Il 12 Febbraio 1992 le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione emette la sentenza.
IL PROCESSO D'APPELLO VA RIFATTO !
La Corte ha sentenziato che la sentenza d'Appello è:
- ILLOGICA
- PRIVA DI COERENZA
- NON HA VALUTATO IN TERMINI CORRETTI PROVE E INDIZI
- NON HA TENUTO CONTO DEI FATTI CHE PRECEDETTERO E SEGUIRONO L'EVENTO
- IMMOTIVATA O SCARSAMENTE MOTIVATA
- IN ALCUNE PARTI I GIUDICI HANNO SOSTENUTO TESI INVEROSIMILI CHE NEPPURE LA DIFESA AVEVA SOSTENUTO.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Ecc. FERDINANDO ZUCCONI GALLI FONSECA Primo Presidente Agg.
1. Dott. GAETANO LO COCO Consigliere
2. Dott. CORRADO CARNEVALE Consigliere
3. Dott. GUIDO GUASCO Consigliere
4. Dott. ALFREDO CARLO MORO Consigliere
5. Dott. VINCENZO SIMONCELLI Consigliere
6. Dott. BRUNELLO DELLA PENNA Consigliere
7. Dott. UMBERTO FELICIANGELI Consigliere
8. Dott. GIORGIO LATTANZI Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1) PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO
LA CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA
nei confronti di:
GELLI Licio, n. a Pistoia il 21.3.1919;
MUSUMECI Pietro, n. a Catania il 18.5.1920;
BELMONTE Giuseppe, n. a Napoli il 18.3.1929;
SIGNORELLI Paolo, n. a Roma il 14.3.1934;
FACHINI Massimiliano, n. a Tirana il 6.8.1942;
PAZIENZA Francesco, n. a Monteparano il 17.3.1946;
RINANI Roberto, n. a Padova il 7.8.1947;
MELIOLI Giovanni, n. a Rovigo il 20.6.1952;
PICCIAFUOCO Sergio, n. a Osimo l'11.11.1945;
FIORAVANTI Giuseppe Valerio, n. a Rovereto il 28.3.1958;
MAMBRO Francesca, n. a Chieti il 25.4.1959;
2) AVVOCATURA DELLO STATO quale rappresentante della PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, MINISTERO DELL'INTERNO E DELLA GRAZIA E GIUSTIZIA ed ENTE DELLE FF.SS. costituiti parti civili,
nei confronti di tutti i su detti imputati, inoltre nei confronti di:
DELLE CHIAIE Stefano, n. a Caserta Centurano il 13.9.1936
TILGHER Adriano, n. a Taranto il 1.10.1947;
BALLAN Marco, n. a Milano il 16.5.1944;
GIORGI Maurizio, n. a Roma il 29.7.1943;
DE FELICE Fabio, n. a Roma a 13.7.1927;
RAHO Roberto, n. a Treviso il 17.1.1952;
IANNILLI Marcello, n. a Roma il 23.5.1959;
3) PROVINCIA DI BOLOGNA, COMUNE DI BOLOGNA, BOLOGNESI PAOLO, costituiti parte civile,
nei confronti di:
FACHINI, FIORAVANTI, MAMBRO, S1GNORELLI, PICCIAFUOCO
4) REGIONE EMILIA ROMAGNA, costituita parte civile,
nei confronti dei predetti e inoltre di:
RINANI, BALLAN, MELIOLI;
5) VALE UMBERTO e GAROFOLI ANNA ANTONIA, costituiti parte civile,
nei confronti di:
MUSUMECI, BELMONTE, PAZIENZA, GELLI;
6) degli imputati:
MUSUMECI, BELMONTE, PAZIENZA, FIORAVANTI, MAMBRO FRANCESCA, CAVALLINI Gilberto, n. a Milano il 26.9.1952 e GIULIANI Egidio, n. a Sora il 3.5.1955;
Avverso la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna in data 18.7.1990;
visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere Dott. Umberto FELICIANGELI.
Uditi, per la parte civile, gli avv.: Giuseppe GIAMPAOLO di Bologna, Francesco BERTI ARNOALDI VELI di Bologna, Guido CALVI di Roma, Umberto GUERINI di Bologna, Paolo TROMBETTI di Bologna, Carlo Federico GROSSO di Torino, Stefano MENICACCI di Roma e Enzo CIARDULLI per l'Avvocatura Generale dello Stato;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale: dott. Renato VIALE che ha concluso per: 1) Chiede dichiararsi inammissibili i ricorsi delle P.C. Provincia di Bologna per omessa presentazione dei motivi e di Vale Umberto e Garofoli Anna per presentazione di motivi non contestuali non sottoscritti da avvocato cassazionista.
