità.

La connessione logica non rimaneva delimitata a due proposizioni soltanto: essere presente sul luogo del delitto ed esserne l'autore. Il procedimento logico si irrobustiva notevolmente nelle sue proposizioni di premessa. Alla prima era lo stesso autore ad aggiungerne altra, avente pari dignità di certezza e forza deduttiva determinante. La conclusione ne scaturiva in modo necessitato ed in termini di immediata e diretta conseguenzialità.

La stretta connessione esistente tra l'evento, la presenza sul luogo, le menzogne in ordine alle motivazioni di questa, e l'essere autore del primo non apparteneva più all'interprete della realtà, ma allo stesso protagonista, che coglieva in quelle motivazioni elementi da dover dissimulare con tale forza in quanto l'avrebbero legato direttamente ed indissolubilmente all'evento stesso.

Attraverso un'analisi più incisiva di quelle menzogne e di quei comportamenti assunti dall'imputato, il Giudice di appello sarebbe giunto alla conclusione della impossibilità di ipotizzare, sotto un coerente profilo logico ed utilitaristico, una giustificazione plausibile per entrambe ed a quella ulteriore che esse rappresentavano la testimonianza genuina dell'interesse univoco dell'imputato a recidere qualsiasi collegamento tra i due eventi, la sua presenza alla stazione di Bologna e la esplosione ivi avvenuta. Rivelare le motivazioni del primo avrebbe significato necessariamente, cioè in virtù del contenuto delle stesse, riconoscersi autore del secondo.

Pertanto, a quel primo indizio, certo e determinato della presenza sul luogo del delitto, il successivo comportamento dell'imputato, che investiva elementi essenziali della realtà, doveva conferire l'ulteriore carattere della gravità e della univocità e costituire la fonte idonea per un processo di profondo convincimento di riferibilità dell'evento all'artefice dello stesso.

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Sergio PICCIAFUOCO, latitante da molti anni, dissimulava la propria identità personale con una patente di guida intestata a Vailati Eraclio, nativo di Roma, e con il passaporto, numero E 218730, rilasciato al nome di Pierantoni Enrico.

Per giustificare la provenienza del primo documento, l'imputato si affidava alla collaudata tecnica di addossare la paternità delle azioni criminose a persone defunte.

Ma la successiva scoperta del possesso, da parto di Alberto VOLO, di analogo documento dallo stesso alterato con il nominativo di Vailati Adelfio, nativo anch'esso a Roma, doveva condurre, con un procedimento logico ispirato a rigorosi criteri di coerenza logica e di consequenzialità necessario, all'individuazione esatta di una molteplicità di elementi indizianti che, nella loro concatenazione logica e psicologica, riconducevano Sergio PICCIAFUOCO nel novero dei personaggi appartenenti, pur con diversi compiti, nel gruppo armato guidato da Valerio FIORAVANTI.

Ed, invero, l'identità del cognome nei due documenti, quello rinvenuto al VOLO e l'altro in possesso del PICCIAFUOCO, e del luogo di nascita; la singolare similarità etnica dei nomi, non certo di uso comune; la macroscopica distanza del loro utilizzo (Merano e Palermo) non potevano ricollegarsi ad una mera ipotesi di coincidenza, ma attestavano anche l'identità della provenienza degli stessi.

L'ulteriore indicazione nel primo di un indirizzo rinvenuto anche nell'agenda del MANGIAMELI; l'inserimento del VOLO nella struttura eversiva, della quale quest'ultimo era riconosciuto il leader; il ruolo di completa subalternità del primo al MANGIAMELI; il dichiarato proposito di questi di fornire falsa documentazione di identità personale ai sodali della sua organizzazione in difficoltà con la giustizia; la esplicitata necessità del PICCIAFUOCO al recupero di documenti artefatti per proteggere il proprio stato di latitanza costituivano elementi certi, univoci e concordanti verso la riferibilità anche al MANGIAMELI dell'alterazione della patente di guida in possesso di Sergio PICCIAFUOCO.

Da questo accertamento doveva dedursi non solo che oramai il mendacio rappresentava per Sergio PICCIAFUOCO una costante di comportamento prescelto per erigere uno steccato tra la propria persona e l'evento che gli veniva addebitato, quanto, in particolare, l'esistenza di un delineato collegamento tra lo stesso e la struttura eversiva, facente capo a Francesco MANGIAMELI.

 

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In conclusione, la fattiva collaborazione offerta a Sergio PICCIAFUOCO da personaggi gravitanti nell'area dell'estrema destra ed aggregati intorno a Valerio FIORAVANTI per assicurargli la latitanza, non poteva rappresentare altro che la manifestazione concreta dell'inserimento dello stesso nella medesima organizzazione operativa.

La contestuale presenza di Valerio FIORAVANTI e di Sergio PICCIAFUOCO in terra siciliana fino a pochi giorni prima dell'evento stragista ed alla stazione di Bologna al momento dell'eccidio, è l'attestazione dell'esistenza di un legame più profondo annodato tra loro, non solo ideologico, ma anche operativo.

Se, in una meditata ed approfondita operazione concettuale di coordinamento, tutti questi elementi indizianti fossero stati raccordati; se vi si fosse inserito il mendacio, nella sua prospettazione priva di qualsiasi giustificazione e la fuga precipitosa, con la contestuale appropriazione dell'autovettura del COPPARONI, posta in essere il 6 gennaio 1981, giorno della pubblicazione della scoperta della vera identità del PICCIAFUOCO e della sua presenza alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980; se la posizione processuale di Sergio PICCIAFUOCO fosse stata analizzata insieme a quella di Valerio FIORAVANTI e coordinata a questa; se, in definitiva, si fosse adoperato il metodo di analisi contestuale di tutte le circostanze confluenti sull'evento e sui personaggi che ne apparivano come protagonisti, con una visione globale ed unitaria delle stesse, ci si sarebbe resi conto che questo, necessariamente ed univocamente, erano dirette verso la riconoscibilità della penale responsabilità di Sergio PICCIAFUOCO. Si sarebbe giunti a comprendere come la presenza di Sergio PICCIAFUOCO durante l'esplosione non poteva significare altro che partecipazione alla stessa, che con il mendacio si voleva rendere indecifrabile nella sua significativa efficacia probatoria.

 

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Massimo SPARTI non avvertiva l'esigenza della menzogna neanche come unico strumento possibile per ottenere benefici processuali.

Era inquisito da una diversa Autorità Giudiziaria e per altri fatti: il "suo" giudice non avrebbe potuto premiarlo per quanto dichiarava in merito alla strage di Bologna. Sarebbe stato un mendacio inutile e processualmente non remunerativo. Ma, anche in presenza di una erronea prospettazione di vantaggi futuri, egli non aveva necessità di apparire comunque un "collaboratore" fino a dover inventare fatti e circostanze inerenti alla criminalità eversiva.

Era stato in grado, infatti, di fornire agli inquirenti utili elementi in merito all'omicidio del Dott. AMATO, fino ad allora privo di una sicura paternità e risolto proprio con la confessione dei personaggi indicati, per la prima volta, dallo SPARTI.

Era stato in grado di indicare l'autore del furto di bombe a mano compiuto nella caserma di Pordenone e rimasto, fino ad allora, a carico di ignoti.

Aveva, in conclusione, indicato Valerio FIORAVANTI come autore di due importanti eventi di criminalità politica e con riferimenti che subito si rivelarono di contenuto preciso e veridico. Aveva già dato prova, quindi, di collaborazione con la Giustizia ed aveva già guadagnato ogni possibile benevolenza processuale. L'aggiunta di un mendacio avrebbe potuto solo nuocergli in termini sostanziali e trovare la sua unica giustificazione in un profondo, ma inesistente, sentimento di rancore.

In conclusione, il percorso processuale non ha posto in evidenza alcun elemento certo, idoneo ad inficiare l'attendibilità intrinseca del testimone: né un particolare atteggiamento del suo carattere, per la comprovata esattezza di altri suoi riferimenti, né una spinta ad una remunerazione processuale, che per altri fatti aveva già conquistato, né, infine, una erronea percezione della realtà, perché degli episodi riferiti lo SPARTI era stato partecipe e protagonista e non semplice spettatore ed occasionale percettore. Gli stessi, nella semplicità del loro contenuto, nella incisività dei loro collegamenti, nelle sensazioni che avevano provocato erano entrati a far parte del suo vissuto, apparivano indelebili ed impossibilitati ad essere sbiaditi nel tempo.

La genuinità e la veridicità delle circostanze riferite dal testimone andavano poi valutate alla luce del loro intrinseco e circoscritto contenuto, indipendentemente dalle inferenze che dalle stesse si potessero, e dovessero, trarsi, con un carattere di conseguenzialità immediata.

Queste, infatti, non potevano costituire l'oggetto della valutazione del Giudice, ma ne costituivano solo l'effetto, attenevano alla sua opera di ricomposizione del mosaico, al suo procedimento logico di conoscenza e di certezza.

Operando diversamente il giudizio di veridicità e di attendibilità si è inconsciamente spostato dal contenuto dei riferimenti alla valutazione logico - giuridica degli stessi; dall'oggetto della testimonianza agli effetti che da questa potevano derivare.

Massimo SPARTI aveva riferito solo che:

 

a) il giorno 4 agosto 1980 si incontrò a Roma con Valerio FIORAVANTI, che era insieme a Francesca MAMBRO;

 

b) di quest'ultima, il primo ebbe espressioni elogiative, mettendone in risalto il coraggio e la decisione nell'azione;

 

e) il FIORAVANTI gli disse, in riferimento alla strage di Bologna, testualmente: "hai visto che botto!";

 

d) a Bologna si era vestito in modo da sembrare un turista tedesco;

 

e) Valerio aveva urgentissimo bisogno di documenti falsi per la MAMBRO.

 

Queste circostanze di fatto non solo non sono state inficiate dalle risultanze processuali, ma proprio in queste, e nella dichiarazione di uno degli imputati, hanno trovato un significativo riscontro.

Francesca MAMBRO, nell'interrogatorio reso il 25.08.84, ha ammesso l'esistenza dell'incontro a Roma, tra lei, Valerio e Massimo SPARTI, nel giorno 4 agosto 1980; ha confermato le richieste di documenti falsi e la successiva consegna degli stessi da parte dello SPARTI; ne ha sottolineato l'urgenza e la necessità di un loro possesso.

In definitiva, dalla dichiarazione dello SPARTI sono emersi elementi di certezza che non consentivano alcuna perplessità in merito alla sincerità e veridicità del testimone; che legittimavano l'estensione di questa valutazione a tutto il contenuto narrativo, per l'impossibilità logico - giuridica di frantumarlo secondo le esigenze difensive; che ponevano in evidenza la estrema mobilità delle tesi difensive degli imputati, che sembravano via via adeguarsi alle risultanze processuali; che giustificavano, infine, le inferenze che dagli stessi potevano trarsi con una conseguenzialità necessaria.

 

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Da una attenta e meditata valutazione unitaria di questi elementi di fatto il Giudice di appello doveva dedurre, con coerenza logica, l'assoluta idoneità della fonte e del mezzo di prova a porsi come fondamento di un giudizio di certezza in merito a quanto in esso contenuto e, di conseguenza in merito alla presenza di Valerio FIORAVANTI e di Francesca MAMBRO alla stazione di Bologna il mattino del 2 agosto 1980.

L'ulteriore fallimento degli alibi indicati dagli imputati avrebbe conferito a questo giudizio i caratteri della validità incontrastata e della definitività.

Ed, invero, una volta pervenuto alla conclusione della attendibilità di Massimo SPARTI e della veridicità del contenuto della sua deposizione il Giudice di appello non poteva non desumere dallo stesso, e con un rigoroso procedimento logico, la presenza in Bologna di due imputati, nel giorno della strage.

Non era tanto la menzione di questo evento ad attestarla, quanto l'esplicita indicazione dell'abbigliamento assunto dal FIORAVÀNTI, con univoco riferimento a quel giorno, a quel luogo ed a quella conclamata presenza.

La successiva impossibilità di riferire con precisione e lineare uniformità i loro movimenti nel giorno della strage ed indicare una veridica presenza in altro luogo; la costruzione di un alibi che li collocava in un contesto spaziale lontano dalla stazione di Bologna, fondato sul mendacio, e destinato quindi ad aggrovigliarsi nelle contraddizioni del suo contenuto, costituivano altrettanti elementi indizianti che, uniti ai primi e con una valutazione di sintesi, non potevano non condurre ad un risultato di certezza in merito a quella presenza, tanto negata per il suo significativo valore probatorio in relazione all'evento addebitato.

 

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In conclusione, la certezza della presenza di Valerio FIORAVANTI e Francesca MAMBRO nella stazione ferroviaria di Bologna al mattino del 2 agosto 1980 non rimaneva scalfita da fatti certi di contenuto contrario, ma risultava attestata in via definitiva dalla fonte più diretta, dalla viva voce degli stessi interessati: questa giungeva al Giudice, da un verso, per il mezzo di un preciso ed attendibile riferimento dello SPARTI, e dall'altro, attraverso una molteplicità di contraddizioni e di menzogne, dirette proprio a dissimulare in sede processuale quella presenza, altrove conclamata.

Da questo comportamento processuale; dall'esplicito riferimento alla strage compiuta ed ai suoi effetti; dalla reiterata e compiaciuta esaltazione della determinazione e del coraggio nell'azione della MAMBRO, il Giudice di appello doveva dedurre, con un collegamento logico e di conseguenzialità necessaria, che quella presenza aveva il significato univoco di partecipazione all'atto di strage, contemporaneamente consumato.

Ancora una volta, infatti, l'indissolubile collegamento tra le proposizioni di premessa e l'evento non apparteneva all'interprete della realtà ed a colui che era chiamato ad una sua ricomposizione, quanto più ai protagonisti della stessa, che con i loro riferimenti, sia nella versione veritiera, che in quella simulata, attestavano l'esistenza e la consapevolezza di una ineluttabile sovrapposizione di immagini tra i due eventi, la presenza alla stazione di Bologna e la partecipazione all'atto di strage.

La matrice ideologica e la natura eversiva di questo atto di violenza; l'impegno ideologico di Valerio FIORAVANTI e di Francesca MAMBRO e la loro marcata operatività nella lotta politica, portata avanti nel contesto temporale del momento; la contemporanea presenza alla stazione di Bologna di Sergio PICCIAFUOCO, collegato al gruppo armato dei N.A.R. di Valerio FIORAVANTI, dovevano costituire un collante solidissimo ed indissolubile tra gli stessi eventi.

Di questo il Giudice di appello, però, non ha potuto far uso per il rifiuto manifestato a priori di cogliere il reale significato di un atto di violenza terroristica, di inquadrarlo in un contesto ideologico ed eversivo e di progettualità operativa ed, in definitiva, per essersi accostato alla sua ricostruzione e valutazione come ad un episodio di criminalità comune ed occasionale.

 

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Affrontato come episodio di criminalità comune ed occasionale, sganciato dal contesto terroristico e politico del momento, assegnato nella sua realizzazione ad un gruppo di persone, prive di collegamenti operativi tra loro ed isolatamente dediti a vicende criminali, di matrice individuale, la ricostruzione dell'evento stragista e la individuazione della prova in merito alle singole responsabilità veniva svuotato del suo contenuto più significativo e qualificante ed affidato esclusivamente ad un riferimento testimoniale e ad un alibi fallito. Troppo poco per una prova logica, di univoco e determinante valore processuale, in relazione alla natura ed alla portata dell'evento ed alle sue conseguenze giudiziarie, prive di attenuanti alternative. Queste conclusioni rappresentano quindi il naturale sviluppo del rifiuto di irrobustire le proposizioni di premessa e renderle idonee per un percorso logico, per altri versi tanto incidentato e già di per sé di arduo cammino conoscitivo e valutativo.

 

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14. Massimiliano FACHINI e Paolo SIGNORELLI sono usciti dalla scena del processo a seguito di una valutazione meramente apparente della loro operatività, fondata, cioè, su elementi conoscitivi incompleti e non estesa anche ad altri di determinante significato processuale.

 

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In conclusione, se il Giudice di appello si fosse soffermato su tutte queste circostanze di fatto, oramai accertate in via definitiva, avrebbe individuato la prova non solo di una ininterrotta e stabile connessione operativa esistente tra le articolazioni locali del Movimento Ordinovista, quanto quella univoca della marcata determinazione di questo sodalizio a condurre oramai una lotta armata secondo una precisa metodologia dinamitarda, come a dar vita ad una "riedizione della strategia della tensione".

L'ulteriore analisi unitaria di tutte le risultanze processuali emerse in merito agli attentati dinamitardi messi a segno al Ministero di Grazia e Giustizia, alla Sala Consiliare del Campidoglio, presso il Carcere di Regina Coeli e soprattutto nella piazza romana dell'Indipendenza ed una attenta valutazione delle confessioni rese in merito ai Giudici romani da Paolo ALEANDRI, da Sergio CALORE e da Marcello IANNILLI avrebbe svelato allo stesso Giudice come, nel periodo immediatamente precedente all'esplosione di Bologna, in una accentuata progressione di intervento, era prevalsa nel Movimento Ordinovista la linea di tendenza diretta ad utilizzare l'attentato dinamitardo non più solo contro i simboli delle strutture dello Stato, ma anche come disarticolazione della compagine sociale, da attuare attraverso un atto di strage indiscriminata. Come tutti gli esecutori materiali degli stessi attentati erano direttamente ed immediatamente collegati a Massimiliano FACHINI ed a Paolo SIGNORELLI che, allo interno del Movimento eversivo, rappresentavano per i primi il punto di sicuro riferimento operativo.

Come, infine, Massimiliano FACHINI veniva coralmente indicato, e senza eccezione alcuna, quale uno dei fornitori dell'esplosivo impiegato negli attentati. La univocità dei riferimenti ed il loro contenuto particolareggiato non consentivano perplessità in merito e conducevano necessariamente a quella conclusione, per altro perfettamente aderente al percorso politico ed operativo del personaggio.

Il Giudice di appello avrebbe, quindi, affrontato l'iter processuale diretto alla individuazione delle prove con la consapevolezza e la certezza che nell'immediatezza della strage di Bologna erano stati portati a segno, e da parte dei gruppi operativi del Movimento di Ordine Nuovo, una serie di attentati dinamitardi gravissimi.

Ciò era stato reso possibile non solo dalla presenza di individuati gruppi militanti disposti a commetterli nell'ottica di una logica diretta all'attacco del sistema rappresentativo ed al condizionamento delle sue scelte politiche, ma anche, e soprattutto, per la contemporanea disponibilità di esplosivo da impiegare, quale mezzo operativo di una ben delineata strategia diretta a tal fine.