2) chiede dichiararsi inammissibili per genericità o infondatezza dei motivi il ricorso dell'Avvocatura di Stato contro Melioli Giovanni, Iannilli Marcello, Raho Roberto, Delle Chiaie Stefano, Ballan Marco, Tilgher Adriano e De Felice Fabio;
3) chiede dichiararsi inammissibili i ricorsi di Giuliani Egidio e Pazienza Francesco per genericità dei motivi;
4) chiede dichiararsi inammissibile il ricorso del P.G. in ordine a Melioli Giovanni, imputato di banda armata per omessa presentazione dei motivi;
5) in accoglimento del ricorso del P.G. nei capi residui, e per quanto di ragione di quelle delle altre Parti Civili, chiede annullarsi la sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte d'Assise d'Appello per quanto riguarda Gelli Licio, Musumeci Pietro, Belmonte Giuseppe, Signorelli Paolo, Fachini Massimiliano in ordine al reato di associazione sovversiva; per quanto riguarda Signorelli Paolo, Fachini Massimiliano, Rinani Roberto, Picciafuoco Sergio in ordine al delitto di banda armata; per quanto riguarda Fachini Massimiliano, Picciafuoco Sergio, Fioravanti Giuseppe Valerio e Mambro Francesca in ordine ai delitti di strage, omicidio plurimo, collocazione di ordigno esplosivo, lesioni volontarie plurime, attentato ad impianti di pubblica utilità; per quanto riguarda Musumeci Pietro e Belmonte Giuseppe limitatamente alla intervenuta esclusione della aggravante speciale contestata in ordine al reato di calunnia; per quanto riguarda Pazienza Francesco in ordine al reato di cui all'alt. 270 bis c.p.; per quanto riguarda Gelli Licio e Pazienza Francesco in ordine al reato di calunnia;
6) chiede rigettarsi i ricorsi di Musumeci Pietro, Belmonte Giuseppe, Cavallini Gilberto, Mambro Francesca, Fioravanti Giuseppe Valerio.
Uditi i difensori avv.ti: Grazia Paolo CAMPARINI di Roma, Domenico BATTISTA di Roma, Marcantonio BEZZICCHERI di Bologna, Adriano CERQUETTI di Roma, Fabio DEAN di Perugia, Giosuè Bruno NASO di Roma, Giuseppe DE GORI di Roma, Gianfranco BORDONI di Bologna, Tommaso MANCINI di Roma, Giuseppe GIANZI di Roma, Stefano MENICACCI di Roma e Patrizio SPINELLI di Roma.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.– La mattina del sabato 2.8.80 un ordigno esplosivo abbandonato nella sala d’attesa di 2/a classe della stazione ferroviaria di Bologna deflagrava intorno alle ore 10 e 25, cagionando la morte di 85 persone ed il ferimento di numerose altre, molte delle quali riportavano lesioni anche gravi o gravissime.
Le indagini, di estrema difficoltà, davano luogo a tre procedimenti infine tutti riuniti nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Bologna, che si concluderà con la sentenza in data 11.7.88.
L’imputazione articolata dei cui capi erano variamente chiamati a rispondere 21 persone rifletteva non solo la prospettazione dell’accusa in ordine all’evento della strage, ma anche quella di una complessa strategia eversivo – terroristica snodatasi nel corso di più anni, della quale il fatto del 2.8.1980 aveva costituito uno dei momenti più significativi – in un cinico piano di controllo del potere istituzionale nel quale erano confluite tendenze eversive di segno anche diverso, tuttavia di ispirazione ideologica di destra.
La struttura probatoria posta a sostegno dell’accusa si articolava essenzialmente negli accertamenti giudiziari compiuti in diversi procedimenti celebrati per vari altri episodi delittuosi di attentati indiscriminati contro l’incolumità pubblica o mirati contro talune persone; nelle dichiarazioni rese da ideologi e/o militanti del terrorismo eversivo in vario modo o in diversa misura apertisi a una revisione critica dei loro comportamenti e delle loro posizioni ideologiche; nelle confidenze raccolte da altri dentro e fuori il circuito carcerario da alcuni degli esponenti più noti e attivi della strategia terroristica – eversiva, resisi responsabili di gravi fatti delittuosi; nelle risultanze di numerosi documenti progettuali e/o ideologici prodotti in diverse circostanze di tempo e di luogo dalle diverse componenti dell’arcipelago sovversivo; negli accertamenti di circostanze specifiche relative all’evento stragistico e alla condotta degli imputati ad esso, indiziariamente, ricollegantisi.
Il capo 1) dell’imputazione prospettava il delitto di costituzione, organizzazione e partecipazione relativa ad un’associazione con fine di terrorismo ed eversione (art. 270 bis c.p.), la cui formazione prendeva le mosse da eventi relativamente remoti rispetto al fatto del 2.8.80, il cui obiettivo era costituito dal disegno politico di acquisire il controllo delle istituzioni per propiziarne una svolta autoritaria e di orientamento decisamente anticomunista e comunque antidemocratico. Strumento di tale disegno politico eversivo era, quando non addirittura la promozione di attentati, quantomeno la connivenza con essi, il favoreggiamento dei responsabili, ma soprattutto la loro gestione politica, perché la reazione dell'opinione pubblica spingesse i pubblici poteri all'involuzione auspicata dall'associazione.
Nell'associazione confluivano persone di diversa estrazione, rappresentative della composita e variegata struttura associativa. Erano imputati per tale capo: Gelli Licio, maestro della nota loggia massonica coperta, denominata "propaganda P/2; Musumeci Pietro e Belmonte Giuseppe ufficiali dell'arma dei carabinieri, membri del servizio segreto militare denominato SISMI, entrambi aderenti alla loggia cennata; Pazienza Francesco collaboratore del SISMI e con ruolo divenuto, all'epoca dei fatti, di rilievo per la sua influenza sul massimo responsabile del servizio, il gen. Santovito, oggi defunto; De Felice Fabio, giornalista, Signorelli Paolo e Fachini Massimiliano, tutti e tre esponenti di spicco del movimento eversivo "Ordine Nuovo" — a suo tempo sciolto siccome costituente una riedizione del partito fascista, ma di fatto ricostituito e in vario modo operativo —; Delle Chiaie Stefano, da anni latitante all'estero, leader dell'organizzazione eversiva denominata "avanguardia nazionale", sciolta nel 1976, ma anch'essa rinata nella clandestinità, e Tilgher Adriano, Ballan Marco, Giorgi Maurizio, persone legate alla detta organizzazione e allo stesso Delle Chiaie.
Il capo 2) dell'imputazione prospettava i delitti di costituzione, organizzazione e partecipazione relativi a una banda annata (art. 306 c.p.) alla quale era riferibile la strage del 2.8.80, ultimo di una sequenza di attentati indiscriminati contro la incolumità pubblica o diretti contro singole persone.
Pur autonomo dall'associazione sub capo 1), l'organismo armato, — al quale aderivano persone militanti in formazioni eversive diverse, anche sotto il profilo ideologico (ma sempre riportabile alla matrice di destra) e operativo —, ne costituiva lo strumento esecutivo violento, nel senso che era il responsabile diretto e materiale dei misfatti politicamente propiziati, utilizzati e gestiti (pur alla insaputa anche di taluni dei maggiori esponenti della banda) dall'associazione come sopra cennato.
Il capo 2° dell'imputazione, era ascritto ai nominati Signorelli e Fachini, dirigenti e ideologi di due distinte articolazioni della banda, una derivante dal movimento eversivo di estrazione romana e l'altra da quello veneto, storicamente legate alle persone e al movimento coinvolti nel procedimento penale seguito alla strage della banca nazionale di piazza Fontana in Milano del 1969; Rinani Roberto, gregario del Fachini, Raho Roberto e Melioli Giovanni, anch'essi legati al Fachini; Fioravanti Valerio, Mambro Francesca, Cavallini Gilberto, Giuliani Egidio e Iannilli Marcello, esponenti di spicco del movimento cd. "spontaneistico" costituito da una miriade di gruppi eversivo - terroristici frequentemente denominato e autodenominatosi NAR (nuclei armati rivoluzionari). E infine Picciafuoco Sergio, pregiudicato per delitti comuni, da più anni latitante, tuttavia sintomaticamente legato ai movimenti di destra eversiva, e in specie al movimento dei NAR e all'organizzazione denominata "terza posizione".