Un fornitore di questo era sicuramente Massimiliano FACHINI che così agiva nel segno di una continuità ideologica e programmatica. Aveva, infatti, sempre privilegiato l'attentato dinamitardo quale mezzo di imposizione ideologica e di ricatto istituzionale.

Voleva, infine, riaffermare l'attuale validità della "strategia della tensione" quale metodologia più idonea per condurre una rigenerata lotta armata diretta ai nuovi obiettivi dichiarati dal Movimento Ordinovista.

Partendo da questo conclusioni, di natura oramai "storica" per il loro contenuto di certezza unanimemente riconosciuto, il Giudice di appello avrebbe inquadrato l'eccidio di Bologna nel contesto della lotta armata in atto, ne avrebbe compreso le motivazioni politiche e si sarebbe soffermato, con maggiore attenzione e disponibilità recettizia, sulle precise e concordi testimonianze di CALORE, di ALEANDRI e di NAPOLI.

Avrebbe, di conseguenza, preso in esame i riferimenti provenienti da più parti che a quelle testimonianze facevano da corona e riscontro.

Necessariamente lo stesso Giudice sarebbe pervenuto ad una univoca e determinante conclusione: se Massimiliano FACHINI era uno dei fornitori di esplosivo dei gruppi militanti, con assoluta certezza, era l'unico a disporre di quello contenente il T4, di provenienza dal recupero militare ed adoperato per la strage di Bologna.

Per Sergio CALORE, l'unico esplosivo T4 da lui conosciuto proveniva da Massimiliano FACHINI ed era di tipo militare. Per Paolo ALEANDRI, nel materiale fornito da quest'ultimo vi erano anche alcuni cilindri di esplosivo da utilizzare come innesco secondario. Per Gianluigi NAPOLI era lo stesso FACHINI a perfezionare la tecnica dinamitarda consigliando l'uso di un innesco secondario per la più sicura deflagrazione del gelatinato.

Massimiliano FACHINI, in definitiva, non solo disponeva dell'esplosivo gelatinato di provenienza commerciale, il c.d. ANFO, e di quello di provenienza dal recupero militare, ma distribuiva quest'ultimo ai gruppi operativi per il suo impiego negli attentati dinamitardi ed era ben a conoscenza della tecnica del doppio innesco, idonea a provocare la sicura deflagrazione degli esplosivi sordi ed a scongiurare il ripetersi di comprovati insuccessi tecnici nell'esecuzione degli attentati da portare a termine.

La individuazione del gruppo armato che in concreto attuò l'attentato di Bologna; la scoperta dei solidissimi e duraturi rapporti operativi esistenti tra lo stesso gruppo e Massimiliano FACHINI, comprovati fino al giorno antecedente la strage, con il pernottamento di Valerio PIORAVANTI nell'abitazione veneta del CAVALLINI; l'acquisita certezza della disponibilità da parte del solo Massimiliano FACHINI, nell'ambito del contesto organizzativo nel quale operava il FIORAVANTI, dell'esplosivo T4 utilizzato per l'attentato di Bologna sono circostanze di fatto collegate tra loro da un nesso di rigorosa ed univoca concatenazione logica e che potevano condurre ad una unica e coerente conclusione: solo Massimiliano FACHINI poteva aver fornito, a chi ha dovuto utilizzarlo, quel tipo particolare di esplosivo, di provenienza militare e di non facile reperibilità neanche nel mercato clandestino.

L'appartenenza alla stessa organizzazione eversiva del fornitore e dell'operatore, la matrice ideologica dell'atto di strage, l'obiettivo politico che questo doveva raggiungere, la identica attività del primo nello stesso contesto temporale e programmatico, i rapporti operativi esistenti tra i due rendevano, in una visione di insieme ed in una analisi di sintesi, quel collegamento indissolubile ed imperativamente univoco; idoneo a sorreggere un giudizio di responsabilità, quale espressione di una tranquillante certezza giuridica e morale.

La stessa che avevano già raggiunto gli appartenenti al medesimo sodalizio, i quali "pubblicamente ed a chiare lettere" avevano indicato in Massimiliano FACHINI uno dei responsabili di quell'atto di strage.

La stessa che aveva acquisito anche Valerio FIORAVANTI; per la quale aveva progettato la eliminazione fisica del FACHINI come momento di riscatto morale della sua idealità, della sua azione autenticamente rivoluzionaria e della rigenerazione della lotta armata; che aveva cercato di comunicare, a suo modo, rivelando gli obiettivi che con quell'atto di strage si volevano perseguire, dar vita ad una "riedizione della strategia della tensione", quale univoca indicazione per giungere con immediatezza anche alla individuazione del suo autore.

La strategia, cioè, che Massimiliano FACHINI aveva contribuito ad elaborare; che aveva sempre cercato di portare avanti nella progettualità di una lotta armata; che per lui si era sempre identificata in attentati dinamitardi, da attuarsi preferibilmente contro i punti nevralgici delle linee di comunicazione.

 

Erronea applicazione della legge penale, in riferimento all'art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15 ed all'art. 8 lett. e) del D.P.R. n. 744 del 1981.

 

Da quanto suesposto discende che erroneamente il Giudice di Appello ha escluso, per il delitto di calunnia riconosciuto nei confronti del MUSUMECI e del BELMONTE, l'aggravante di cui all'art. 1 della Legge 6 febbraio 1980 n. 15 e, di conseguenza, ha applicato il condono di cui al D.P.R. nella misura di anni tre di reclusione.

L'art. 8 lett. e) del citato decreto di clemenza, infatti, esclude la possibilità di applicazione del condono per i reati aggravati dalla finalità di eversione dell'ordine democratico.

L'erronea esclusione di questa circostanza aggravante ha, poi, influito in modo determinante sulla entità della pena inflitta, rendendola irrisoria e non adeguata al fatto commesso, in relazione alla personalità degli imputati, all'intensità del dolo ed al fine cui era diretto.

La determinazione della stessa, d'altronde, già nella sua attuale misura, scaturisce da un errore logico di giudizio e da una contraddittoria valutazione dei suoi parametri di riferimento.

Le qualità soggettive degli imputati, l'affidamento sulla loro attività nell'ambito delle indagini su un gravissimo reato che aveva turbato l'opinione pubblica di una intera nazione, il riconosciuto inserimento in essa di uno spregevole interesse truffaldino, attuato nel modo più riprovevole, logicamente non possono conciliarsi e costituire il supporto di un trattamento sanzionatorio tanto mite che, per ciò stesso, appare essere stato determinato più con riferimento ai limiti fissati dal provvedimento di clemenza del quale gli imputati avrebbero potuto beneficiare, che ai criteri di cui all'art. 133 c.p. ed a quegli elementi di fatto pur giudizialmente riconosciuti.

 

Nullità della sentenza a norma dell'art. 475 n. 4 c.p.p., in relazione all'art. 524 pp. n. 3 c.p.p., limitatamente al capo di imputazione di cui allo art. 270 bis C.P. ed all'imputato Francesco PAZIENZA

 

Nel dispositivo della sentenza letto in udienza a seguito del dibattimento, la Corte ha omesso di pronunciarsi nei confronti dell'imputato Francesco PAZIENZA ed in ordine al reato di cui all'art. 270 bis C.P. allo stesso contestato in concorso con Licio GELLI, Pietro MUSUMECI, Giuseppe BELMONTE, Paolo SIGNORELLI e Massimiliano FACHINI.

Tale omissione, per uniforme e costante insegnamento della Corte di Cassazione, costituisce vizio della sentenza che non può ritenersi sanato dall'inserimento della pronuncia stessa nella motivazione, ne è suscettibile di correzione con la procedura per gli errori materiali.

"La nullità conseguente alla omissione stessa non è eliminabile dal Giudice dell'impugnazione, risolvendosi ciò in una aperta violazione dell'obbligo del rispetto dei vari gradi di giurisdizione".

"Tale nullità, rilevata in sede di impugnazione, da luogo ad annullamento con rinvio". (Cass. Pen. Sez. 5a, sent. n. 01223 del 7 febbraio 1969, Pres. PASSANISI, imp. SOZZI - Conf: Cass. Pen. Sez. 3a, sent. n. 03310 del 28 aprile 1973, Pres. MUSCOLO, imp. BOSI).

"Non si può ricorrere alla procedura per correzione di errore materiale, di cui all'art. 149 cod. proc. pen. per rimediare all'omissione di pronunzia in ordine ad un reato nel dispositivo letto in udienza, in quanto tale omissione determina la nullità comminata dall'art. 476 n. 4 cod. proc. pen., anche se tale nullità è limitata al capo di imputazione per il quale l'omissione si è verificata e non coinvolge, quindi, l'intera sentenza. (Fattispecie relativa ad incompletezza del dispositivo della sentenza nel quale non era stata indicata la formula di assoluzione dell'imputato da uno dei reati)". (Cass. Pen. Sez. 6a, sent. n. 12825 del 23 settembre 1989. Pres. BOSCHI, Rel. ODDONE, imp. PETRALIA - Conf: Cass. Pen. Sez. 6a, sent. n. 03939 del 26 marzo 1988, Pres. VALENTE, imp. MASSETANI - Cass. Pen. Sez. 2a, sent. n. 10213 del 28 ottobre 1982, Pres. LOVERRE, imp. ELISEO - Cass. Pen. Sez. 2a, sent. n. 09851 del 23 settembre 1980, Pres. ILICETO, imp. CANDELORI).

 

p.q.m.

 

chiede che la CORTE DI CASSAZIONE voglia - in accoglimento del presente ricorso e per i motivi in questo esposti — annullare con rinvio la sentenza, meglio in epigrafe indicata.

 

 

IL PROCURATORE GENERALE

(dott. Franco Quadrini sost.)

 

 

 

 

 

 

MOTIVI

 

 

del ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa

dalla Corte di Assise di Appello di Bologna

in data 18 Luglio 1990, degli avvocati

 

 

Prof. Guido CALVI e Francesco BERTI

 

 

CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI BOLOGNA

(per l'Ecc.ma Corte di Cassazione)

 

 

MOTIVI

 

a sostegno della dichiarazione di ricorso per gli interessi civili ritualmente interposta, come da atto notificato, dagli avv.ti Guido Calvi e Francesco Berti quali procuratori speciali giusta procura allegata alla dichiarazione di ricorso del Sig. Enrico Boselli nella qualità di Presidente della Giunta della Regione Emilia Romagna e parte civile costituita nel proc. n° 32/89 R.G.C. Ass. App. Bologna, avverso la sentenza 18.7.90 con la quale la Corte di Assise di Appello assolveva, in riforma della sentenza della Corte di Assise di Bologna 11.7.88, gli imputati Fachini, Picciafuoco, Signorelli, Rinani e Melioli dal delitto di banda armata nonché i medesimi Fachini, Picciafuoco, Rinani, Signorelli e Fioravanti e Mambro dai delitti di strage, omicidio plurimo, collocazione di ordigno esplosivo, lesioni volontarie ed attentato loro contestati. L'avviso di deposito della sentenza è stato notificato il 22.4.91.

 

***

 

Si deduce il vizio di motivazione per carenza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione medesima, omesso esame di elementi decisivi e travisamento del fatto e si deduce altresì la violazione della legge processuale per enunciazione e applicazione di principi contrari ai canoni fondamentali dell'ordinamento processual - penalistico.

 

Il nostro ordinamento giuridico è informato, come è noto, al principio del libero convincimento del giudice con la conseguenza che non esiste per legge una scala predeterminata di valori probatori, non esistono prove privilegiate e, fermo restando l'obbligo di esplicitare le ragioni del proprio convincimento al fine di assicurare il controllo di merito e di legittimità sull'iter logico seguito per raggiungere la decisione, nessun limite è imposto al giudice sul valore da attribuire agli elementi sottoposti al suo apprezzamento indipendentemente dalla categoria di prove cui appartengono. Questo semplice ed elementare principio è stato radicalmente sconvolto nella sentenza impugnata perché questa muovendo dall'erroneo presupposto di una significanza minorata degli elementi indiziari, procede ad un'analisi riduttiva della prova d'accusa verificata in ogni suo singolo momento e non già anche nel necessario giudizio complessivo ed integrato. Come sarà, poi, meglio esposto (in particolare nelle premesse all'analisi delle posizioni Mambro, Fioravanti e Picciafuoco) il criterio di valutazione della prova che avrebbe dovuto utilizzare il giudice territoriale facendone applicazione nei singoli e diversi casi non può prescindere dall'art. 245 c. 2° lett. b delle disposizioni di attuazione, coordinamento e transitorie del nuovo C.p.p. che espressamente indica tra le norme delle quali è disposta la immediata, l'art. 142 C.p.p. Deve tuttavia esser presa in considerazione la problematica relativa alla estensione del richiamo operato dalle norme transitorie all'art. 192 C.p.p. per individuare i concreti riflessi sulla possibile applicazione anche di ulteriori norme.

E' evidente che il riferimento alla "prova" contenuto nella citata norma attiene a quella acquisita con le modalità e le forme previste dal nuovo codice, ma è altrettanto evidente che, ritenendo la norma operativa nei confronti di acquisizioni verificatesi in regime processuale diverso si darebbe così ingresso ai problemi connessi alla utilizzabilità di quelle prove già esistenti, che tuttavia, con la nuova disciplina seguono un regime diverso. Si consideri, ad esempio, il problema della utilizzabilità di una testimonianza de relato alla luce della disposizione dell'art. 195 C.p.p. Sembra più esatta, viceversa, la soluzione secondo cui il richiamo contenuto nell'art. 245 delle norme transitorie è diretto ad indicare solo "su una delle possibili interpretazioni del diritto preesistente, trasformando la norma in "regola iuris".

In tal senso si esprime la sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n° 4 del 3.2.90, che ha affrontato le problematiche connesse alla valutazione della prova nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del codice rispetto ai quali è prevista la prosecuzione secondo gli schemi anteriormente vigenti.

Per quanto attiene più strettamente ai criteri da utilizzare è giusto ritenere che le risultanze processuali da enunciare in qualità di indizi e dalle quali dedurre la esistenza di un fatto, debbano consistere in dati storici, provati in modo certo ed obiettivo, con esclusione solamente delle ipotesi ovvero della costruzione logica, che li assimilerebbe al risultato di un giudizio.

Verificatane la gravità e precisione e posti, dunque, tali dati di fatto, ove se ne accerti la concordanza, con operazione di collegamento che, secondo le massime di esperienza ed i principi logici la giustifichino adeguatamente, dovrà esser ritenuta definitivamente formata la prova, la cui esistenza consente di motivare il convincimento del giudice.

Orbene, in virtù del ricordato principio del libero convincimento il giudice può valutare tutti gli elementi acquisiti, senza alcun ordine di precedenza, può quindi anteporre la prova specifica a quella generica, la prova critica a quella storica, la prova indiretta a quella diretta. E' soltanto necessario che egli coordini logicamente le varie emergenze processuali in modo da pervenire ad un giudizio finale che sia il frutto della concatenazione e quindi della loro sintesi. E' quindi di tutta evidenza che questo principio fonda un presupposto irrinunciabile nella tutela delle garanzie dì libertà individuali e collettive e nel contempo statuisce l'obbligo delle esternazioni di una corretta motivazione che è anch'essa garanzia di rispetto della legalità.

In concreto la sentenza viene meno con assoluta evidenza a quest'obbligo di valutazione complessiva di tutti gli elementi acquisiti e procede ad una illogica frantumazione della prova per cogliere le singole carenze di ciascun momento e ridurre così la valutazione complessiva alla somma definitiva di tutte le carenze individuate

Insomma l'esasperazione garantista si rovescia nella illegittima valutazione e quindi in una sentenza ingiusta.

 

......

 

***

 

Sulla posizione di Sergio Picciafuoco

Con riferimento al proscioglimento di Sergio Picciafuoco si deduce la violazione dell'art. 474 n° 4 e 475 n° 3 e 524 n° 3 C.p.p. (1980) per mancanza e contraddittorietà di motivazione e quindi, travisamento del fatto in ordine alla non ritenuta responsabilità dell'imputato per tutti i reati ascrittigli e in particolar modo in ordine al reato di concorso in strage.

 

L'analisi della posizione di Picciafuoco presenta, e questa volta con una chiarezza ed evidenza esemplari, gli errori e i vizi logico - giuridici che segnano l'intera sentenza impugnata. Sconcertante è l'intento di voler comunque assoggettare ad un improbabile criterio di riduzione ogni singolo elemento d'accusa che nel corso del processo sia assurto alla valenza processuale di indizio o di prova. Inammissibile, poi, è il metodo ampiamente utilizzato di frazionare il complesso probatorio e di procedere alla verifica della qualità di ogni singolo indizio avulso da qualsivoglia riferimento generale all'integrale quadro istruttorio.

Perplessità serie, inoltre, sorgono allorquando in sentenza si giunge a prospettare la convinzione che la semplice sussistenza di una variante nell'evoluzione dei fatti accertati rende questi inutilizzabili quali presupposti probatori.

Ciò, andando persino al di là di criteri meramente civilistici, renderebbe inefficace ogni verifica processual - penalistica perché richiederebbe, per individuare la responsabilità dell'imputato, solamente la prova documentale o, assai limitatamente, quella testimoniale. Neppure in tema di presunzione semplice ex art. 2729 c.c. si è mai giunti ad un riduzionismo così gratuito e paralizzante.

In ogni caso, poi, nell'analisi dei molteplici elementi di prova raccolti a carico del Picciafuoco andava verificato, e non eluso come si fa in sentenza, il grado di probabilità effettiva del fatto nel rapporto tra tesi accusatoria e prove acquisite.

Da ultimo, deve essere censurata anche la valutazione che è presentata come complessiva di ogni elemento d'accusa. In realtà è una superficiale, risibile e maliziosa somma di tutte le carenze che si sono estrapolate dalle singole prove. Di ben altro spessore e qualità deve essere l'impegno nella valutazione complessiva della gravita, molteplicità e convergenza degli indizi raccolti.

In questo la sentenza va al di là del migliore intento del più strenuo difensore dell'imputato.

 

La motivazione che sorregge l'assoluzione di Sergio Picciafuoco da ogni addebito si fonda su due considerazioni. Con la prima si presuppone che gli elementi di giudizio acquisiti e valutati sono la sua presenza immotivata e falsamente giustificata alla stazione di BO al momento dello scoppio dell'ordigno esplosivo ed i suoi collegamenti con ambienti della destra eversiva. Con la seconda si osserva che questi elementi sono "esili ed esigue coordinate del giudizio probatorio" (pag. 379) prive di ogni valenza positiva con "limitata portata significativa" e che anche il risultato della coordinazione "si presta a valutazioni critiche che destano serie perplessità di giudizio.