I capi di imputazione da 3 a 8 — riflettenti la accusa di strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 c.p.) e i delitti connessi di omicidio plurimo, porto di esplosivo, lesioni, danneggiamento e attentato a pubblici impianti — erano ascritti ai nominati Signorelli e Fachini, il primo come mandante e il secondo quale complice per la fornitura dell'esplosivo, al Rinani, e, come autori materiali, a Fioravanti, Mambro e Picciafuoco.
Di nessun rilievo m questa sede le imputazioni sub n.ri 9 (falsa testimonianza ascritta a Huberl Klaus Friedrik), 10,11 e 12 (reati relativi alla detenzione di una pistola, ascritti al Giorgi), e 13 (false dichiarazioni sulla propria identità) ascritto al Picciafuoco.
Il capo oggetto del procedimento contrassegnato con il nro. 13/86 rifletteva il delitto di concorso nella costituzione, direzione e organizzazione detta associazione eversiva e terroristica ascritto al Pazienza e di cui si è detto sopra.
I capi oggetto del procedimento contrassegnato con il nro. 2/87 riflettevano il delitto di calunnia aggravata anche dalla finalità di eversione e terrorismo (art. 1 della legge n. 15/80), ascritto ai nominati Musumcci, Belmonte, Pazienza e Gelli.
L'imputazione traeva origine dal rinvenimento sul treno Taranto - Milano, avvenuto il 13.1.81 in Bologna, di una valigia contenente esplosivo di composizione identica a quello della strage del 2.8, di un mitra di documenti e altro. IL fatto era stato, secondo l'accusa, calunniosamente attribuito a persone sapute innocenti, appartenenti a organizzazioni della destra eversiva nazionale ed estera (alle quali si era fatto carico anche di altri episodi delittuosi e, per taluni, della stessa strage), dal Musumeci e dal Belmonte, compilci e mandanti il Gelli e il Pazienza.
La vicenda — in relazione alla quale il Musumeci e il Belmonte già erano stati condannati definitivamente in altra sede per i delitti di peculato e porto di armi ed esplosivo collegati —, all'artificiosa e preordinata scoperta su cennata si inseriva, nel contesto della prospettazione accusatoria, come il più clamoroso e concreto episodio di una manovra articolata di depistaggio delle indagini e di favoreggiamento, la quale aveva riproposto la strategia di copertura dei responsabili di altri fatti delittuosi terroristici già in passato più volte realizzata nella logica propria dell'associazione configurata sub capo 1) dell'imputazione.
2. — Nel processo avanti la corte di assise di Bologna intervenivano come parti civili la presidenza del consiglio dei ministri, i ministeri dell'interno e della giustizia, l'ente delle ferrovie dello Stato, la regione Emilia e Romagna, il comune e la provincia di Bologna, congiunti delle vittime, parti offese dei delitti di lesioni e calunnia.
Al termine del dibattimento, con la sentenza 11.7.88 la corte adottava — per quanto qui interessa — le statuizioni che seguono.
Assolveva con la formula per non avere commesso il fatto il De Felice e il Giorgi, e con quella dubitativa tutti gli altri imputati dei delitti relativi alla associazione terroristica eversiva sub capo 1), avendo la corte ravvisato la incompiutezza della prova riguardo alla formazione e alla sussistenza del patto sociale criminoso.
Assolveva con ampia formula Iannilli Marcello e con quella dubitativa il Raho e il Melioli dalla imputazione di banda armata (capo 2); dichiarava colpevoli Fachini, Fioravanti, Mambro, Signorelli, Cavallini e Giuliani, Picciafuoco e Rinani per il medesimo capo 2), qualificando il reato ascritto agli ultimi due come partecipazione.
Riguardo ai capi da 3 a 8 (escluso il reato sub 7, dichiarato prescritto) concernenti il delitto di strage e quelli connessi, assolveva con la formula del dubbio il Signorelli e il Rinani; dichiarava Fachini, Fioravanti, Mambro e Picciafuoco colpevoli.
Dichiarava Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte colpevoli del delitto di calunnia, con la contestata aggravante della finalità di eversione e terrorismo.
Infliggeva le pene ritenute di giustizia e condannava tutti i predetti, ritenuti colpevoli, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite.
3. — Su appello del procuratore della repubblica, del procuratore generale, delle parti civili, — i cui ricorsi per cassazione erano convertiti in appello ai sensi dell'art. 514 c.p.p. abrogato —, e degli imputati, la corte di assise di appello di Bologna, con la sentenza 18.7.90, adottava le statuizioni che seguono, (per quanto qui rileva).
Dichiarava inammissibili l'appello del P.M. nei confronti del Raho e l'impugnazione dello stesso imputato.
Assolveva per insussistenza del fatto tutti gli imputati del delitto sub capo 1 — associazione terroristica ed eversiva —, omettendo peraltro di pronunciare, nel dispositivo, riguardo al Pazienza. Chiariva, tuttavia, espressamente in motivazione che l'omissione era da ritenersi puramente materiale, in consonanza con la logica della formula assolutoria adottata per gli altri.
In relazione ai delitti concernenti la banda armata, capo 2, assolveva per non avere commesso il fatto il Signorelli, il Fachini, il Rinani il Melioli e il Picciafuoco. Nei riguardi dello Iannilli — nei confronti del quale l’avvocatura dello Stato aveva pur proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado — la corte di assise di appello, constatata l'omessa citazione dell'imputato e la mancata operatività della disposizione dell'art. 514 c.p.p. citato nei suoi confronti, rimetteva a questa corte la statuizione sull'impugnazione.
Confermava la pronunzia di affermazione della responsabilità per gli altri imputati di banda armata, rideterminando le pene nella misura ritenuta di giustizia.
Assolveva tutti gli imputati dal delitto di strage e dai delitti connessi (escluso il capo 7, dichiarato estinto per prescrizione, come già detto) per non avere commesso il fatto.
Con identica formula assolveva Gelli e Pazienza dall'imputazione di calunnia. Confermava l'affermazione di responsabilità nei confronti del Musumeci e del Belmonte per lo stesso delitto, escludendo peraltro il concorso dell'aggravante della finalità di eversione e terrorismo. Dichiarato il reato avvinto per continuazione con quelli per i quali era stata emessa sentenza di condanna definitiva con la pronuncia della corte di assise di appello di Roma in data 14.3.86, rideterminava la pena, aumentando per ciascun imputato quella inflitta con la citata sentenza di anni 3 di reclusione, che dichiarava interamente condonati in applicazione dei D.P.R. n. 744/81 e n. 865/86.
Disponeva correlativamente in ordine alla condanna alla rifusione delle spese del giudizio in favore delle parti civili costituite.
3/a. — La corte di assise di appello risolveva due questioni pregiudiziali — riproposte dagli interessati in questa sede sotto il profilo della violazione di legge — concernenti il procedimento nei confronti del Musumeci e del Belmonte per il reato di calunnia aggravata, e il procedimento nei confronti del Gelli per i reati ascrittigli.
I primi due imputati erano stati citati a giudizio in esito al procedimento con istruzione sommaria del codice di rito abrogato per rispondere del reato di calunnia, avanti al tribunale di Bologna. Tale tribunale declinava con sentenza la propria competenza per territorio, indicando la competenza del tribunale di Roma. Il conflitto sollevato da quest'ultimo giudice veniva risolto da questa corte, che dichiarava la competenza del tribunale di Bologna.
Essendo pendente in fase di atti preliminari il giudizio avanti la corte di assise di Bologna, il P.M., considerando la sussistenza di molteplici ragioni di connessione, chiedeva e otteneva la restituzione degli atti dal presidente del tribunale, e l'emissione del decreto di citazione a giudizio dal presidente della corte di assise. Il procedimento veniva infine riunito dalla corte di assise di Bologna agli altri avanti ad essa pendenti in apertura di giudizio.
Confermando in sostanza le determinazioni al riguardo dei primi giudici, la corte escludeva il denunziato concorso di vizi di nullità generali ex artt. 185 n.ri 1 e 2 del c.p.p. abrogato, né riteneva rilevabile utilmente l'incompetenza del presidente della corte di assise all'emissione del decreto di citazione per reato di competenza del tribunale, né quella della corte di assise per lo stesso reato, considerando che la pur irrituale emissione del decreto di citazione era priva di sanzione processuale e che, — avuto riguardo alle evidenti ragioni di connessione e alla circostanza che la pronunzia era stata emessa dal giudice processualmente superiore —, anche l'incompetenza per materia della corte di assise era priva di conseguenze.
Per il Gelli la difesa eccepiva in prima istanza l'improcedibilità del giudizio in applicazione del principio di specialità sanzionato dall'art. 14 della convenzione di estradizione europea firmata a Parigi il 13.12.57 e ratificata con legge n. 300 del 1963.