In verità una lettura appena attenta delle carte processuali, o quanto meno della esauriente e rigorosa sentenza di primo grado, consente di esprimere una stupefatta incredulità nei confronti di una sintesi così carente, errata e travisante. Non è vero che gli unici elementi d'accusa siano solamente quelli indicati in sentenza, non è vero che gli elaborati di giudizio siano così pregiudizialmente privi di signifìcanza e non è vero che il coordinamento tra essi, quand'anche si supponga che la sentenza lo abbia in concreto fatto, sia fonte di perplessità.

E' opportuno quindi procedere ad una analisi specifica dei due elementi.

 

Alibi.

E' noto a tutti che la reticenza o la menzogna dell'imputato, in virtù di una scelta di rilievo sistematico - storico - politico che da l'avvio ad una visione del processo quale strumento di difesa della libertà, non possono produrre effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che non è possibile desumere elementi di responsabilità dal comportamento mendace dell'imputato.

Ma nessuno ha mai sostenuto che il mancato alibi di Picciafuoco sia prova della sua colpevolezza. E' solo una semplificazione indebita. Il problema invece è se il falso alibi sia un accidente processuale senza alcuno spessore probatorio, come sembra ritenere la sentenza impugnata, o invece sia, in ogni caso, un momento del processo che deve avere una sua propria valenza.

E' vero che non deve farsi carico a Picciafuoco né della mancanza né del fallimento dell'alibi. Ma nel caso di specie l'alibi non è soltanto fallito bensì esso è falso e mendacio. La giurisprudenza è costante nel ritenere che allorquando l'alibi è accertato falso o mendace, e pertanto sintomatico di un tentativo di sottrarsi all'accertamento della verità, può e deve essere valutato quale indizio a carico dell'imputato.

Insomma, allorquando si adducano come fa il Picciafuoco, circostanze su fatti essenziali finalizzate a sottrarsi alla verifica giudiziaria, "deve ritenersi sussistente una carica di consapevolezza della illegittima condotta che si mira a nascondere alla giustizia". In tal caso "l'alibi legittimamente può essere valorizzato come indizio relativo ad una ipotesi di probabilità di colpevolezza da valutarsi ed utilizzarsi insieme agli altri, al fine del raggiungimento della prova" (Cass. 16.2.89 in Cass. pen. 1990).

La sentenza invece di farsi carico della valutazione del falso alibi, quale indizio di colpevolezza, e procedere ad un complessivo integrato giudizio di tutti gli elementi d'accusa, si limita a svalutarne la significanza processuale individuando eventuali motivazioni alternative al mendacio e quindi riducendo l'indizio ad "argomento" suggestivo e comunque non decisivo (p. 382).

La fantasiosità delle ipotesi suggerite è pari solamente all'inutilità dello sforzo creativo.

Picciafuoco non ha mai chiarito la ragione della sua presenza alla stazione di Bologna. Ma, dice la sentenza, "egli poteva averla, ma avere anche un qualche interesse a tenerla nascosta e del resto il medesimo ha più volte nel corso degli interrogatori scelto, in perfetto stile della sua esperienza criminosa, la strada del mutismo, come quando si è costantemente rifiutato di fare il nome dei falsari che gli avevano confezionato documenti di identificazione, spingendosi soltanto a fare quello di tal Loria, naturalmente deceduto" (p. 384-5).

Non vi è dubbio che si confonde lo ius tacendi con il mendacio. Le due condotte sono del tutto differenziate ed autonome e sono accostabili solo perché, in virtù dei principio di tassatività in materia penale, esse non hanno rilievo ai fini di una incriminazione specifica. Ma, come si è già accennato citando la più recente giurisprudenza, non hanno i medesimi effetti all'interno del processo. Lo ius tacendi è un momento del diritto di difesa, il mendacio, invece, pur non dando luogo ad una autonoma azione (eccetto, ovviamente, la calunnia) induce alla presunzione dell'esistenza di un elemento indiziante.

Inoltre la sentenza non coglie per nulla la gravità del silenzio e del mendacio che, non a caso, gravando sulla supposta esistenza dei falsari che avrebbero confezionato documenti di identificazione, in realtà incide direttamente sul presupposto dell'alibi. Picciafuoco mente sul proprio alibi e tace, poi, sugli elementi di verifica che avrebbero fatto crollare subito proprio l'alibi.

Il tema dei falsi documenti è letto, in sentenza, come una eventuale linea difensiva e non è valutato, come si sarebbe dovuto, quale indizio che si assomma ed integra gli altri, primo fra tutti il falso alibi. Il quesito è perché Picciafuoco riferisca sempre e comunque menzogne, quando, invece una semplice e veritiera versione avrebbe fatto cadere una terribile accusa.

Mente quando afferma che era diretto a Milano per "riempire" moduli di documenti in bianco. Picciafuoco era in possesso della patente di guida intestata a Vailati Enrico. La sentenza impugnata, qui, raggiunge vette sublimi di ipergarantismo affermando che se è vero che aveva la patente Vailati esibita all'Hotel Bay di Taormina non è provato che la medesima patente fosse in suo possesso il 2 agosto 80.

Si dimentica semplicemente di osservare che tra il soggiorno a Taormina e la strage trascorrono solo pochi giorni. E poiché Picciafuoco mente sul possesso del documento a Taormina non vi è ragione alcuna per supporre che sia vero quando nega anche di possederla il 2 agosto 80.

Si legga tra l'altro la deposizione Longo Alfredo. Picciafuoco mente sull'urgenza del suo viaggio programmato per il 4 agosto e provocato da una avventura galante dal proprietario del suo appartamento. Si legga deposizione Copparoni Gianfranco. Deposizione ignorata in sentenza.

Picciafuoco mente sul suo viaggio e sul tragitto. E' sufficiente leggere il rapporto Digos Bologna del 7.10.83. Picciafuoco mente nell'affermare che prese un taxi da Modena a Bologna. Si legga la puntuale ricostruzione elaborata nella sentenza di primo grado (p. 728 e segg.).

Picciafuoco mente quando riferisce di aver prestato aiuto nell'opera di soccorso. E' sufficiente osservare che egli fu medicato all'Ospedale Maggiore alle ore 11,39. E quindi fu tra i primi ad essere soccorso.

Si legga anche la deposizione di Carluccio Celestino. La sentenza ignora sia la qualità del mendacio e sia le deposizioni ora ricordate. Ma non è in alcun modo possibile e legittimo sottovalutare la mole delle menzogne e la spudorata pervicacia con la quale sono presentate.

Se invece la sentenza avesse tenuto nel giusto conto tutto ciò non avrebbe potuto eludere la valutazione la sua effettiva rilevanza probatoria.

 

La seconda considerazione a cui la sentenza attribuisce valore decisivo è l'errata attribuzione a Picciafuoco di collegamenti con organizzazioni eversive. Si afferma che (p. 405) "politicizzazione e collegamenti non risultano da alcuna fonte di prova diretta" e che solo dopo la identificazione del Picciafuoco e a seguito di mere deduzioni si giunge a supporre l'esistenza di tale indizio.

In realtà così non è. E ancora una volta la sentenza cade nel vizio del travisamento estrapolando solo alcuni elementi di prova e valutandoli non nel complesso indiziario della ricostruzione accusatoria.

Il fatto che solo dopo l'identificazione del Picciafuoco gli inquirenti acquisiscano prove della sua politicizzazione è argomento specioso e irrilevante. Il problema, infatti, non è tanto quando le notizie sono attinte ma se le notizie sono attendibili e risultano riferibili ad epoca anteriore alla strage.

Oltre ai rapporti dei Carabinieri del 8.7.83 e 1.10.83 e alla deposizione di Copparoni Gianfranco, dalla quale peraltro si accerta anche la falsa identità di Vailati utilizzata dal Picciafuoco, deve essere tenuta nella giusta considerazione la testimonianza resa al dibattimento di Giovagnini Leonardo. Questi, direttore di radio Mantakas di Osmio ebbe a costituire nella sua città un nucleo di terza posizione. L'emittente radiofonica, strumento di diffusione delle idee del movimento ebbe anche a ricevere la visita di Paolo Signorelli. Giovagnini, per sua stessa ammissione, è stato confidente dei carabinieri di Ancona. Lo stesso ha anche affermato di aver conosciuto Picciafuoco, di averlo visto per l'ultima volta molti anni addietro. Non vi è dubbio che il Giovagnini sia la fonte citata nel rapporto 16.2.81 dai C.C. di Ancona. Quindi la politicizzazione del Picciafuoco e dei suoi contatti con organizzazioni eversive trova la prova più fondata nelle confidenze rese da colui che, certamente in contatto con neofascisti di terza posizione, era compaesano ed amico dell'imputato. Questo indizio, tutt'altro che labile ed evanescente, viene, con i soliti criteri delegittimanti usati dalla Corte, svalutato e reso inutilizzabile. Ma, se si osservano con attenzione i dati emersi dal processo, ancora una volta si deve giungere a censurare la sentenza per la immotivatezza delle sue argomentazioni.

Quindi, il dato oggettivo da cui muovere è l'internità del Picciafuoco ad una organizzazione eversiva ed i suoi rapporti indubbi quantomeno con esponenti di terza posizione.

Altro dato oggettivo travisato nella valutazione della sentenza impugnata è l'annotazione del nome di Picciafuoco nell'agenda di Gilberto Cavallini. Il Cavallini, massimo esponente del terrorismo neofascista, esponente dei NAR, è legato sia alla cellula veneta di Fachini, sia ai vertici dell'eversione romana e sia a esponenti di avanguardia nazionale.

La sentenza sembra cogliere semplicemente (p. 411) la presunta ironia utilizzata nel provvedimento di I grado nel definire tale circostanza. Ed osserva che "l'osservazione ironica si presta ad essere ribaltata". La conclusione è che la menzione del Picciafuoco nell'agenda del Cavallini è "un dato di significato ambiguo affatto inidoneo a dimostrare che il Picciafuoco fosse partecipe di quella banda armata".

Per la verità la sentenza di I grado non fa alcuna ironia.

Ed anche questa volta la Corte di Assise di Appello si esibisce in un fuor d'opera invece che prestare attenzione al valore processuale dell'indizio e collegarlo con gli altri acquisiti.

Nella sentenza di I grado (p. 751) si legge che la giustificazione data dal Cavallini all'inserimento del Picciafuoco nella sua agenda è "involontariamente umoristica" in quanto un uomo dello spessore politico ed eversivo del Cavallini non avrebbe mai effettuato un "censi-mento dei detenuti dell'area eversiva di destra affidandosi ad incontrollate fonti giornalistiche". Tanto più che il Cavallini si era prestato a sostenere l'alibi di Mambro e Fioravanti circa la loro presenza alla stazione di Bologna al momento della esplosione.

Anche questo indizio, quindi, deve essere valutato per ciò che è e non già per ciò che i difensori del Picciafuoco e la sentenza vorrebbero far supporre.

Assolutamente risibili, poi, sono le considerazioni svolte dalla sentenza in relazione ai documenti utilizzati dal Picciafuoco.

La patente di guida intestata a Vailati Enrico ha una indubbia simiglianza con quella sequestrata al Volo nel corso delle indagini sull'omicidio Mangiameli. Per quanto non decisivi, non si possono neppure sottovalutare le considerazioni che vedono la quasi identità dei due documenti; la singolare coincidenza che vuole il Picciafuoco accusato di strage e Volo autoaccusarsi dello stesso delitto; la inquietante presenza di Mangiameli, ospite di Mambro e Fioravanti e poi assassinato da questo immeditamente dopo il 2 agosto 80; la strana coincidenza del soggiorno in Sicilia sia di Picciafuoco che di Mambro e Fioravanti; la comune militanza politica in una organizzazione eversiva di destra.

Certamente nessuno di tali argomenti è da solo decisivo ma nel loro complesso assumono una significanza probatoria indubbia.

Se poi ogni circostanza è isolata, valutata solo di per sé, e non collegata agli altri indizi, è inevitabile che anche la prova più corposa si annulli nel mare delle ipotesi. L'obbligo della Corte era invece di valutare la congruità, la gravità, la molteplicità e la convergenza di tutti gli indizi. E ciò non è mai stato fatto.

Più inquietante è la sottovalutazione dell'indizio ricavabile dal possesso del passaporto intestato a Pierantoni Enrico. Con rapporto 30.7.87 la Digos di Bologna precisava che il falso passaporto sequestrato a Tarvisio recava lo stesso numero (E213730) di quello rilasciato a tale Brugia.

Il Brugia in un suo interrogatorio (citato in Sent. I grado p. 766) afferma di essere imputato di partecipazione a banda armata e di aver favorito il coimputato Alibrandi Alessandro che risulta aver utilizzato per il suo espatrio clandestino in Libano un passaporto falso recante i dati anagrafici del Brugia stesso.

Picciafuoco mente anche questa volta.

In istruttoria riferisce che il passaporto intestato a Pierantoni gli fu consegnato in bianco da Loria.

In realtà è provato che la carta di identità sequestrata a Tarvisio è provento di un furto perpetrato al Comune di Roma il 9.2.81.

Non può quindi essere stato il Loria, peraltro deceduto, a consegnare il documento al Picciafuoco tra il '71 e il '74.

La menzogna è l'ultimo e vano tentativo di negare l'evidenza. Il collegamento con gli ambienti dell'eversione poi accusati di strage trova una conferma certa.

La sentenza impugnata in un'incomprensibile quanto inutile tentativo di eludere le corrette valutazioni dell'indizio, giunge a prospettare l'ipotesi (p. 423) che non essendo possibile stabilire una netta demarcazione tra falsari di comune malavita e di delinquenza politica si deve "ridimensionare" il significato del fatto. "Esso non può valere ad indicare l'avvenuta politicizzazione del Picciafuoco prima dell'evento stragistico" (p. 423-424).

A questo punto è superfluo continuare a sottolineare quanto forte deve essere la censura nei confronti di un tale criterio di valutazione della prova la cui singolarità lo rende davvero straordinario.

Insomma non solamente ogni elemento acquisito è interpretato in chiave ingiustificatamente riduttiva ma soprattutto la Corte ha assolutamente ignorato l'obbligo di una valutazione complessiva degli indizi la cui valenza probatoria già oltre se singolarmente considerata, diviene decisiva quando si perviene ad una loro osservazione integrata e generale.

 

Da ultimo sempre in relazione alla posizione del Picciafuoco e ad integrazione delle considerazioni ora svolte non può non essere sottolineato il fatto che in data 18.4.91 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale dei Minorenni di Bologna nel proc. pen. (n° 1868/90 GIP) abbia emesso una ordinanza particolarmente significativa.

Questa parte civile costituita anche nel procedimento sopra segnalato ha potuto prendere atto che esistono in tale processo atti che possono avere rilievo non indifferente nel quadro probatorio definito in questo ricorso. In specie si segnala (p. 4 ordinanza GIP - MIN) l'esistenza di dichiarazione di tale Massimo Buscarini ai carabinieri di Osimo (fasc. p. 238 atti GIP).

Nell'ordinanza si legge: "Le dichiarazioni del teste Buscarini, comparso per la prima volta negli atti del procedimento per la strage, pur a distanza di oltre dieci anni dai fatti, meritano infatti attente considerazioni, sia perché la politicizzazione del Picciafuoco appare elemento rilevante come emerge dalla lettura degli atti conclusivi l'istruttoria ed il giudizio di primo grado, sia perché sono state rese nell'ambito delle verifiche richieste dal P.M. min. a seguito delle affermazioni di Izzo (fasc. p. 130) a proposito del ruolo di Ciavardini quale elemento che avrebbe posto in contatto il gruppo Fioravanti con il Picciafuoco, proprio attraverso Radio Mantakas, emittente di Terza Posizione in Osimo, con la quale, a detta di Izzo, il Ciavardini aveva stretti rapporti; tale emittenza era diretta dal Giovagnini i cui contatti col Ciavardini sono accertati e non contestati. In particolare al Buscarini dovrà chiedersi la conferma delle seguenti sue dichiarazioni:

"... per quanto riguarda Picciafuoco Sergio, ricordo che saltuariamente veniva a trovarci nei locali della Radio perché era molto legato a Giovagnini Leonardo persona anche lui facente parte dello staff e mi sembra di ricordare che quest'ultimo era il responsabile", nonché "tra gli appartenenti della radio in narrativa spesso si sentiva parlare di Terza Posizione, un'associazione tra l'altro di cui all'epoca non si conoscevano né i fini né chi vi prendesse parte".

 

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Alla luce di tutte le considerazioni fin qui svolte, si chiede che l'Ecc.ma Corte di Cassazione voglia annullare per gli interessi civili la sentenza avverso la quale si ricorre per quanto concerne il proscioglimento degli imputati dalle accuse loro contestate, con ogni conseguenziale provvedimento.

 

Roma, 8 maggio 1991

 

prof. avv. Guido Calvi

(anche per il codifensore Avv. Francesco Berti Arnoaldi Veli)

 

 

 

 

 

 

MOTIVI

 

 

del ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa

dalla Corte di Assise di Appello di Bologna

in data 18 luglio 1990, degli avvocati

 

 

Paolo TROMBETTI

Prof. Carlo Federico GROSSO

 

CORTE D'ASSISE D'APPELLO DI BOLOGNA

(per l'Ecc.ma Corte di Cassazione)

 

 

MOTIVI

 

a sostegno della dichiarazione di ricorso per gli interessi civili ritualmente interposta, come da atto notificato qui allegato in originale, dal sottoscritto avv. Paolo Trombetti quale procuratore speciale, giusta procura allegata alla dichiarazione di ricorso del signor Paolo Bolognesi, parte civile costituita nel procedimento n. 32/89 R.G. C. Ass. App. Bologna, avverso la sentenza 18.7.90 con la quale la Corte d'Assise d'Appello assolveva, in riforma della sentenza della Corte d'Assise di Bologna 11.7.88, gli imputati Fachini, Picciafuoco, Signorelli, Rinani e Melioli del delitto di banda armata nonché i medesimi Fachini, Picciafuoco, Rinani, Signorelli e Fioravanti e Mambro dai delitti di strage, omicidio plurimo, collocazione di ordigno esplosivo, lesioni volontarie ed attentato loro contestati.

 

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Si deduce il vizio di motivazione per carenza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione medesima, omesso esame di elementi decisivi e travisamento del fatto e si deduce altresì la violazione della legge processuale per enunciazione e applicazione di principi contrari ai canoni fondamentali dell'ordinamento processual - penalistìco.

 

In generale

 

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Premesse alcune considerazioni che saranno oggetto di censura nei punti relativi agli specifici temi in rapporto ai quali hanno trovato concreta applicazione, la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna affronta le "linee del quadro probatorio per il delitto di strage" (pag. 284) e muove la prima e più pesante critica alla sentenza di I grado, accusandola di aver compiuto un grave errore di metodo per aver fatto precedere il riconoscimento e l'affermazione di responsabilità degli imputati "... da valutazioni ed analisi che hanno avuto ad oggetto una complessa e variegata serie di dati ed informazioni provenienti da fonti disparate, riferite ad un arco temporale esteso...", in buona sostanza affermando che non è lecito "leggere" le condotte attribuite agli imputati, in vicende come queste che purtroppo affliggono (rectius: insanguinano) il nostro Paese da più di vent'anni, nel contesto storico di accadimento.

Tale critica non trova, nella motivazione della sentenza avverso la quale si ricorre, alcuna giustificazione logicamente controllabile, affermando del tutto apoditticamente i giudici di appello che la sentenza di 1° grado è ricorsa "... ad una lettura che.. risulta in molte parti influenzata dallo stesso assunto da dimostrare..." e che "... l'incertezza circa la legittima reciproca ricollegabilità e connessione tra eventi diversi resta spesso insuperabile e rende ancor più fragile ed insicuro un tale metodo di ricostruzione dei fatti".

Non è chi non veda, a questo punto, come una tal critica non possa minimamente scalfire, per la sua intrinseca inconsistenza, il metodo correttamente seguito (non da oggi, ma da sempre nell'esercizio della giurisdizione penale) di analizzare e valutare tutti gli elementi probatori, siano essi di contesto, storici, ambientali e così via, che si presentano al giudice della fattispecie concreta, salvo - ovviamente - l'onere di dare adeguata motivazione all'iter logico seguito nell'utilizzazione di detti elementi nella formazione del convincimento.

Orbene, la sentenza di appello, nell'evidente impossibilità di contrastare il quadro storico - probatorio di inserimento degli eventi per cui è processo così come logicamente individuato dai primi giudici, non si limita a tentare di sminuire il peso complessivo e la solidità intrinseca con le apodittiche affermazioni sopra riportate, ma deve spingersi fino all'enunciazione di principi di per sé abnormi e comunque contrari ai canoni fondamentali del nostro ordinamento processual - penalistico. Essa giunge così (pag. 286) ad affermare che "...tanto grande è stato il numero degli eventi criminosi... e l'intreccio di opinioni, considerazioni e supposizioni personali... che l'opera di discernimento ed analisi, tra la molteplicità degli eventi, alla ricerca di una linea di connessione tra fatti diversi rischia di essere arbitraria e, comunque, non è controllabile e verificabile con il normale mezzo processuale..." così enunciando, il principio dell'impotenza della giustizia, dotata soltanto del normale mezzo processuale, di fronte ai fatti storicamente sviluppatisi con modalità troppo complesse per poter essere compresi e spiegati.

Ove ciò non bastasse, osserva ancora la Corte di Assise di Appello che "... quegli stessi fatti sottoposti all'analisi del giudice potrebbero non esaurire il quadro delle vicende significative, in un determinato arco di tempo e sottrarre in tal modo alla considerazione conclusiva momenti determinanti, in senso negativo o positivo, per la ipotesi di accusa" così enunciando il secondo dei principi che essa ha adottato nell'assunzione della decisione assolutoria (e di questo la Corte ha fatto davvero largo uso, come si vedrà in prosieguo) il principio dell'invalidazione del noto attraverso l'ignoto che, a ben vedere, se assunto a canone gnoseologico), negherebbe in radice la possibilità dell'umana conoscenza e non solo in campo processuale.

E' dunque evidente, stante l'enucleazione dei principi suddetti, che i giudici di appello si sono determinati alla riforma della sentenza di condanna muovendo da presupposti logici aberranti e comunque contrari a quelli che governano il nostro ordinamento, con ciò creando - dichiaratamente - il presupposto di quel vizio di motivazione in ragione del quale, oltre che per violazione della legge processuale, si chiede l'annullamento della sentenza d'appello, che risulta, per le cause descritte, viziata in radice, indipendentemente dal rapporto tra la stessa e quella di I grado e che dovrà perciò solo esser annullata, non essendo chiamata la Suprema Corte ad una scelta tra le due sentenze di merito, ma al vaglio ed al controllo dell'iter logico seguito dai giudici d'appello nella motivazione della sentenza da essi pronunciata.

 

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Sulla provenienza della strage dagli ambienti di destra

 

La sentenza di appello non può negare l'imponenza dei documenti e delle testimonianze che dimostrano l'inscindibile legame tra la destra eversiva ed il terrore stragista che ha aggredito l'Italia fin dal 1969. Per sminuire il valore, si dice - contraddicendo ciò che è stato accertato - che le "farneticazioni" erano riferibili solo a singoli individui (dimenticando le numerosissime condanne per le bande armate che di quelle farneticazioni avevano fatto programma d'azione) e si osserva che l'attribuzione delle stragi alla destra non può avere i caratteri della certezza perché anche gli altri processi per strage si sono conclusi senza colpevoli. L'affermazione (a prescindere da ogni considerazione circa l'inferenza di procedimenti penali richiamati così genericamente) è errata, poiché è invece vero che la maggior parte delle decine di processi per gli attentati "indiscriminati" si sono conclusi con la condanna degli attentatori, riconosciuti come terroristi appartenenti alla destra eversiva, ed è altresì vero (si veda la sentenza 16.12.87 della I sez. della Suprema Corte che annullò la sentenza di condanna nel processo c.d. del treno Italicus) che anche nei processi per le stragi più efferate le sentenze, pur assolutorie, hanno individuato con certezza nella destra eversiva il terreno di provenienza degli attentati stragisti. Ancora, la sentenza d'appello cade in aperta contraddizione con sé stessa allorché tenta di sminuire il valore delle testimonianze immediatamente successive alla strage (che l'addebitavano alla eversione di destra) osservando che venivano avanzate anche ipotesi di "provocazione" e citando un articolo di Mario Guido Naldi del marzo 1981 (quando ormai da tempo era stata lanciata la parola d'ordine difensiva della "provocazione") dimentica del fatto che a pag. 47 della stessa sentenza qui impugnata si dà atto che il Naldi, il 19.8.80, cioè 17 gg. dopo la strage "... si diceva convinto che la strage della stazione di Bologna era una provocazione contro le idee sostenute dalla rivista QUEX e doveva spiegarsi con la faida interna ai movimenti dell'estrema destra" così confermando quella che fin dall'inizio lo stesso mondo eversivo di destra sapeva essere una strage addebitabile al loro movimento e che solo anni di depistaggi e di torbide attività di allontanamento dalla verità hanno potuto confondere al punto da far cadere in errore i giudici della Corte di Assise di Appello di Bologna.

 

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Sulla provenienza della strage dalla banda romano - veneta.

 

I giudici di secondo grado evidenziano che, secondo la sentenza della Corte di Assise, uno dei principali elementi che attrae Fachini "...nell'orbita di un'area che pensava ad attentati indiscriminati, come quella romana" (pag. 295 sentenza di appello) è rappresentato dalle dichiarazioni di Vettore Presilio che era a conoscenza in anticipo dell'attentato e che di questo seppe da Roberto Rinani. Ma, dicono i giudici di appello, cadendo in un patente travisamento del fatto, hanno errato i primi giudici credendo che il Vettore si potesse riferire alla strage della stazione di Bologna, poiché il Vettore parlò di "...un fatto di terrorismo diretto pur sempre contro un soggetto od un bersaglio determinato..." e dunque non di un progetto stragista, concludendo che "...le notizie provenienti dal Vettore si riferiscono a tutt'altro e cioè ad attentati a magistrati... e comunque non ad azioni con obiettivi indiscriminati".

Così facendo la Corte di Assise di Appello è caduta in un clamoroso errore logico - interpretativo della prova Vettore, tra l'altro contraddicendosi rispetto all'esposizione del fatto allorché aveva dato atto della segnalazione del giudice di sorveglianza di Padova che comunicava che il 10.7.80 "... u detenuto Vettore Presilio aveva riferito di un'organizzazione di estrema destra che stava preparando un attentato al giudice di Treviso e di un altro attentato di eccezionale gravità che avrebbe riempito le pagine dei giornali - pag; 38 della sentenza.

Ma se gli stessi giudici di appello (che sembrano legare alla parola "attentato" un obiettivo mirato e determinato, quasi ad escludere la possibilità di un attentato stragista e forse su questa base giungono alle conclusioni che qui si criticano) ammettono che Vettore parlò di due episodi - attentati, risulta evidente l'errore gravissimo, foriero di non meno gravi conseguenze, in cui sono caduti affermando che Vettore parla solo di un fatto di terrorismo mirato, si che le sue rivelazioni non varrebbero ad avvicinare l'ambiente neofascista veneto alla programmazione della strage alla stazione, in tal modo travisando i fatti sottoposti a loro vaglio conoscitivo e creando il presupposto per il denunciato vizio di motivazione.

 

Sulla banda armata

 

La sentenza di appello muove ai primi giudici una critica invero immeritata e comunque li accusa di aver adottato per individuare e raggiungere la prova della sussistenza del "patto genetico della banda , il metodo induttivo e di esser così risaliti dal particolare al generale (e cioè dai singoli fatti e dalle attività individuali alla struttura) poiché (e qui sta la sorprendente contestazione) ciò "... può risolversi in una petizione di principio che lascia indimostrato l'assunto iniziale". (pag.307).

Non potremo mai conoscere le ragioni di una così radicale sfiducia nel metodo induttivo, da sempre e giustamente ritenuto il più "garantista", perché la Corte di Assise di Appello non motiva la sua affermazione, con ciò svuotando di significato e di consistenza la operata censura, che viene definita "premessa di metodo" (pag. 308) e che dunque, poiché è dichiaratamente la chiave di lettura per "...esaminare gli elementi proposti dall'accusa e fatti propri dalla sentenza di primo grado a fondamento del giudizio di responsabilità degli imputati del delitto di banda armata così come ricostruito nel capo di impugnazione". (pag. 308) costituisce il dichiarato presupposto del vizio di motivazione che dovrà portare all'annullamento della sentenza.

 

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Dobbiamo confessare che, certo per nostro difetto, pur dopo attenta e meditata lettura della sentenza di appello, siamo rimasti con il senso dell'inafferrabilità dell'iter motivazionale che ha ispirato i giudici di II grado, tanto da convincerci di esser di fronte, in molti punti, ad una motivazione meramente apparente.

Invero, frasi come, ad esempio - e di esempi se ne potrebbero fare davvero tanti - "la prova del vincolo associativo tra componenti, anche generazionalmente distinte, viene dalla sentenza ricercata in una congerie di dichiarazioni testimoniali, oltre che di fatti ed esperienze personali di ciascun soggetto, in verità spesso di marginale interesse; elementi dai quali non può pretendersi che possa discendere l'evidenza di contatti di livello operativo nella banda armata ipotizzata" (pag. 324) danno il senso di un'incertezza (perché mai da deposizioni testimoniali non potrebbero discendere prove?) che diviene certezza negativa sulle conclusioni della Corte di Appello quando essa, dopo aver dato atto della circolazione di idee criminose comuni che legavano l'ambiente veneto a quello romano e che all'evidenza costituivano il nucleo del programma, vuole ridurre il tutto a "semplici ideazioni non ancora progettazioni, non significative di alcun fattivo accordo"... "non ancora rivelatrici in quanto tali di preparazioni operative, di organizzazione di mezzi di assegnazione di compiti" (pag. 322) quasi che le prove per tali elementi dovessero esser desunte dalle "idee comuni all'ambiente veneto e a quello romano" e non fossero invece provate con altri ben più concreti mezzi e quasi che il programma di una banda armata dovesse esser desunto da una "piattaforma" consacrata in un atto deliberativo degli associati assunto in forma solenne.

La verità è che la sentenza di appello non è solo inconsistente ma è travisante il fatto così come ricostruito sulla base di incontrovertibili elementi di prova, uno dei quali - non certo l'ultimo in ordine all'importanza - è stato oltre tutto completamento pretermesso dai giudici di II grado, che pure (a differenza di quelli della Corte di Assise) avevano avuto modo di apprezzarlo compiutamente Ci riferiamo alla sentenza resa in data 28.5.90 dalla I Corte di Assise di Roma nel processo c.d. Addis più altri, acquisita agli atti nel dispositivo e nel capo di imputazione della quale si ricava, a proposito della carenza di prova sui legami tra Fachini, capo della banda veneta e i romani, che lo stesso Fachini è stato condannato, assieme a Mauro Addis, Paolo Aleandri, Euro e Marco Castori, Mario Catola, Pierluigi Concutelli, Carmelo Cortese, Mauro Costantini, Giorgio Cozi, Leone Di Bella, Marcello Scavicchia, Paolo Signorelli e Sandro Sparapani, per associazione eversiva e banda armata (nonché, in concorso con Sergio Calore, Mauro Costantini e Aldo Tisei, per ricettazione e porto d'armi) reati commessi in Roma ed in altri luoghi fino ad epoca imprecisata e successiva al 18.12.79; ci pare che questa condanna rappresenti un elemento di prova insuperabile in ordine ai legami Fachini / romani, ma la Corte, malgrado le sollecitazioni rivolte in sede di discussione, ne ha del tutto omesso l'esame, giungendo - anche in ragione di tale omissione - alla conclusione della mancanza di prova sulla sussistenza della banda armata romano/veneta, quando invece, se avesse correttamente valutato gli elementi sottoposti al suo indizio senza omissioni o travisamenti dei fatti, sarebbe dovuta giungere alla conclusione opposta. Sotto tale profilo, la motivazione della sentenza di appello manifesta vizi logici e valutazioni che ne impongono l'annullamento.

 

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Sulla posizione di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.

Con riferimento al proscioglimento di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro dal delitto di strage, si deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 192 c. 2°, nuovo C.p.p. concernente la valutazione della prova nonché per mancata insufficiente valutazione di elementi essenziali agli effetti di una corretta motivazione, travisamento della situazione di fatto (art. 524 c. 1° 3 C.p.p. anche in relazione all'art. 475 n° 3 C.p.p.)

 

La Corte di Assise di Appello di Bologna, nel giudicare la posizione di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro con riferimento al delitto di strage è intercorsa in un evidente errore nel metodo seguito agli effetti della valutazione della prova ex art. 192 c. 2° (nuovo) C.p.p., e non ha adeguatamente valutato, con riferimento a diversi elementi indizianti, profili importanti che avrebbero dovuto essere invece attentamente considerati.

"Indizio" è l'elemento che per definizione non fornisce di per sé la certezza della soluzione, perché altrimenti si tratterebbe di prova piena; è invece un elemento che fornisce un quadro ipotetico di praticabilità della soluzione accusatoria, e che in quanto tale deve essere attentamente valutato dall'organo giudicante. Il codice di procedura penale, nel nuovo art. 192, vieta che in linea di principio dall'indizio si possa desumere l'esistenza del fatto; dispone che gli indizi possano tuttavia operare come prova quando essi siano gravi, precisi e concordanti.

Stabilito che l'indizio non fornisce, per definizione, la certezza del fatto, ma consente sempre la prospettazione di una o più spiegazioni alternative a quella accusatoria e pertanto, in ultima analisi, l'esistenza del dubbio, si tratta di verificare, alla luce del criterio stabilito dal citato art. 192 c. 2° C.p.p. quale è il grado di serietà che deve possedere il quadro indiziante perché si possa ritenere soddisfatta l'esigenza della prova del fatto. In questa prospettiva l'indicazione dell'art. 192 c. 2° sembra essere sufficientemente puntuale: gli indizi devono essere plurimi (giustamente, mentre il c. 1° parla di "prova", il c. 2° parla, appunto, di "indizi"); gli indizi devono essere valutati, oltre che uno per uno, nel loro insieme, ed appunto nel loro insieme devono apparire "gravi", "precisi" e soprattutto "concordanti" (non valutare gli indizi nel loro insieme significa quantomeno omettere l'esigenza di valutare la loro "concordanza", espressamente richiesta, dall'art. 192 C.p.p.).

Questa puntuale indicazione legislativa corrisponde d'altronde a criteri di logica elementare. Data la natura meramente indiziante di un elemento, valutare ciascun indizio di per sé e considerarlo idoneo ad essere preso in considerazione soltanto se fornisce la certezza che non esistono spiegazioni alternative a quella accusatoria, significherebbe negare di fatto la stessa utilizzabilità dell'elemento indiziario. Ciascun indizio, valutato di per sé, non consentirebbe infatti di escludere ogni possibile spiegazione diversa rispetto a quella accusatoria, e dovrebbe pertanto essere per necessità scartato; in assenza di prove, ogni analisi su meri indizi condurrebbe di conseguenza necessariamente ad escludere l'esistenza del fatto annullando di fatto la prova indiziaria. Ma ciò contrasta con quanto espressamente stabilito dall'art. 192 C.p.p. che, sia pure entro confini precisi, consente di desumere l'esistenza del fatto da semplici indizi.

Orbene, la sentenza impugnata, in generale, ma con particolare evidenza con riferimento alla posizione di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro in relazione alla imputazione per strage, ha valutato i diversi indizi a carico dei due imputati separatamente l'uno dall'altro, senza compiere una loro analisi complessiva e comparata, e dalla constatazione che nessuno di essi fornisce di per sé la certezza del fatto, che ciascuno presenta di per sé profili di equivocità e non elimina in ultima analisi di per sé il dubbio, ha scartato uno dopo l'altro gli elementi indizianti, giungendo necessariamente ad un giudizio di non responsabilità degli imputati. Per le ragioni indicate questo approccio al tema della prova rappresenta tuttavia già di per sé una violazione delle regole di giudizio e in materia di prova che non può non tradursi nella nullità della decisione per vizio di motivazione La Corte di Assise di Appello di Bologna, per fornire una motivazione corretta della sua decisione, avrebbe dovuto valutare innanzitutto il grado di serietà di ciascun indizio di per sé, e verificato un grado sufficiente di praticabilità della spiegazione "accusatoria" operare una valutazione complessiva degli elementi indizianti allo scopo di stabilire se essi, tutti insieme, consentivano di riconoscere quel grado di indiziarietà "grave, precisa e concordante" di cui parla l'art. 192 c. 2° C.p.p.

La Corte di Assise di Appello di Bologna, dopo avere per pagine intere considerato in modo del tutto staccato gli uni dagli altri indizi di volta in volta esaminati, ad un certo punto viene in realtà colta dal dubbio circa la necessità di una valutazione globale del quadro indiziario (quando arriva a trattare dell'indizio "la telefonata di Ciavardini", p. 369). Come vedremo quando ci occuperemo specificatamente di questo profilo, il ragionamento proposto soltanto a questo punto della motivazione, e fino a quel momento del tutto pretermesso, non appare comunque conforme ad una impostazione corretta ex art. 192 c. 2° C.p.p. dell'iter argomentativo: un motivo ulteriore per ritenere inficiata da nullità la sentenza impugnata.