La corte di assise di appello, condividendo anche qui la determinazione del primo giudice, riteneva la procedibilità del giudizio, ravvisando il concorso delle condizioni che giustificano la deroga a norma del secondo comma dell'art. 14 citato, che consente la adozione delle "misure necessarie", fra queste compreso il ricorso al procedimento contumaciale, ai fini della interruzione della prescrizione dei reati.
3/b. — L'analisi della corte di assise di appello relativamente alla sussistenza dell'associazione terroristica eversiva prospettata dal capo 1) della imputazione muove da una premessa metodologica, con la quale, — censurando l'impostazione della stessa sentenza di primo grado, pur pervenuta a una pronunzia assolutoria, e quella dell'accusa pubblica e privata —, avverte della necessità di un accertamento e di una valutazione dei dati concreti acquisiti per risalire induttivamente all'oggetto della prova, escludendo la posizione di postulati di natura storico - politica dai quali dedurre la chiave di lettura dei fatti, la quale per ciò stesso risulterebbe aduggiata da presupposti estranei a un corretto metodo di accertamento giudiziale.
Tanto premesso la corte, ripercorrendo sinteticamente l'iter argomentativo della decisione dei primi giudici in relazione alle censure degli appellanti, considera la sequenza dei fatti e dei comportamenti riferibili agli esponenti, nel tempo, delle componenti eterogenee della prospettata associazione e i rapporti fra essi intercorsi, per saggiare la loro idoneità a dimostrare, — oltre la soglia delle alleanze e delle semplici convergenze operative e di intenti di volta in volta verificatesi —, la sussistenza di un accordo associativo stabile fra più persone per perseguire organicamente la realizzazione dell'oggetto sociale criminoso previsto dall'art. 270 bis c.p.
Il complesso di fatti e circostanze preso in esame dalla corte di merito copre un arco temporale che va dal convegno dell'istituto Pollio, tenuto in Roma nel maggio del 1965, alla vicenda della preordinata collocazione della valigia con esplosivo sul treno Taranto - Milano del gennaio '81, che ha dato luogo all'imputazione di calunnia.
La serie degli elementi di accusa vagliati comprende:
— i documenti ideologici, programmatici e/o operativi formati nel cennato arco temporale nell'ambito delle componenti la configurata associazione, a partire dagli atti del detto convegno;
— gli episodi di anomale e devianti interferenze di taluni esponenti degli apparati dei servizi segreti, seguitisi nel tempo (SIFAR, SID, SISMI, SISDE), nelle indagini relative a gravi attentati, quali la strage di piazza Fontana del 1969, quella di Peteano del 1972, l'attentato al treno Italicus del 1974 e altri ancora, per finire con la strage oggetto dell'odierno giudizio;
— il ruolo svolto da Licio Gelli in forza della organizzazione P/2istica, che gli assicurava una considerevole influenza nell'ambito degli apparati dei servizi e su altre numerose persone poste in posizione direttiva nell'organizzazione statale;
— i rapporti intercorsi tra lo stesso Gelli e gli esponenti del movimento ordinovista (Signorelli, Fachini e De Felice) e del movimento di avanguardia nazionale (Delle Chiaie, Tilgher, Ballan), nonché altri ideologi e/o attivisti dell'area eversiva della destra;
— la sequenza delle dichiarazioni rese sulla strategia del Gelli e degli esponenti dei servizi nel rapporto con le organizzazioni eversive, dai militanti di queste apertisi alla collaborazione.
In conclusione, la corte ha ritenuto che,
a) molteplici elementi indizianti non sono rilevanti probatoriamente perché di segno ambiguo;
b) le interferenze e le coperture illecite poste in essere dai servizi in relazione ai procedimenti per i fatti piazza Fontana, Peteano e del treno Italicus non sono ascrivibili all'influenza del Gelli o al suo apparato di potere, allora non ancora affermatosi;
c) la campagna di attentati svoltasi fra il 1978 e il 1980 (compresa la strage del 2.8.) ha bensì visto il dispiegarsi di interferenze devianti di esponenti del SISMI e degli altri apparati dei servizi legati all'organizzazione P/2istica, ma ciò non consente di risalire inequivocabilmente alla sussistenza di un'intesa di tipo associativo fra loro e con gli esponenti della destra eversiva;
d) i rapporti tra i massimi esponenti dei movimenti eversivi di "ordine nuovo" e "avanguardia nazionale", — peraltro mai sfociati in una organica unità tra i movimenti stessi, solo auspicata —, neppure possono implicare logicamente la loro convergenza in un'associazione stabile;
e) conclusivamente, la continuità nell'azione e la comunanza di interessi episodicamente espressasi nelle vicende succedutesi in un considerevole arco di tempo, seppur può dar luogo a inferenze su convergenze di ordine politico, non ancora porta al conseguimento della prova logica dell'accordo sodale tra gli esponenti della organizzazione P/2istica e dei servizi (il cui obiettivo era quello del controllo e del governo del sistema vigente) e gli esponenti dei movimenti eversivi, proteso viceversa a uno scardinamento rivoluzionario del sistema stesso.