 

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La Corte di Assise di Appello, pur riconoscendo che fin dagli anni sessanta alcuni militanti di destra farneticavano di sanguinosi attentati terroristici, ha negato che sia possibile attribuire la paternità di tali farneticazioni ad un gruppo o ad un organismo ben individuato (p. 289 ss. della sentenza impugnata). Ha quindi escluso che gli atti processuali forniscano la prova della formazione di una banda armata coinvolgente il gruppo veneto facente capo a Fachini e quello romano di Signorelli e Fioravanti.

 

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Le argomentazioni della Corte di Assise di Appello in ordine alla matrice eversiva di destra della strage e alla formazione della banda armata facente capo ai gruppi veneto e romano appaiono in larga misura superficiali ed affrettate, e non tengono in adeguato conto l'imponente quadro di elementi e riferimenti individuati dall'istruttore ed evidenziati dalla sentenza di primo grado. Ad esempio, abbiamo già visto che appare del tutto erroneo e travisante argomentare dalla specificità dell'obiettivo (l'omicidio di un giudice) la completa irrilevanza della testimonianza di Vettore Presilio, che oltretutto ha indiscutibilmente parlato anche di un altro attentato di eccezionale gravità che avrebbe riempito le pagine dei giornali; non sono spiegate le ragioni in forza delle quali si svalutano le testimonianze di Giovagnini, Robbio e Naldi; non sono stati valutati con l'attenzione che avrebbero meritato i documenti provenienti dalla destra eversiva quali i documenti "Da Tuti a Mario Guido Naidi", il manoscritto di Carlo Battaglia intitolato "Linea politica" sequestrato a Latina il 10.9.80, la lettera di Carluccio Ferraresi e Roberto Frigato, il documento "Una analisi tattica" sequestrato a Edgardo Bonazzi, i "fogli d'ordine" di Ordine Nuovo; non sono stati sottoposti ad adeguata analisi critica le dichiarazioni dei pentiti sui rapporti tra i due gruppi; l'esistenza dei rapporti personali tra persone e gruppi è stata considerata isolatamente e non rapportata, invece, come sarebbe stato necessario, alle azioni criminali effettivamente compiute nel periodo antecedente alla strage, genericamente ricordate dalla sentenza; si affronta in un paragrafo ad hoc il tema della "attività della super banda" (p. 316 ss) menzionando alcuni episodi, ma non si trae alcuna conclusione della enunciazione dei fatti ed il discorso rimane assolutamente "sospeso".

E' d'altronde significativo che la sentenza impugnata, dopo avere ritenuto (sia pure nel quadro di una argomentazione motiva gravemente carente sul piano della analisi di fatto come su quello della deduzione logica) non dimostrata con certezza la matrice eversiva di destra della strage, ed avere affermato che la esistenza di un'unica banda non reggeva alla valutazione critica degli atti di causa, si limita ad affermare che alla luce di tali conclusioni l'analisi delle responsabilità individuali per il delitto di strage è introdotto da "elementi indicatori di minore incisività", che al tema delle prove più direttamente e specificamente coinvolgenti Fioravanti e Mambro si perviene al termine di un percorso "indiziante di minore gravità e significatività". Al di là di questa minore significatività ed incisività, dunque, secondo la stessa opinione della Corte di Assise di Appello di Bologna rimane comunque intatta la possibilità astratta di ritenere fondata sulla base di "prove più specifiche e coinvolgenti" la responsabilità di Fioravanti e Mambro.

 

Come si è già accennato, l'analisi dell'iter argomentativo seguito dalla Corte di Assise di Bologna con riferimento ai singoli elementi indiziati dimostra la violazione dei criteri enunciati dall'art. 192 c. 2° C.p.p. La Corte ha infatti esaminato separatamente i diversi indizi, scartando ciascuno di essi sul presupposto che nessuno di essi, di per sé, fornisce la certezza della tesi accusatoria ed esclude la possibilità di una spiegazione alternativa alla stessa, e non ha proceduto ad una loro valutazione comparata come prescrive invece l'art. 192 c. 2° parlando di indizi "concordanti".

 

La Corte ha innanzitutto "scartato" il (fortissimo) indizio costituito dalle dichiarazioni di Sparti. Sparti, ha affermato la Corte respingendo le argomentazioni della difesa degli imputati, ha certamente detto il vero, riferendo correttamente quanto è avvenuto il 4.8.80 nel suo negozio (p. 348). Ma, ha soggiunto la Corte, "la prova che lo Sparti abbia percepito le frasi di Fioravanti e le abbia riferite fedelmente non è ancora la prova della corrispondenza tra quelle stesse espressioni e la realtà dei fatti e, quindi, la prova della responsabilità del Fioravanti"; "quel tremendo accenno alla strage potrebbe essere stato la rivelazione di una altrettanto tremenda responsabilità; ma potrebbe anche essere stato partorito dalla mente eccitata del Fioravanti, mosso dall'intento, soltanto strumentale, di caricare di gravità estrema la sua richiesta di ottenere documenti e vincere definitivamente ogni resistenza ed obiezione dello Spartì (p. 349). Pertanto,

"dalle parole, pur veritiere, del teste quanto alla "storicità" dell'asservimento che i suoi sensi hanno percepito, non può ricavarsi la certezza di una aperta, confessione dell'imputato in ordine all'orrendo crimine... resta la possibilità, sul piano logico e psicologico, che quelle parole siano state dette non già per rivelare l'accaduto, ma piuttosto per utilizzare l'accaduto, facendolo in qualche modo proprio, allo scopo di conseguire un obiettivo immediato e pressante".

Il vizio della argomentazione motiva della Corte non potrebbe essere più evidente. La Corte, verificata (come ha fatto) la veridicità della testimonianza dello Sparti, avrebbe dovuto domandarsi se essa poteva costituire un indizio sufficientemente attendibile di responsabilità a carico di Fioravanti e Mambro, e valutare questo indizio insieme agli altri indizi per stabilire se dal loro insieme fosse possibile desumere il richiesto quadro "grave", "preciso", "concordante". Essa, dopo avere impostato erroneamente il problema nei termini di una eventuale efficacia probatoria "esclusiva" dell'elemento in parola (p. 347, dove si parla impropriamente delle dichiarazioni di Spartì come "prova della responsabilità del Fioravanti"), si è in modo altrettanto viziato sbarazzata dalle parole del teste osservando che da esse non si poteva ricavare la "certezza" di una aperta confessione dell'imputato m ordine all'orrendo crimine, essendo prospettabile "su piano logico e psicologico" (sic!) una spiegazione alternativa del racconto di Fioravanti e Sparti.

 

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L'avere erroneamente giudicato la testimonianza Sparti come un dato isolato, l'essersi illegittimamente domandato se esso fosse di per sé fonte di certezza della responsabilità degli imputati, non avere valutato la serietà dell'indizio in sé e la concordanza con altri indizi, l'avere omesso di valutare adeguatamente profili importanti della vicenda (le citate versioni maldestre dei due imputati) costituiscono palesi violazioni di legge in ordine alla valutazione probatoria che si traducono inevitabilmente nella nullità della sentenza impugnata.

 

 

Analogamente viziato appare il ragionamento seguito dalla Corte con riferimento al tema dei cosiddetti "alibi" proposti dagli imputati per il 2 agosto 1980.

 

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Il problema è ancora una volta mal posto. E' vero che falsi alibi e versioni maldestre e contraddittorie degli imputati non sono di per sé in grado di fornire la certezza della loro responsabilità. Il riscontro delle false dichiarazioni degli imputati costituisce comunque un elemento che, spiegabile con la partecipazione alla strage, avrebbe dovuto essere sottoposto attentamente al vaglio critico unitamente agli altri indizi per verificare l'attendibilità complessiva del quadro indiziario. Una verifica che tanto più sarebbe stata necessaria, in considerazione degli stessi giudizi espressi dalla Corte sugli elementi che (mal) sopporterebbero invece gli alibi stessi (le dichiarazioni di Ciavardini e Cavallini, giudicate dalla stessa Corte "poco rassicuranti", e smentite dalla testimonianza de relato di Sordi, secondo cui Cavallini gli avrebbe confidato non essere vero che il 2.8.80 Fioravanti e Mambro erano con lui e con la Sbroiavacca a Treviso).

 

Viziata è altresì l'argomentazione della Corte di Assise di Appello di Bologna con riferimento al tema della "telefonata di Ciavardini".

La Corte riconosce (nonostante le smentite della Venditti) la veridicità e la attendibilità della testimonianza di Cecilia Loreti, la quale riferì che il 1° agosto 80 giunse a casa di Marco (Pizzari) la telefonata di un amico (poi risultato Ciavardini) il quale disse di non partire più per Venezia in quanto "vi erano gravi problemi" (v. p. 363-365 sent. impugnata). La Corte mostra tuttavia subito dopo di credere alla versione fornita nella istruttoria dibattimentale d'appello dallo stesso Ciavardini (ud. 9.1.90), secondo cui l'impedimento alla partenza per il viaggio di piacere a Venezia sarebbe stato dovuto proprio all'arrivo di Fioravanti a Treviso ed alla sua richiesta di restituzione del documento intestato a Amedeo Francisci (p. 366-367 sent. impugnata) ma senza sottoporre ad alcuna verifica critica un importante elemento di segno contrario emerso in istruttoria e messo chiaramente a fuoco nella sentenza di primo grado (v.p. 678 s. della sentenza di primo grado): e cioè, la circostanza che il Ciavardini in un primo tempo (int. 5.6.81) aveva riferito al G.I. che "... nei primi giorni di agosto non aveva alcun problema di documenti: non è stato per causa di tale problema se non ho pernottato a Venezia...", fornendo in questo modo lui stesso la certezza che i "gravi problemi" nulla avevano a che vedere con problemi di documenti, salvo a modificare le sue parole attenuando le sue sicurezze una volta colto il rilievo del particolare, e fino ad arrivare alla circostanziata "spiegazione" strumentale di cui alla citata udienza del giudice di appello.

L'avere accolto acriticamente la versione fornita in appello senza neppure menzionare la prima, spontanea versione di Ciavardini sui fatti in questione, e senza sottoporla conseguentemente a critica, costituisce carenza grave di motivazione censurabile sotto il profilo di legittimità. Analogamente, la sentenza di appello non affronta l'importante prospettiva concernente le ragioni di fondo per le quali in epoca successiva alla strage Ciavardini è entrato in crisi nei suoi rapporti col gruppo Fioravanti, tanto da essere ricercato per essere fisicamente eliminato.

 

.........

 

La superficialità del ragionamento al quale si affida la motivazione della decisione, e la carenza di analisi critica di elementi importanti presenti negli atti processuali, sono d'altronde particolarmente evidenti nella rapida e sbrigativa parte nella quale la sentenza impugnata si libera del fortissimo elemento indiziante costituito dall'omicidio di Mangiameli ad opera del gruppo Fioravanti.

La sentenza impugnata, dopo avere dato atto della testimonianza originaria di Cristiano Fioravanti, secondo la quale il movente dell'omicidio Mangiameli avrebbe dovuto essere individuato nella esecuzione dell'omicidio Mattarella (p. 372 ss. sent. impugnata), ricorda che la decisione di primo grado ha sostenuto che il tempo trascorso dall'omicidio Mattarella non spiegherebbe la improvvisa decisione di assassinare Mangiameli, mentre ha giudicato che il movente di questo ultimo omicidio sarebbe individuabile invece nella volontà di eliminare un testimone pericoloso per la strage di Bologna; anche alla luce della piega che le indagini stavano prendendo in seguito alle notizie relative alla intervista di Spiazzi, alla conseguente facile identificazione del Mangiameli nel personaggio indicato come "Ciccio", ed alla previsione, ulteriormente conseguente, che attraverso Mangiameli si sarebbe potuto appunto risalire a Fioravanti e Mambro quali responsabili della strage del 2 agosto 1980. Ma, osserva a questo punto sbrigativamente la Corte di Assise di Appello di Bologna (p. 375 ss. sent. impugnata), l'argomentazione della Corte di primo grado, pur del tutto logica e conseguenziale, si fonda su di un dato incerto: la attenzione sul fragile Mangiameli avrebbe comunque potuto fare temere a Fioravanti che egli parlasse, pure se si fosse trattato del solo omicidio Mattarella. L'episodio dell'assassinio Mangiameli manterrebbe pertanto, in realtà, intatta la sua ambivalenza e non presentandosi come premessa certa del pericolo di rivelazioni sulla strage della stazione di Bologna non potrebbe funzionare come prova a carico di Fioravanti e Mambro per quest'ultimo delitto.

Anche qui dunque, la asserita "ambivalenza" dell'indizio in sé ha bloccato la doverosa analisi volta a stabilire il grado complessivo di attendibilità del quadro indiziante.

Ma non solo: una analisi anche soltanto superficiale degli atti di causa rivela che la Corte di Assise di Appello di Bologna ha "dimenticato" comunque di considerare, nel valutare il grado di attendibilità dell'indizio in sé, alcuni elementi importanti. Non ha considerato, ad esempio, l'osservazione secondo cui l'omicidio Mattarella non sarebbe in grado di spiegare adeguatamente la esigenza di uccidere Mangiameli in quanto quest'ultimo, correo in tale omicidio, avrebbe avuto comunque difficoltà a parlare di un delitto al quale aveva partecipato, e del quale pertanto avrebbe potuto essere chiamato a rispondere.

Non ha considerato il volantino di Terza Posizione che, denunciando che Mangiameli era in realtà l'ultima vittima della strage della stazione, confermava pesantemente i sospetti a carico di Fioravanti in merito a quest'ultimo delitto (su questo punto v. la sentenza di I grado, p. 701 s.).

 

 

Sulla posizione di Roberto Rinani e Paolo Signorelli

 

Le censure fin qui mosse alla sentenza d'appello vanno ripetute anche per quanto attiene alla posizione di Roberto Rinani e di Paolo Signorelli.

Quanto al primo, basterà ricordare le dichiarazioni di Vettore Presilio ed il suo inscindibile legame con Massimiliano Fachini. La Corte d'Assise d'Appello, infatti, motiva la sua assoluzione proprio sul fatto di esser il Rinani legato "processualmente e probatoriamente" al Fachini, sicché se è vero che per i giudici d'appello l'assoluzione di quest'ultimo comporta come conseguenza ineludibile anche l'assoluzione di Rinani, è altrettanto vero che tutte le critiche rivolte alla sentenza con riguardo alla posizione Fachini, che dovranno portare al suo annullamento, valgono del pari per il Rinani, satellite del Fachini al punto di seguirne la sorte anche processuale.

Quanto al Signorelli, la sua assoluzione dal delitto di banda armata è conseguenza degli stessi vizi logici della motivazione che già si sono criticati per la posizione di Fachini e che consistono essenzialmente nell'omesso esame di circostanze rilevanti ai fini della decisione e nel travisamento dei fatti oggetto del giudizio.

In breve, occorre ricordare che Paolo Signorelli, capo indiscusso del gruppo romano di cui è punto di riferimento e mente politica, è attivo promotore e organizzatore del gruppo fin dal 1978 (per quel che qui interessa, poiché in realtà l'attività del Signorelli è assai più risalente nel tempo) quando l'imputato, come riferisce Paolo Aleandri (le cui dichiarazioni al proposito la Corte ha dimostrato di ignorare) si rese protagonista anche operativo chiedendo ed ottenendo dal Fachini, tramite l'Aleandri stesso, l'esplosivo che poi consegnò a Marcello Iannilli per l'attentato al Ministero di Grazia e Giustizia. Il Signorelli è poi — anche e soprattutto — il mentore di Fioravanti e si colloca in una posizione centrale e di collegamento rispetto ai gruppi veneto e romano, se è vero (come è indiscutibile sia, visto che è lo stesso Valerio Fioravanti a dirlo al PM di Roma il 26.10.85) che ai primi del 1980 Fachini, interessato a contattarlo, chiese a Signorelli di far da tramite.

D'altronde, il ruolo preminente del Signorelli nell'esperienza di Costruiamo l'Azione e nella realizzazione degli attentati del 1978-79, frutto — come s'è visto — di un patto d'azione con Fachini e la sua internità al movimento politico che li ha ispirati, delineano la sua figura come quella di un capo ideologico e leader politico. Tutto ciò la Corte non ha tenuto nel debito conto, omettendo di considerare le circostanze di fatto aventi la indicata valenza accusatoria o travisandone il significato probatorio, così come già denunciato a proposito delle considerazioni svolte sulla banda armata e sulla posizione del Fachini basterà, per brevità, richiamarci a quanto già esposto al proposito.

 

Sulla posizione di Massimiliano Fachini.

Con riferimento al proscioglimento di Massimiliano Fachini si deduce la violazione dell'art. 474 n° 3, 475 n° 3 e 524 n° 3 c.p.p. 1930 per mancanza, e contraddittorietà della motivazione, omesso esame di elementi decisivi e travisamento del fatto in ordine alla non ritenuta responsabilità dell'imputato per tutti i reati ascrittigli specificamene né in ordine al delitto di concorso in strage.

 

La Corte di Assise di Appello motiva sostanzialmente l'assoluzione di Massimiliano Fachini da tutti i reati ascrittigli con la già affermata impossibilità di attirare il Fachini medesimo all'interno della banda armata veneto/romana, poiché ciò porta come conseguenza che "molto del materiale istruttorio utilizzato dai primi giudici per trarre convincimento in ordine alla partecipazione anche del Fachini alla strage di Bologna perde il suo peso indiziante e l'imputato, non strettamente legato sul piano operativo al Fioravanti, si allontana dal quadro delle ipotesi accusatorie" (p. 431).

Abbiamo già esaminato, più sopra, i passaggi motivazionali relativi alla ritenuta inesistenza della banda armata romano/veneta ed abbiamo visto come essi, ed in particolare le argomentazioni specificamente riguardanti il Fachini, si basino su veri e propri travisamenti del fatto (le dichiarazioni di Sergio Calore e di Paolo Aleandri, che pur considerate richiamate nella sentenza d'appello alle pagg. 66 e 67 non vengono poi più riprese neppure per dimostrare l'inattendibilità, come si sarebbe almeno dovuto fare, per coerenza logica) e sull'omessa valutazione di altri elementi decisivi, come la sentenza Addis + altri pronunciata dalla I Corte di Assise di Roma il 28.5.90 che dà la prova certa dei legami Fachini/romani.

Senza tornare su quanto già detto, che va inteso come qui richiamato, si deve osservare che un altro dato che lega l'imputato al gruppo romano e che dunque contribuisce a dimostrare quegli stessi rapporti da tempo in essere (almeno dal 1978-79 quando Fachini fu organizzatore, ideologo e promotore di una campagna di attentati da non rivendicare, secondo la sua indicazione, compiuti a Roma) sulla base dei quali si stringerà il patto della banda armata che compirà la strage di Bologna, è costituito dall'esplosivo, caratterizzato dalla presenza del T4, che il Fachini in più occasioni fornì ai romani per gli attentati del MRP, tutti rivolti non verso obiettivi mirati, ma diretti indiscriminatamente alla strage, come, valga un esempio per tutti, quello c.d. al CSM, quando venne collocata in Piazza dell'Indipendenza in Roma in occasione del raduno degli alpini una bomba esplosiva che non deflagrò per un puro caso e che avrebbe causato la morte di decine di persone.

Orbene, neppure dal tema dell'esplosivo i giudici d'appello sono riusciti a trarre elementi di convincimento sufficiente, benché si tratti sempre di esplosivo caratterizzato dalla presenza del T4, che possiamo definire il componente "qualificante" la carica fatta esplodere a Bologna.

Il punto è molto importante.

La Corte di Assise afferma, come dato certo e definitivamente acquisito, che Fachini ed il suo gruppo disponevano di quantitativi di T4 proveniente da smunizionamento di ordigni bellici ripescati nel lago di Garda. Tuttavia, poiché le perizie non hanno potuto affermare che proprio quel T4 sia stato quello usato nella miscela preparata per la strage alla stazione e poiché dunque il T4 usato alla stazione potrebbe aver avuto una diversa provenienza, la circostanza perde il suo valore indiziante ed è inidonea a concorrere alla dimostrazione della colpevolezza dell'imputato.

Ancora una volta la Corte incorre nel clamoroso errore di annullare un indizio perché non è prova. E' infatti evidente che se i periti avessero potuto affermare (come fin dall'inizio ben si sapeva non avrebbero in nessun caso potuto fare, dato che i componenti materiali della carica messa a Bologna erano andati tutti combusti nell'esplosione) che quel T4 di Fachini era lo stesso usato per la strage, saremmo di fronte alla prova piena ed inconfutabile della responsabilità del Fachini; poiché tale prova non abbiamo, dice la Corte, non possiamo neppure utilizzare l'indizio, che sicuramente possediamo, poiché esso si annulla nel momento in cui non riesce a diventare prova piena.

Non solo, dunque la Corte - more solito - esamina l'indizio separatamente dagli altri, ma lo frantuma per il solo fatto che esso è un indizio e non una prova, così cadendo nell'errore logico più sopra denunziato, che invalida e vizia in più punti la motivazione della sentenza d'appello.

La verità è che questa circostanza, anche singolarmente considerata, ha una fortissima valenza indiziante, che non può essere - e non è stata - superata con argomentazioni fallaci: Fachini possedeva ed aveva già utilizzato in altri attentati fatti dal gruppo romano un tipo di esplosivo non comune, proveniente da smunizionamento di ordigni bellici ripescati da lui e dal suo gruppo nel lago di Garda; tale tipo di esplosivo costituiva un componente della miscela fatta deflagrare a Bologna.

 

.........

 

Altro indizio che la Corte "svaluta" è quello c.d. dell'avvertimento alla Cogolli.

Anche qui, a parte la solita difficoltà di comprensione di alcuni passaggi della motivazione (che si rivela quindi meramente apparente) come ad esempio la frase "E' facile immaginare la stabilità di un edificio costruito su fondamenta tanto più fragili quando si consideri l'impossibilità di una verifica puntuale dell'intero episodio che è stato negato da colei che ne sarebbe stata protagonista" (p. 441), la Corte sembra ammettere la materialità del fatto (se così non fosse, mancherebbe la motivazione del perché la si nega) ma - si dice - poiché esso cade in un quadro probatorio ormai svalutato dalla mancanza di prove sufficienti della partecipazione di Fachini alla banda romano/veneta, viene a perdere ogni valenza indiziante "... trovando al contrario origine e spiegazione in mille altri modi, quanti in realtà può suggerire". (p. 440). Ora a parte il singolare rinvio ai mille altri modi (quali? la mera causalità? la coincidenza occasionale?) la cosa più sorprendente è che la Corte stessa "... seguendo i più affidabili percorsi della ragionevolezza..." fa l'ipotesi di un Fachini "... che, non partecipe della organizzazione della straordinaria operazione terroristica, ne avrebbe potuto cogliere qualche indistinta avvisaglia che gli avrebbe consigliato prudenza e circospezione (tipiche del suo comportamento) da trasmettere (questa sì) agli amici (p. 442) con ciò immaginando un Massimiliano Fachini (capo indiscusso del gruppo Nord che possiede lo stesso tipo di non comune esplosivo usato per la strage che lui stesso ha già fornito in precedenza per altri attentati al gruppo romano, che è legato a doppio filo a Calore, Aleandri, Signorelli e Cavallini, che ha come luogotenente quel Rinani che rivela in anticipo l'attentato al Vettore che è una delle figure di maggior spicco, se non la principale dell'eversione fascista) che coglie qualche "indistinta avvisaglia" di una strage che non sarebbe ricondicibile alla destra, come dice la Corte, e ne trae consiglio di prudenza, che trasmette agli amici; ci pare che ogni commento sia inutile.

 

In conclusione, sembra innegabile che, anche per quanto riguarda la posizione di Massimiliano Fachini, come già per gli altri coimputati condannati in I grado per la strage di Bologna, la Corte di Assise di Appello ha interpretato in modo erroneamente riduttivo le emergenze probatorie a carico del prevenuto, omettendo la valutazione di insieme di tutti gli elementi probatori e travisando i fatti sottoposti al suo giudizio, così cadendo nel denunciato vizio di motivazione, in ragione del quale la sentenza dovrà essere annullata.

 

.........

 

Alla luce di tutte le considerazioni fin qui svolte, si chiede che l'Ecc.ma Corte di Cassazione voglia annullare per gli interessi civili la sentenza avverso la quale si ricorre per quanto concerne il proscioglimento degli imputati dalle accuse loro contestate, con ogni conseguenziale provvedimento.

 

Bologna, lì 7 maggio 1991

Con ossequio.

 

avv. Paolo Trombetti

 

(anche per codifensore prof. avv. C.F. Grosso)

 

 

 

 

 

 

MOTIVI

 

 

del ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa

dalla Corte di Assise di Appello di Bologna

in data 18 luglio 1990, dell'avvocato

 

 

Giuseppe GIAMPAOLO

 

 

PER LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

 

MOTIVI

 

a sostegno del ricorso proposto dall'avv. Giuseppe Giampaolo, non in proprio ma quale procuratore speciale del Sindaco pro tempore del Comune di Bologna, On.le Renzo Imbeni avverso la sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Appello di Bologna IIa Sezione, il 18 luglio 1990 nel processo c. Ballan ed altri, che, in riforma della sentenza della Corte di Assise di Bologna 11/7/1988, assolve gli imputati Fachini, Picciafuoco, Signorelli, Rinani e Melioli del delitto di banda armata e gli stessi Fachini, Piacciafuoco, Rinani, Signorelli, nonché Fioravanti e Mambro dai delitti di strage, omicidio plurimo, collocazione di ordigno esplosivo, lesioni volontarie ed attentato loro contestati.

Per ognuno degli argomenti trattati:

si deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 475 n. 3 C.P.P. denunciando che la motivazione risulta priva dei seguenti requisiti:

correttezza intesa come aderenza alle risultanze processuali acquisite;

completezza intesa come estensione dell'analisi a tutti gli elementi offerti dal processo, influenti per la formazione dei singoli giudizi e conducenti al giudizio decisivo;

logicità quale conformità ai canoni che presiedono alle forme del ragionamento logico - giuridico.

Si deduce altresì la mancanza di motivazione rispetto ad alcuni punti decisivi che verranno specificamente indicati, così come rispetto ad alcune prove e/o indizi. (Sotto questo aspetto — quello della decisorietà — hanno valenza non indifferente i numerosi travisamenti del fatto che via via verranno indicati).

Si deduce ancora un eclatante difetto di motivazione estrinseca come impossibilità — per alcune carte essenziali della motivazione — di individuare a ratio decidendi.

Quanto alla violazione di legge: si deduce l'errata interpretazione ed applicazione dell'art. 192 C.P.P. 1988, nonché l'applicazione di principi contrari ai canoni fondamentali dell'ordinamento sostanziale e processuale.

 

.........

 

(Viene depositata assieme ai motivi la copia autentica della dichiarazione di ricorso con le relazioni di notifica).

 

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Premessa: chi scrive questi motivi ha letto i motivi depositati dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Bologna, dal Prof. Avv. Guido Calvi per la parte civile Regione Emilia Romagna, dall'Avv. Paolo Trombetti per la parte civile Paolo Bolognesi.

Dichiara perciò di aderire alle impugnazioni del P.G. e di far proprie tutte le argomentazioni scritte nei motivi ora menzionati, che devono intendersi come qui integralmente trascritti, nessuno escluso. Di conseguenza non ripeterà, se non sarà necessario od opportuno nell'argomentare, i fatti, i ragionamenti e le doglianze richiamate.

 

I

Parte generale

 

La presente doglianza di ordine generale si rende necessaria in quanto speculare al metodo usato dalla sentenza impugnata che, cominciando ad investire — da pag. 279 — il merito del processo ha ritenuto opportuno premettere considerazioni di ordine generale, che ha applicato poi ad alcuni aspetti specifici considerati colonne portanti dell'impianto accusatorio relativo al delitto di strage (fino a pag. 302)... per poi passare improvvisamente — con un salto logico (inspiegabile?) — ad esporre la motivazione di riforma in ordine alle condanne inflitte in primo grado per il delitto di banda armata... per poi ritornare ad esaminare la (ir)responsabilità degli imputati di strage.

Tutta la motivazione è perciò permeata da questo breviarium iuris esposto dalla pag. 279 a 304 ed è perciò che appare assolutamente necessario verificare la correttezza della motivazione ivi esposta.

 

-I.1.

 

Il primo degli errores in procedendo è rilevabile in apertura del ragionamento Quando la Corte territoriale esprime una chiara sottovalutazione dell'esame del "quadro storico - politico - istituzionale" che viene ricordato con un semplice e distratto rinvio alla sentenza di primo grado, senza tenere conto che quel quadro è l'occasione, la causa, e a volte il terreno di cultura dei movimenti eversivi oggetto dell'indagine.

Non si può trascurare il "quadro" se si deve esaminare la sussistenza dei debiti di banda armata e associazione eversiva così come contestata con l'aggravante specifica. La sentenza di primo grado aveva esposto chiare ed inequivocabili interazioni fra quadro, movimenti eversivi della destra rivoluzionaria, e la banda armata, nonché l'associazione eversiva sottoposta a processo: queste interazioni avrebbero dovuto essere ben presenti e costituire il fulcro della motivazione di conferma o di riforma non importa: giacché conferma o riforma dovevano passare necessariamente dall'esame della motivazione sul punto. Ed invero: se il quadro era quello esposto dalla sentenza di primo grado è indubitabile che questi imputati si dovevano ritenere raggiunti da una serie indiziante e concordante grave, sia pure non ancora rivestita dal requisito dell'univocità — da ricercarsi in indizi specifici sulle condotte singole; in caso contrario veniva a mancare la serie indiziante ora menzionata.

Ma il caso contrario occorreva dimostrarlo giacché la sentenza di primo grado l'aveva dimostrato e la dimostrazione contraria non solo non è stata data, ma non è stata neppure tentata.

Sul "quadro" si è soffermato a lungo il P.G. nei suoi diffusi motivi; richiamandosi a questi la Corte di legittimità non potrà rilevare non solo la mancanza di motivazione su fatti e prove decisive o il travisamento del fatto, ma anche la motivazione illogica. La Corte di merito d'appello ha avuto coscienza del "quadro", ma lo ha confinato in un chiaro - scuro improduttivo di conseguenze processual - giuridiche mentre costituiva addirittura il movente della maggior parte — se non di tutti — dei correi. Ma occorre forse spendere parole per dimostrare l'essenzialità della ricerca del movente in delitti come questi, o per dimostrare l'illogicità del giudice che si rende conto che il movente va ricercato e poi si rifiuta di prendere atto che occorreva ricercarlo all'interno di quella ricostruzione invece richiamata per relationem, ma non tenuta poi presente?

La ricostruzione generale, una volta acquisita come esposta dalla sentenza di primo grado imponeva al giudice d'appello di trarre le conseguenze logiche non solo rispetto alla prova del movente, ma rispetto alla ragionevole aspettativa da parte degli imputati di garanzia di impunità, di coperture omertose; rispetto alla formazione della prova di fatti costitutivi della banda e dall'associazione eversiva.

Per finire su questa doglianza specifica: la Corte d'Appello ha ritenuto in fatto, sia pure per relationem, l'esattezza della ricostruzione fatta dai primi giudici, ma non ne ha tratto poi le logiche, necessarie, conseguenze.

Essa poi, dopo aver dato credito alla ricostruzione, ne ha smontato nel corso dell'ulteriore motivazione, i singoli pezzi, individuando ed enucleando singoli indizi... per arrivare a scoprire che questi, esaminati singolarmente, non raggiungevano i requisiti previsti dall'art. 192 C.P.P. 1988.

Questo modo di ragionare è illogico e viola l'interpretazione corrente dell'art. 192 C.P.P. secondo quanto ha sempre insegnato la giurisprudenza prima ancora che la norma fosse canonizzata nel processo penale.

 

-I.2.

 

A pag. 280 la sentenza impugnata si avventura in un'ulteriore illogicità manifesta quando proclama incontrovertìbilmente la credibilità delle persone che ha ricostruito "sussistenza e consistenza del fenomeno eversivo" per poi affermare che costoro possono aver mentito su singoli fatti attribuiti agli imputati.

Il ragionamento, corretto, di per se stesso, diviene illogico quando non trae le conseguenze dalle premesse che tali avrebbero dovuto essere: se persone, la cui credibilità è stata verificata rispetto ad altri fatti del processo, hanno testimoniato l'esistenza di fatti specifici a carico di imputati, la loro testimonianza costituirà indubbiamente prova a carico di questi, salvo che agli atti non vi siano prove contrarie o, quantomeno, diverse.

Se queste persone sono coimputate nel medesimo reato o imputate in un reato connesso si applicherà la regola del terzo co. dell art. 192 C.P.P.

Se queste persone non sono tali non ci sarà neppure bisogno della conferma dell'attendibilità.

Ed infine la mera possibilità del mendacio di un teste è sempre esistente. La motivazione corretta impone di infirmare l'affermazione del teste solo quando c'è la prova di un fatto contrario o diverso, non sulla mera possibilità che il teste abbia mentito. Qui il principio del libero convincimento del giudice deve fare i conti sull'obbligo di motivare logicamente il proprio convincimento.

 

-I.3.

A pag. 281 il giudice d'appello propone un'autogiustificazione della riforma affermando che fatti valutati in senso accusatorio dalla sentenza di primo grado, devono essere valutati diversamente stante l'immediata applicabilità sopravvenuta dell'art. 192 C.P.P. 1988.

L'affermazione non fa i conti con la realtà. In una memoria esplicativa successiva sarà proposto un quadro sinottico, che comunque il giudice di legittimità può individuare facilmente fin da ora, fra argomenti usati dal giudice di primo grado e argomenti scritti da quello d'appello. Si vedrà così, al confronto, che la Corte d'Assise aveva già applicato i principi che la giurisprudenza aveva da tempo affermato sulla valutazione degli indizi.

È proprio la mancanza di questa comparazione che è mancata al giudice d'appello. Non è l'art. 192 che ha causato la riforma delle condanne, ma la presupponente pretesa che basti la critica ad un argomento, estrapolato da una motivazione fondata su una concatenazione logica, per far cadere un'intera costruzione logica. E, si noti, ciò che è inammissibile sul piano della motivazione non è certo l'affermazione che nel ragionamento deduttivo si deve procedere sempre sulla base di fatti certi, ma è invece la pretesa di estrapolare un indizio dalla sua "costellazione" (l'espressione è virgolettata perché è tratta dalle sentenze di codesta Corte Suprema) e pretendere di dimostrare che, per ciò stesso, a norma dell'art. 192 C.P.P. non esiste più la costellazione medesima. Un tal modo di procedere è tipico del giuoco delle tre carte, non è ammissibile invece nell'iter motivazionale.

 

-I.4

 

A pag. 282 la sentenza erra ancora in procedendo quando si pone come regola quella di trovare elementi di riscontro confermativi della attendibilità di dichiarazioni. L'attendibilità infatti è del dichiarante e non della dichiarazione; quest'ultima, quando è previsto, assurgerà al rango di prova del fatto quando vi siano riscontri. È il caso delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato, di cui sopra ci siamo occupati, e non è invece il caso generale come sembra di voler credere la sentenza impugnata.

Sulla prova piena (diversa da indizi) di tali dichiarazioni riscontrate richiamiamo per tutte le sentenze delle Sez. Unite Penali 3.2.90 (dep. 20.2.90) in ricorso Belli.

 

-1.5.

 

A pag. 284 il giudice d'appello ha proposto un'ulteriore regola di motivazione, che ha finito per rendere non individuabile la ratio decidendi in alcune parti e illogica la motivazione in altre. Si riporta testualmente il brano per comodità di lettura:

 

"II metodo di trattazione della complessa materia sottoposta all'esame della Corte può utilmente seguire le linee del quadro probatorio tracciato dalla sentenza impugnata e svolgere le argomentazioni utilizzate nei successivi passaggi della motivazione, tenendo conto delle osservazioni critiche alla stessa mosse.

Di conseguenza, come già è stato detto, non sarà necessario riesaminare partitamente l'analisi che del vasto materiale probatorio i primi giudici hanno compiuto, ma soltanto soffermarsi sui passaggi, che, secondo il giudizio di questa Corte di appello, non resistono al vaglio critico, tenendo fermi, con implicito richiamo alla prima decisione, tutti gli altri dati, che possono considerarsi acquisiti".

 

Fedele a questa premessa il giudice d'appello, nel corso della motivazione, ogni tanto, ha estrapolato un "passaggio" che, secondo essa, non resisteva al vaglio critico, tenendo fermi tutti quanti gli altri accertamenti. Ne è risultata così una motivazione schizofrenica che ha finito per creare un mostro che ha prevalentemente il corpo della sentenza di primo grado (che era di condanna pressoché generale) e le membra rachitiche, in quanto costruite altrove, nate dal cosiddetto vaglio critico. Vogliamo dire, in modo non immaginifico, che è contrario alla logica pretendere che "il vasto materiale probatorio" (si dice probatorio non indiziario, n.b.) viene meno solo perché alcuni, non meglio identificati, "passaggi" (ma cosa sono i passaggi?) non reggono al vaglio critico.