3/c. — Sulla banda armata configurata dal capo 2) dell'imputazione la sentenza della corte assise di appello, — discostandosi dalle conclusioni del primo giudice, sostanzialmente confermative dell'ipotesi accusatoria sulla formazione di una banda armata strutturatasi a partire dalla fine del 1979 circa, con l'adesione di alcune persone più eminenti dell'eversione terroristica romana e veneta (rispettivamente facenti capo alle figure carismatiche del Signorelli e del Fachini) —, perviene alla conclusione che l'organismo sociale armato si sia in realtà limitato al gruppo romano capitanato da Fioravanti Valerio, e che non siano riconoscibili elementi probatori conclusivi per ritenere un accordo operativo stabile di tipo sociale di tale gruppo con l'organizzazione eversivo - terroristica veneta diretta dal Fachini, né una direzione ideologica e/o operativa del Signorelli riguardo al gruppo romano.
La corte di assise di appello richiama (sia pur con largo rinvio all'esposizione della sentenza di primo grado) la vicenda storica dei movimenti eversivi di destra articolatasi inizialmente nei raggruppamenti costituiti da Ordine nuovo e Avanguardia Nazionale, formalmente disciolti siccome considerati ricostituzioni del partito fascista, ma di fatto perpetuatisi in clandestinità, sino alla loro crisi, che inutilmente si cercò di superare nel tentativo fallito di unificazione compiuto con il convegno di Albano del 1975, al quale presero parte i massimi esponenti dei due raggruppamenti, e cioè Pierluigi Concutelli, Massimiliano Fachini e Paolo Signorelli per "ordine nuovo" e Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher e Maurizio Giorgi per "Avanguardia Nazionale".
Ricorda ancora la sentenza che sul fallimento del convegno di Albano (inutilmente seguito da un altro a Nizza), nasceva l'esperienza di "Costruiamo l'azione", — movimento aggregatosi sotto la testata dell'omonimo foglio di stampa, articolato in autonomi gruppi operativi che si richiamavano alla medesima matrice politica e proteso alla lotta terroristica con qualche ideale consonanza con i movimenti rivoluzionari della sinistra per l'attenzione alle masse studentesche e sottoproletarie e per la lotta contro lo Stato —, del quale erano ispiratori e attivisti preminenti il Signorelli, il criminologo Aldo Semerari, Fabio De Felice, Aleandri Paolo e Sergio Calore.
Nel dicembre del 1977, da una riunione nella villa del Semerari, per iniziativa di questi, del Signorelli, del De Felice e altri nasceva il movimento "lotta di popolo", mentre andava affermandosi gradualmente il movimento "spontaneistico" dei cd. NAR e quello tendenzialmente organico e gerarchizzato denominato "Terza Posizione". A tali movimenti era riferibile una sequenza di attentati nel 1978 e 1979, talora non rivendicati, o rivendicati con sigle diverse tra le quali quella del Movimento rivoluzionario di popolo (MRP), espressione di "costruiamo l'azione".
Tali precedenti vicende costituiscono — ad avviso della sentenza di appello — un antefatto di rilevanza storico - cronachistica, dal quale non è possibile risalire sotto il profilo probatorio alla configurazione di una super - banda (per così dire) quale prospettata dall'ipotesi accusatoria e ritenuta dalla decisione di primo grado.
Di fatto, attraverso la sequenza di gravi attentati verificatisi a partire dalla fine del 1979, appariva ai giudici di appello dimostrata la formazione di una banda più ristretta e agguerrita, guidata dal Fioravanti e avente come elemento di spicco il Cavallini, la Mambro e Giuliani Egidio, nonché altri, seppur non interessati dall'imputazione oggetto di questo giudizio, quali, per esempio, Ciavardini, Soderini e Giorgio Vale (deceduto).