Fra l'altro — e non è critica di secondaria importanza — cosi ragionando si finisce per non dar conto di fatto della motivazione perché un'affermazione così generica non spiega quali sono i fatti provati e quali no e priva il ricorrente del diritto di esercitare la propria impugnazione. Noterà la Corte Suprema come questo equivoco si perpetuerà in tutto il corso della motivazione, nell'esame delle singole responsabilità. Mai infatti il giudice d'appello si pone il problema dell'importanza dirimente del passaggio sottoposto a vaglio critico, rispetto al contesto probatorio che deve intendersi provato per dichiarazione preliminare del giudice.

 

- I.6.

 

Alle pagg. 285 e 286 il giudice d'appello critica il metodo usato dalla sentenza di primo grado che aveva "cucito" in un unico tessuto accusatorio fatti, avvenimenti e personaggi senza avere la certezza di una "legittima, reciproca ricollegabilità".

L'affermazione appare gratuita, ingiustificata e così fine a se stessa. Quando il giudice di primo grado "cucì" (per mantenere questo linguaggio) lo fece perché ricompose i pezzi dispersi del mosaico, evidenziando (non creando) una dimostrazione armonica sempre spiegando la reciproca ricollegabilità dei fatti, degli avvenimenti e dei personaggi presi in considerazione.

Se il giudice d'appello, invece di affermare principi astratti, avesse individuato dove in concreto il giudice di primo grado non aveva fatto collegamenti legittimi, avremmo potuto apprezzare l'affermazione come valida.

Sta di fatto invece che è stata proprio la sentenza impugnata a compiere l'errore logico inverso: ha scollegato illegittimamente ciò che era collegato, frantumando un unico agglomerato in massi erratici vaganti fuori da ogni logica comune. Vedremo in seguito, esaminando le singole responsabilità, come questa mania della irrazionale scomposizione abbia condotto a ragionamenti assurdi sulla valutazione della prova. Un esempio per tutti (approfondiremo in seguito): non esiste la prova dell'esistenza di una banda romano - veneta — a detta del giudice d'appello — perché i romani la pensavano in un modo e i veneti in un altro. Poco importa se vi sono numerosissime prove in atti di operatività comune fra i due gruppi anche nello stesso periodo in cui fu commessa la strage alla Stazione di Bologna!

... E così (scagionando si giunge alla pag. 286 dove si afferma che la complessità di queste situazioni "non è controllabile e verificabile con il normale mezzo processuale che pure è l'unico che deve essere utilizzato...". Questa sorprendente affermazione, che afferma la licenza di strage nel nostro ordinamento, è stata adeguatamente criticata nei motivi degli avvocati Calvi e Trombetti; non vengono qui ripetuti gli argomenti di critica cui lo scrivente aderisce, bastando qui aggiungere che la complessità delle situazioni rende indubbiamente più gravoso l'impegno del giudice, ma non impedisce la lettura delle responsabilità individuali. Queste saranno state abilmente nascoste, ma il dovere di discernimento del materiale probatorio, se ben esercitato, può condurre all'accertamento di responsabilità. Ciò aveva fatto correttamente, ed usando metodi garantisti di accertamento, il giudice di primo grado, ciò non ha fatto il giudice d'appello non perché la realtà era complessa ed inestricabile, ma perché non ha letto tutte le carte e valutato tutte le prove e confrontato tutte le situazioni anche con controlli incrociati. Questo era il compito del giudice di secondo grado: egli aveva il dovere di riesaminare tutto, non singoli fatti presi di per se stessi, non poteva e non doveva rifugiarsi in critiche di fumosi "percorsi probatori" per poi pronunciare assoluzioni dovute all'inerzia non alla complessità.

 

 

II

 

II. 1. Secondo i giudici d'appello la strage non proviene da ambienti di destra (a pag. 289 e seg.) — o quanto meno, non c'è agli atti la prova.

 

 

La prima osservazione che viene da fare alla lettura delle pagg. da 289 a 304 è quella di trovarsi davanti a pagine inutilmente saccenti, sfuggenti ai problemi reali e fuorvianti. Ma è proprio questa ultima osservazione che costituisce la base del vizio logico di motivazione che si vuole qui denunciare.

È fin troppo chiaro a chiunque — e lo era a maggior ragione per chi ha scritto la motivazione -- che affrontare il problema delle singole responsabilità penali degli imputati cominciando a negare che la strage non era stata pensata e organizzata negli ambienti di loro provenienza, ha significato mettere un solido pilastro per la dimostrazione della loro irresponsabilità.

È accaduto però che il pilastro è stato piantato sull'argilla di argomenti insussistenti, pochi e maldestramente esposti. La Corte di primo grado aveva dimostrato prima con l'esame dì documenti (conf. sent. Assise Bologna e motivi P.G.), poi con testimonianze che "l'attentato di carattere indiscriminato era stato utilizzato dalla destra eversiva quale strumento privilegiato di lotta armata".

Questa non è ipotesi verosimile — come afferma il giudice d'appello — ma è realtà processuale.

La Corte, nell'affermare una ritenuta di fatto così gravida di conseguenze, non poteva esimersi di dar conto dei documenti esaminati e disattenderli. Ciò non ha fatto: agli atti esiste un rapporto DIGOS fondamentale con tutti gli allegati, c'è la sentenza di definitiva assoluzione per la strage di Piazza Fontana, c'è quella per la strage del treno Italicus: tutte le stragi, indipendentemente dalla mancanza di giudiziale accertamento delle responsabilità individuali, furono pensate, organizzate ed eseguite nell'ambiente della destra eversiva che le aveva teorizzate.

La Corte poi ha omesso di confrontarsi col fatto che vi sono sentenze di condanna, passate in giudicato che hanno individuato responsabilità singole di imputati che agirono, come è stato ritenuto, non certo per scopi personali ma in esecuzione di un credo politico previamente teorizzato ed un'organizzazione conseguente: in particolare si fa riferimento alla sentenza di condanna di Vinciguerra per la strage di Peteano, alla condanna di Franai, Tuti, ed altri per l'attentato alla Camera di Commercio di Arezzo, alla condanna per l'attentato al C.S.M. in Piazza Indipendenza, ecc... I documenti di cui la Corte avrebbe dovuto fare i conti sono innumerevoli, basti qui ricordare i fogli d'ordine di Ordine Nuovo o gli scritti di Tuti.

Negare che l'attentato di carattere indiscriminato era stato prima teorizzato e poi utilizzato nella lotta armata ha significato negare l'evidenza — e questa può essere considerata una critica ai limiti della valutazione del fatto —, ma tale critica investe l'iter argomentativo quando evidenzia come la ritenuta in fatto si cala come un'affermazione apodittica che non tiene e non dà conto delle prove contrarie in atti.

L'unico documento ricordato è l'articolo di Naldi "parole chiare", apparso su Quex del marzo 1981, per stravolgerne il significato, ancora una volta senza adeguata motivazione.

In queste poche pagine, sempre per sostenere la tesi della mancanza di prove sul fatto che la strage provenisse da ambienti della destra eversiva, la Corte ha introdotto un argomento che svilupperà poi da pag. 304: quello della inesistenza di una banda romano - veneta.

Qui l'iter argomentativo è veramente avulso dalla realtà, qui la sentenza motiva su atti di un altro processo!

Lo schema del ragionamento della Corte è il seguente: 1. a Roma c'erano fermenti ma non di più (osserviamo che gli atti del processo Amato, dell'attentato al CSM, dei ritrovamenti dì esplosivi a Tivoli, dei raid terroristici quotidiani, dell'assalto a Radio popolare, ecc. indicavano e indicano qualcosina di più di semplici fermenti. E il quantitativo di armi ed esplosivi a disposizione? e il proliferare di bande e sigle? E l'incombenza dei "vecchi tramoni" che avevano ottenuto gli opportuni collegamenti coi giovani, si fa per dire, spontaneisti? Tutto ciò e tutto il resto che era stato evidenziato dalla sentenza di primo grado e che formula oggetto dei motivi specifici degli altri difensori di parte civile, è indicato come "fermento" ). 2. Nel Veneto si preparavano attacchi a persone (questa ritenuta in fatto si deve apprezzare nella sua estemporaneità: i neofascisti veneti ed i vecchi tramoni hanno la più grande quantità di esplosivo illecito esistente in Italia, Fachini ne è il distributore oculato, l'esplosivo viene usato in tutta Italia in attentati indiscriminati come tutti quelli dell'anno 1978-1980... e la Corte ritiene che nel Veneto si preparavano attentati a persone. Il bello è che la Corte afferma ciò credendo al teste Vettore, che è l'unico a essere preso in considerazione, e dimenticando una parte della testimonianza!). 3. L'intervista di Amos Spiazzi non prova più di quanto sopra (anche a questo proposito va osservato che l'intervista di Spiazzi e tutti gli atti conseguenti se esaminati provano esattamente l'inverso di quanto stabilito arbitrariamente dal giudice d'appello. Basti leggere sul punto la motivazione di primo grado e, soprattutto, esaminare con chi parla Spiazzi a Roma, quando e che cosa riferisce nei suoi rapporti e ai giudici, ben sceverando fra le varie testimonianze.

Tutta la fase processuale che ruota attorno a Spiazzi era ed è di fondamentale importanza nella comprensione del processo e perciò non poteva essere liquidato con due battute). 4. Quanto a Fachini e Signorelli, individuati come procacciatori di esplosivo, infine, la Corte afferma che questo accertamento nulla prova se non lo si esamina all'interno delle problematiche della banda armata che esaminerà nelle pagine seguenti. (Anche questa affermazione è curiosa nella sua illogicità. Ci pare incontrovertibile che se c'è la prova che Fachini e Signorelli disponessero e distribuissero esplosivo, non è che questa prova venga meno se si dimostra che costoro non facevano parte di una unica banda armata. La prova resta, così come viene ancora una volta escluso che si possa affermare così facilmente che la strage non proviene da ambienti di destra perché questi ambienti avevano altri obiettivi: gli esplosivi detenuti illegittimamente servono a fare attentati (come è provato che servirono) non a cavare miniere!).

 

 

— II. 2. la banda armata

 

Da pag, 304 e seguenti la Corte di Assise d'Appello esaminando la responsabilità per il delitto di banda armata condivide la ricostruzione dei fatti e l'impostazione dei problemi di diritto forniti dai primi giudici ma critica la mancata dimostrazione dell'esistenza del momento genetico. In sostanza, secondo la sentenza impugnata, si verificano nel caso tutte le manifestazioni oggettive della banda, ma non c'è la dimostrazione che queste manifestazioni fossero conseguenza di un previo accordo. Non vi sarebbe inoltre la prova della stabilità del vincolo. Sarebbe errato risalire dai fatti alla struttura.

È fin troppo facile notare che un siffatto modo di ragionare è uno strumento per negare apoditticamente l'esistenza di una prova. Che sono infatti le manifestazioni esterne della banda se non "il documento" dell'esistenza dell'associazione criminosa?

È insanabilmente contraddittorio sul piano logico sostenere (conf. pag. 310) che l'humus in cui cresce, si organizza ed opera l'ipotizzata banda armata, è esattamente ricostruito dalla sentenza di primo grado "ma non apporta contributo direttamente utilizzabile al tema della decisione".

Ma se la banda armata, quella banda armata cresce, si organizza ed opera con quegli uomini, come si fa a negarne l'esistenza?

A questo proposito è particolarmente indicativo dello scorretto ragionamento dei giudici d'appello l'aver addirittura pretermesso ciò che fu oggetto di acquisizione processuale proprio nel giudizio d'appello, e fu oggetto di discussione nella fase delle arringhe finali: ci riferiamo alla sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Roma in data 28.5.90, che ha condannato Fachini, assieme al gruppo romano, fra cui Signorelli, sia per banda armata, sia per detenzione di armi e di esplosivo in epoca imprecisata e comunque successiva al 18.12.79.

Alle omissioni di prove decisive, si aggiungono poi le contraddizioni più palesi: un'altra delle dimostrazioni di contraddittorietà è data dal non aver tratto le doverose conseguenze dall'accertamento dell'attività della superbanda. Questo argomento è trattato dalla pag. 316 alla pag. 319; sia pure non esaustivamente i fatti sono esposti in modo dei tutto corretto e condivisibile: c'è a Roma un organismo armato che si esprime dalla fine del '79 fino ai giorni della strage del 2.8.80, c'è una comune strategia di rifiuto dell'ordinamento democratico, si registra un passaggio netto da una precedente situazione di illegalità diffusa al succedersi di episodi criminosi di volta in volta più gravi e mirati, che dimostrano non soltanto il crescere di capacità militari, l'arricchirsi delle dotazioni di armi... ecc., ma anche l'avanzare di un'ipotesi generale di lotta al sistema...

Questi sono gli accertamenti di fatto ritenuti dal giudice d'appello; ma questi accertamenti non bastano, secondo il suo opinamento per dichiarare l'esistenza di quella banda. Un tal ragionamento non trova verifica dalle modeste verifiche contrarie.

Secondo la Corte infatti non avrebbero significatività né gli episodi del progetto di liberazione di Concutelli, né quello della effettiva liberazione di Freda, operati da individui legati fra loro dal vincolo associativo comune giacché, partecipando a queste imprese ciascuno perseguiva proprie finalità e proprie strategie. Il ragionamento è illogico giacché il motivo personale non rileva rispetto alla coscienza e volontà dell'adesione. Il ragionamento della Corte condurrebbe ad escludere l'esistenza di un governo di coalizione solo perché i partiti che vi partecipano hanno ideologie e strategie diverse! Oppure ad escludere l'esistenza di una società di capitali perché i capitalisti di controllo sono addirittura nemici fra di loro!

Il ragionamento è ancora illogico quando esclude la rilevanza probatoria rispetto all'esistenza delle bande dell'accertato progetto comune di uccidere un magistrato; sostiene infatti la Corte d'Appello che tale progetto era ancora embrionale, ci sarebbe stato in sostanza un gran desiderio a Roma come in Veneto di uccidere un magistrato ma mancava ancora la possibilità di tradurre operativamente il progetto.

Questa affermazione si scontra su altri due fatti: a Roma era già stato ucciso un magistrato (Mario Amato) e quindi c'era il potenziale operativo per compiere l'operazione e a Roma la superbanda operava già concretamente, come ha provato la già citata sentenza della Corte di Assise di Roma e le numerose pagine acquisite in questo processo da altre autorità giudiziarie.

 

II. 3. I rapporti fra i vari correi della banda armata

 

Da pag. 323 a pag. 325 la Corte d'Appello, premessa la ovvia considerazione che la semplice reciproca conoscenza non costruisce prova della comune partecipazione ad una banda, esclude, ancora una volta omettendo l'esame di atti decisivi, che dal processo risultino elementi indiziari di tale gravità da far ritenere l'esistenza di un fatto criminale comune. Per dimostrare il proprio assunto la Corte prende in considerazione due righe (diconsi due righe) di una testimonianza di Soderini del tutto articolata, riferisce con assoluta genericità dell'episodio della "festa del solstizio di inverno" in modo che il giudice di legittimità non è posto in grado di sapere di che si parla, ed inferisce la insussistenza della prova dell'inesistenza del patto scellerato dell'assoluzione finale di Signorelli dall'accusa di essere correo di Fioravanti nell'omicidio Amato.

Una volta per tutte — a proposito di questo ultimo argomento — sarà bene chiarire in questa sede di legittimità che il giudicato assolutorio del Signorelli in quel processo non ha altra valenza che quella di stabilire in quel processo l'innocenza dell'imputato e l'impossibilità di riprocessarlo (esclusi i casi di revocazione) per lo stesso fatto. Quell'assoluzione però non impedisce al giudice di altri processi di valutare autonomamente le prove e gli atti esistenti nel processo di assoluzione. La sentenza impugnata ha errato in procedendo quando si è preclusa la possibilità di analizzare le carte del processo Amato, che invece era un suo preciso dovere, visto che erano acquisite, di analizzarle. C'è da aggiungere poi che quell'assoluzione proverà, se mai, l'innocenza rispetto al concorso in omicidio e non certo l'insussistenza della banda: se è vero che i partecipi e financo i promotori e capi della banda non rispondono, per ciò solo, dei reati strumentali commessi dai partecipi se non si dimostri l'inesistenza del concorso in questi singoli reati, è altrettanto vero che dall'assoluzione di un reato non si può (di converso), per ciò solo, inferire l'inesistenza della banda.

Vero è che i rapporti fra Fioravanti e Signorelli riconosciuti dal secondo fin dai primi interrogatori (conf. al G.I. Destro 30.12.80 e — meno diffusamente — al G.I. Zincani il 9.10.80), sono tanto più frequenti e significativi nel periodo di operatività della banda in esame; fatto altamente significativo — che la Corte avrebbe dovuto considerare — è che ambedue gli imputati tendono invece a renderli evanescenti proprio per questo periodo (conf. verbali di dibattimento del I° II° grado).

La Corte, fra le tante omissioni a questo proposito, non ha tenuto conto di una testimonianza riferita da Izzo 1'8/4/86 ai G.I. di Bologna (conf. esami test. B. vol. III cart. 68 aff. 82) che appare particolarmente significativa della comune partecipazione alla banda, non solo dell'esistenza di un patto concordato e poi, forse, non eseguito. Il brano che interessa è il seguente: "Spontaneamente: voglio rammentare due circostanze che mi sembrano significative. La prima: né Cristiano, né Valerio Fioravanti hanno mai parlato di una tentata rapina compiuta ai danni di un negozio romano di materiale HI FI verificatosi nel 1980 e che avrebbe dovuto essere rivendicata come espropriazione. La rapina in realtà non fu effettuata perché quando gli organizzatori della stessa arrivarono in loco era in corso la ripresa di uno spot pubblicitario che rendeva impossibile la ritirata dopo l'operazione. La ragione per la quale non si è mai parlato di questa tentata rapina, è che insieme a Valerio, Cristiano, Mario Rossi ed altri, tutti armati, vi era anche Luca Signorelli. Valerio mi ha spiegato che non era opportuno che si sapesse che nell'80 il figlio di Signorelli fosse insieme con loro. La rapina non era stata progettata parecchio tempo prima della strage di Bologna, ma nel corso del 1980. Voglio anche dire, sempre a proposito di Paolo Signorelli, che recentemente discutendo con Calore questi mi ha fatto notare la grande disponibilità di denaro del predetto, sicuramente sproporzionata allo stipendio di insegnante che percepiva. Sul punto potrà essere più preciso Calore".

La Corte di merito non avrebbe dovuto tralasciare, nell'esaminare il rapporto Signorelli - Fioravanti l'esame di quanto risulta dal rapporto Digos di Bologna 18/5/84 (vol. VIII Atti acquisiti cart. 41, Att. Quex aff.187).

Questo rapporto è tanto profondo e significativo per i due che quando Fioravanti nel 1982 inizia un tentativo definito da lui stesso veramente rivoluzionario di far chiarezza sulle stragi cerca proprio di coinvolgere Signorelli; a lui chiede aiuto per convincere i recalcitranti Freda e Concutelli ma tutti si tirarono indietro a causa dell'impresentabilità dei vecchi tramoni e... delle loro trame rispetto ai giovani spontaneisti e lo stesso Fioravanti sarà costretto a rinunciare al chiarimento proprio per non far scoprire la sua internità a queste losche imprese. Leggere attentamente questa corrispondenza fra gli autori dell'eversione di quegli anni avrebbe portato elementi di chiarimento indispensabili per la valutazione dei rapporti fra loro. Non avendolo fatto significa per la Corte aver sottratto a se stessa e al controllo del giudice superiore, elementi assolutamente decisori.

 

II. 4. Le interazioni Cavallini - Fachini - Fioravanti

 

sono state negate con un'illogicità talmente evidente da richiamare di per sé sola il vizio di legittimità.

Non può essere negato il vincolo di solidarietà operativa criminale fra Fioravanti e Cavallini. Che Cavallini fosse l'uomo introdotto da Fachini nella banda Fioravanti è fatto ampiamente dimostrato dalla sentenza di primo grado con una serie imponente di prove (non di indizi). Queste prove devono ritenersi considerate valide dalla premessa generale fatta dal giudice d'appello quando ha richiamato per relationem la validità di tutto quanto accertato e provato dai primi giudici, esclusi i "passaggi" da sottoporre a vaglio critico. Ebbene l'unico passaggio sottoposto a vaglio critico è dato dal riferimento ad una testimonianza di Calore che riferisce di un colloquio avuto con Cavallini nel dicembre 1979.

In questo colloquio Cavallini, saputo da Calore di che pasta era l'amico e protettore e quali erano i suoi legami, aveva manifestato pesante diffidenza e sospetto. Ma non è forse vero che questa "pesante diffidenza" non impedì a tutti di far parte della banda accertata dalla Assise di Roma con la sentenza impugnata ed a tutti ancora di compiere una serie di reati in concorso fra loro? (conf. ancora sent. Assise Roma ed elencazione contenuta nella sent. di I° grado).

Del resto, avevamo sopra osservato, che altro è la medesima ideologia, altro è la partecipazione ad una medesima banda.

La Corte, a questo proposito ha completamente omesso di tenere conto della testimonianza resa da Izzo (conf. vol. III, Esami test. B. cart. 68, del tutto decisiva sul punto). Il brano che interessa è il seguente:

"Sui rapporti fra il gruppo Fioravanti - Cavallini e Fachini posso precisare quanto segue:

 

Inizialmente io ritenevo Fioravanti in completa rottura con Fachini, poiché così egli mi aveva sempre detto parlandomi di Fachini in termini molto negativi dicendo addirittura che Cavallini e lui stesso avevano progettato di ucciderlo.

Se non che ho appreso successivamente, della presenza di Trincanato all'atto della sparatoria nel corso della quale Fioravanti fa ferito a Padova.

Ho compreso in tal modo che in realtà i rapporti con Fachini dovevano essere ancora in piedi a quell'epoca, poiché Trincanato era entrato in contatto con la destra proprio attraverso Fachini. Freda ed Antonelli mi raccontarono infatti la storia di Trincanato. Costui, già detenuto con Antonelli per reati comuni nel 1975, messo in libertà rimase in contatto con l'Antonelli. Freda suggerì allora all'Antonelli di porre Trincanato a disposizione di Fachini per inserirlo nell'organizzazione, cosa che in effetti avvenne nel 79-80.

Mi risulta in modo assolutamente certo per averlo appreso da più persone e per ammissione dello stesso Gilberto Cavallini, che quest'ultimo dopo la sua evasione del '77 o della fine del '76, si sia appoggiato a Ballan il quale poi a sua volta chiese a Fachini di proteggerne la latitanza. Tanto mi è stato riferito da Sergio Calore, Valerio Fioravanti, da Nistri, da Iannilli, Pedretti ed altri.

Inoltre, dopo la cattura di Valerio a Padova — febbraio 1981 — saltati tutti gli appoggi veneti, Cavallini si rivolse nuovamente a Ballan per proteggere la latitanza della moglie che aveva con sé il piccolo Federico. Anche questa circostanza è ammessa da Gilberto Cavallini e mi risulta da più fonti tra cui Cristiano Fioravanti e Gabriele De Francisci ai quali fu proposto di andare in Bolivia con lo stesso Cavallini e di mettersi ivi a disposizione di Stefano Delle Chiaie e di A.N. Esiste quindi un rapporto Fachini - Ballan protrattosi nel tempo e dimostrato da quanto or ora ho asserito. Ho già riferito, inoltre, in altri verbali e lo confermo oggi dei viaggi di Gilberto Cavallini che sono avvenuti successivamente, in Bolivia".

 

II. 5. I rapporti Fachini - Signorelli

 

In questo paragrafo (da pag. 332) la sentenza impugnata raggiunse il massimo dell'omissione dell'esame di fatti e prove decisorie. Alcune di queste omissioni:

 

a) Signorelli aveva ospitato Fachini nella tenuta di Marta nell'agosto 1980 (la data e la coincidenza avrebbero dovuto indurre la Corte a considerare l'episodio anche sotto l'aspetto degli elementi indiziari dell'esistenza della banda).

b) Signorelli era stato imputato insieme a Mario Rossi ed altri, fra cui Fachini di associazione sovversiva per lo stesso periodo in un processo istruito dal G.I. dott. Napolitano (conf. vol. XI Atti acquisiti cert. 67);

e) la reciproca conoscenza e la solidarietà (politica) ed operativa era stata riconosciuta dallo stesso Signorelli nell'interrogatorio reso proprio al G.I. dott. Napolitano il 20.12.82 (conf. loc. cit. pag. 109 e seg.);

d) sia Signorelli che Fachini vengono considerati da Mariani come facenti parte dei Servizi o addirittura infiltrati (conf. Guerra Marco al G.I. Zincani 1/2/85, vol. X/A-I Esami test. A cart. 246);

e) lo stesso Fabio De Felice aveva riferito che, invitato a cena da Semerari alla fine del 1977, vi aveva trovato anche Signorelli, Aleandri, Fachini e Calore; in quella sede furono gettato le basi operative di costruiamo l'Azione, che continuò ad operare in epoca successiva ed era operante nello stesso tempo in cui operava la banda in esame (conf. sent. I° grado pag. 446 e segg.).

f) Il teste Aleandri (conf. al G.I. dott. De Cesare 7.8.81 - voi. X/ A-G esami test. B, cart. 120-1 aff.T) aveva riferito che, coinvolti i gruppi e avviato il giornale quelli che "si mostrarono stufi di un certo ambiente rivoluzionario a chiacchiere" iniziarono un "discorso operativo". In questa fase Fachini, Raho, Iannilli ecc. presero un nome di battaglia. E' proprio il gruppo di Padova (Fachini, Raho, ecc.) che è il più deciso, organizzato e dispone di esplosivo e Raho finalmente lo porta: 10 kg di esplosivo di tipo speciale: forma circolare con buco in mezzo, ricavato da materiale bellico.

Si passa poi agli attentati rivendicati con la sigla M.R.P.: Campidoglio (esplosivo Raho, Fachini), Regina Coeli (esplosivo proveniente da Villalba di Guidonia e perciò gruppo romano), C.S.M. (idem). Subito dopo questi attentati Fachini assume posizioni di primarietà ed asserisce "che l'obiettivo preliminare da conseguire è quello di dar corpo a una struttura operativa sufficiente ed organizzata che svolga una vera e propria azione militare" (conf. stesso interr. di Aleardi aff. 22).

 

- II. 6.

 

Sostenere, come fa il giudice d'appello nelle conclusioni sulle singole responsabilità; che Fioravanti e Mambro costituiscono "una variabile impazzita di uno scacchiere sempre incline all'imitazione del gioco politico più che all'azione diretta significa concludere l'esame delle carte di un altro processo. Quella operata dalla Corte di merito non è una ritenuta di fatto, non criticabile in sede di legittimità, giacché è una conclusione contraria agli elementi di fatto esistenti nel processo. Questa sì è una variabile impazzita rispetto al dovere di argomentare secondo conseguenzialità logica e giuridica.

 

 

III

 

La risoluzione data dalla Corte di Appello al tema della responsabilità dei singoli imputati in ordine al delitto di strage è fondata su tutti i vizi di motivazione e violazione di legge sopra indicati.

C'è da notare inoltre che l'erronea impostazione datasi dalla Corte per risolvere problemi di ordine generale e per fornire il giudizio sulle responsabilità per banda armata, ha finito per porre i presupposti (il)logici dell'assoluzione per gli altri reati.

 

III. 1. Fioravanti e Mambro

 

Gli altri difensori hanno trattato diffusamente questo aspetto. Si vuole aggiungere qui che la sentenza impugnata nell'esame della posizione di questi due imputati non parte dall'esame degli elementi di prova sulla condotta, ma, invertendo l'iter logico, parte dall'affermare che non è provato che la strage proviene dagli ambienti della destra, non è provato che esisteva un'unica banda armata e perciò... visto che è provato invece che i due facevano parte degli ambienti di destra, e che almeno loro due facevano parte di una banda armata a tutto dedita tranne che alle stragi... sarebbe addirittura inutile esaminare la sussistenza di elementi di responsabilità.

Questo schema di ragionamento non è riferito paradossalmente dal critico redattore di questi motivi, giacché risulta invece chiaro dalla sentenza impugnata laddove indica i successivi elementi come "di minore incisività".

Così, di malavoglia, la Corte ha esaminato la testimonianza Sparti e, bontà sua, l'ha ritenuta tutta veritiera. E qui la Corte ha introdotto il suo capolavoro argomentativo: Sparti ha detto il vero... ma è verosimile l'ipotesi, che Fioravanti abbia, mosso dalla sua mente eccitata, caricato di gravitè la sua richiesta di documenti falsi!

E poiché nessuno al mondo potrebbecredere che un delinquente, per chiedere al proprio falsario di fiducia dei documenti falsi, debba attribuirsi la strage di Bologna, la Corte aggiunge due illogiche argomentazioni:

 

a) Sparti non è teste del fatto oggetto della prova ma del fatto che Fioravanti sembra (?) attribuirsi la responsabilità (ciò sarebbe stato affermato anche da monsieur Lapalisse!);

b) è credibile sul piano "logico e psicologico" che Fioravanti abbia avuto un siffatto comportamento. Ancora una volta l'iter argomentativo esprime un pensiero debole; infatti non risponde ad alcun criterio di logicità il fatto che Fioravanti, dati i rapporti di completa solidarietà omertosa e criminosa in cui si trovava con Sparti, oltretutto non disgiunti da complicità affettuosa, avesse bisogno di spaventarlo per ottenere urgentemente documenti falsi. Per ricordare il tipo di rapporto basta far mente al fatto che, poco tempo prima, il Giusva, dopo aver freddato il giudice Amato, si era recato proprio da Sparti per dirgli: "... lo abbiamo appena tanato".

Ma dalla palese illogicità di una tale ricostruzione si rende conto anche la sentenza impugnata, che per giudicare il bizzarro opinamento inventa una nuova categoria: il "piano logico e psicologico". Ci pare che il giudice abbia voluto dire che se un'interpretazione non appare logica secundum id quod plerumque accidit, diventa logica alla luce della particolare condizione psicologica del soggetto la cui azione deve essere interpretata. Il che varrebbe a dire, nel caso di specie, che Fioravanti Valerio nell'occorso non si comportava normalmente ma in modo patologico. Se così è, il giudice d'appello avrebbe dovuto spiegare in cosa consisteva questa patologia e, soprattutto — visto che buona parte delle azioni delittuose di questo personaggio trovano riscontro in atti — in quali altre occasioni Fioravanti per ottenere coperture, documenti falsi, armi, favoreggiamenti utili alla propria attività criminosa, risulti che abbia avuto comportamenti illogici. Tutto si può dire di Fioravanti — in base agli atti — tranne che non avesse raggiunto nel 1980 un livello di alta professionalità nel crimine. Tale livello non consentiva di andare a confessare la commissione della strage solo per ottenere documenti falsi... da chi li aveva sempre forniti prima o dopo la commissione di delitti anche di minore gravità. Vero è che egli riferiva le sue gesta relativamente al "botto" ad un amico e sodale in cui confidava.

La sentenza, a questo punto, continua a ripetere l'errore dell'estrapolazione del dato processuale a proposito del colore dei capelli della Mambro, della data del passaggio della coppia a Bologna, della telefonata di Ciavardini, dell'interpretazione dell'omicidio Mangiameli. Infatti tutti questi elementi vengono presi in considerazione per affermare "l'ambiguità di un dato indiziante".

Ha dimenticato il giudice di merito di applicare a questo proposito l'insegnamento della Corte regolatrice sull'ineludibilità della prova fornita dalla costellazione di indizi.

Quando gli indizi sono plurimi e concordanti e fra loro concatenati, l'univocità si ricava dal complesso, non dal singolo indizio, che, di per sé, non può necessariamente essere univoco.

Ma che differenza c'è allora, secondo il giudice d'appello, fra singolo indizio e prova?

In questo contesto si pone la critica alle argomentazioni sul valore del ripetuto venir meno degli alibi e del mendacio sistematico; il giudice di primo grado non aveva certo tratto la prova della responsabilità dal fallimento degli alibi proposti dagli imputati, ma aveva invece inquadrato questi fallimenti nell'ambito del quadro indiziante.

Quanto all'interpretazione dell'omicidio Mangiameli si deduce qui che la Corte ha omesso di prendere in considerazione quanto emerso nel corso della rinnovazione parziale del dibattimento con l'audizione del teste Volo. Mangiameli perse la vita proprio quando acquisto piena coscienza non solo sugli autori della strage ma anche sui mandanti! Questo risulta agli atti: la Corte poteva ritenere credibile questa circostanza o meno, ma aveva il dovere di analizzarla e motivare il proprio opinamento sul punto. L'attenzione della Corte su questa testimonianza (v. pag. 376 della sent.) è stata limitata all'interpretazione della famosa lettera anonima: ci pare decisamente un'omissione da sola in grado di provocare l'annullamento della sentenza sul punto.

 

 

- III. 2. Picciafuoco

 

Anche per la doglianza afferente l'assoluzione di Picciafuoco chi scrive questi motivi richiama e fa proprie le argomentazioni degli altri difensori di parte civile.

Si vuole però aggiungere che a pag. 383 la sentenza, dovendo spiegare quanto non è comprensibile sul piano logico in ordine al comportamento dell'imputato Picciafuoco, ancora una volta si avventura con una giustificazione tratta "sul piano psicologico" chiarendo proprio che "è questo e non quello logico il piano su cui poggia l'argomento". Ora sembra impossibile che la Corte non abbia riflettuto sul fatto che, quando un giudice si avventura a ragionare applicando principi propri di un'altra disciplina (nel caso la psicologia), ha l'obbligo di farlo con estrema correttezza e dignità scientifica, ricorrendo, occorrendo, agli esperti. Certo non può applicare la psicologia dei rotocalchi.

È fin troppo evidente che sul piano psicologico, scientificamente inteso, gli atteggiamenti di Picciafuoco non trovano la spiegazione data dalla Corte, che ha preso in prestito maldestramente la psicologia unicamente per far stare in piedi un proprio irrazionale convincimento.

 

- III. 3. La posizione di M. Fachini

 

Ancora una volta la Corte si è presa il lusso di liquidare il problema della responsabilità di questo imputato in undici paginette, nelle quali ha sistematicamente omesso di ricordare le centinaia di indizi tutti concordanti verso la responsabilità di costui.

Poche pagine più indietro, ragionando sulla banda armata abbiamo dimostrato come sia erronea, illegittima e nulla la sentenza di assoluzione di Fachini rispetto a questo reato.

La Corte d'Appello pone uno dei cardini del ragionamento assolutorio di Fachini sulla strage proprio sulla ritenuta estraneità di Fachini alla banda. La conseguenza sarà che, necessariamente annullata la sentenza sulla banda, dovrà annullarsi la sentenza anche per l'assoluzione rispetto al delitto di strage.

Aggiunge la sentenza impugnata che non è provato il collegamento operativo con Fioravanti: anche questa ritenuta è stata sopra criticata come ingiustificabile rispetto alle prove in atti; ma se ciò è vero, l'avvertimento alla Cogolli acquista una grossa efficacia indiziante proprio in forza del ragionamento dei giudici d'appello (conf. pag.439).

 

- III. 4.

 

L'assoluzione di Signorelli dovrà infine essere annullata, prima di tutto per carenza assoluta di motivazione, giacché quelle due misere pagine che sono state dedicate a questo importante imputato contengono una motivazione apparente. Ovviamente anche per questo imputato è stato omesso l'esame di centinaia di documenti processuali!

 

Lo stesso dicasi per l'assoluzione di Rinani.

 

***

 

Lo scrivente aderisce all'impugnazione del P.G. quanto ai capi per i quali l'ente rappresentato non era costituito parte civile. Si riserva per questi di presentare una memoria giacché l'esatta conoscenza dei reati di calunnia pluriaggravata e di associazione eversiva è assolutamente necessaria per comprendere anche le imputazioni di strage e banda armata.

 

Aderisce anche all'impugnazione dell'Avvocatura dello Stato.

 

Conclusioni

 

Voglia la Corte Suprema annullare la sentenza impugnata per quanto concerne il proscioglimento degli imputati dalle accuse loro contestate, con ogni conseguenziale provvedimento.

 

Bologna 27 maggio 1991

 

Avv. Giuseppe GIAMPAOLO

 

Nota per l'Illustrissimo Signor Presidente

della Suprema Corte di Cassazione

 

 

Il sottoscritto difensore segnala all'Ecc.za Vostra che la decisione del ricorso implica la risoluzione di questioni sulle quali le diverse Sezioni Penali della Corte regolatrice, da circa una diecina di anni, forniscono diverse interpretazioni. In modo particolare appaiono rilevanti i problemi afferenti a:

 

1. L'ambito di applicazione della prova indiziaria. (Su questo problema è già dovuta intervenire la sent. Sez. Un. 3.2.90 da Lei stesso presieduta in ricorso Belli: ma sono stati affrontati solo alcuni aspetti ovviamente in relazione a quanto devoluto in quel ricorso).

 

2. La valutazione della prova del concorso di più persone nel reato.

 

Voglia di conseguenza valutare l'opportunità di assegnare il presente ricorso alle Sezioni Unite Penali.

 

Con deferente ossequio

 

Bologna 25 maggio 1991

 

 

Avv. Giuseppe Giampaolo

 


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