Fatti significativi ascrivibili a tale gruppo erano l'omicidio dell'agente di Polizia Arnesano del 6.2.80, del quale erano ritenuti responsabili il Fioravanti e Luigi Ciavardini; l'omicidio dell'appuntato di polizia Evengelisti e il ferimento dell'appuntato Manfreda e dell'agente Lorefice del 28.5.80, nel quale erano coinvolti il Fioravanti, la Mambro, il Cavallini, il Ciavardini e Vale Giorgio; l'omicidio del s. procuratore della repubblica di Roma Mario Amato del 28.6.80 per il quale erano dichiarati colpevoli il Fioravanti, la Mambro, il Cavallini e Soderini.
La sentenza di appello esclude la consistenza indicativa di taluni fatti individuati dal primo giudice come momenti significativi dell'accordo sociale stabile tra il gruppo romano e quello veneto, facente capo al Fachini, quali la vicenda della fuga di Freda dal soggiorno obbligato di Catanzaro, il progetto per l'organizzazione della fuga di Pierluigi Concutelli e quello per la uccisione di un magistrato veneto. Ad avviso del giudice di appello, al di là della matrice eversiva di destra, v'era una decisa divaricazione ideologica, culturale e anche, talora generazionale tra le persone coinvolte in tali fatti, e in specie tra lo "spontaneista" Fioravanti, e i vecchi leader Signorelli e Semerari, e gli ideologi e attivisti del gruppo veneto (fra costoro in primo luogo il Fachini), tale da escludere che la convergenza sui fatti cennati potesse costituire un elemento indicativo di una diversa e più pregnante intesa.
La stessa sentenza di appello avverte, nell'esaminare i rapporti interpersonali tra gli imputati della banda armata quale configurata dall'accusa, che scarsa concludenza — in mancanza di altri elementi probatori — può essere attribuita a tali rapporti (là dove essi sono stati accertati), considerando che la lunga militanza dell'ambiente giustificavano siffatti collegamenti, svuotandoli tuttavia di rilevanza indicativa ai fini della prova di un rapporto di stabile solidarietà associativa.
In tale chiave di lettura la sentenza ha ritenuto di valutare i rapporti tra il Fioravanti e il Signorelli, quest'ultimo del resto prosciolto dalle accuse di concorso in taluni dei fatti delittuosi più significativi ascritti al primo; quelli tra il Fachini e il Cavallini, il quale avrebbe, secondo una dichiarazione di Calore, manifestato riserve sulla posizione del primo; quelli ancora tra il Fachini e il Signorelli, anche se ancora legati da esperienze e impegni ideali comuni come quelli del convegno di Albano. Ma da tali precedenti non era possibile inferire che essi avessero aderito ad un accordo sociale con il Fioravanti e gli altri.
E quanto al rapporto Fioravanti — Fachini la sentenza ha escluso che vi fosse la prova attendibile di una conoscenza poco più che saltuaria e superficiale.
3/d. — In ordine alle risultanze concernenti il delitto di strage e gli altri reati connessi (capi da 3 a 8, escluso il 7), la sentenza di appello muove dalla preliminare considerazione che la mancata prova della sussistenza della banda armata, nei termini in cui è stata configurata dall'accusa, finisce per indebolire la portata significativa degli elementi indiziari acquisiti e complessivamente ritenuti conclusivi dalla sentenza dei primi giudici nei confronti di Fioravanti Valerio e della Mambro, del Picciafuoco e del Fachini.
D'altra parte, la stessa riferibilità della strage alla destra eversiva, ritenuta dal primo giudice, è considerata dalla sentenza di appello non più che un'ipotesi verosimile.
Aveva ritenuto la sentenza di primo grado che la vocazione stragista — sotto il profilo ideologico e anche progettuale e politico — fosse già evidente nei movimenti della destra eversiva, sulla base dei seguenti dati:
— la documentazione molteplice acquisita, nella quale, di particolare rilievo, il manoscritto "da Tuti a Guido Naldi", sequestrato il 31.8.80 in una cabina telefonica di via Irnerio in Bologna; il manoscritto di Carlo Battaglia, sequestrato allo stesso in Latina il 10.9.80, intitolato "linea politica"; la lettera inviata da Carluccio Ferraresi a Roberto Frigato; il documento "un'analisi tattica" di Angelo Izzo, sequestrato a Edgardo Bonazzi il 2.8.80, e altri ancora, quali il "memoriale di Eliodoro Pomar", "la disintegrazione del sistema" di Franco Freda, "i fogli d'ordine di ordine nuovo", e la "guerra rivoluzionaria";
— le vicende stragiste anteriori a quella del 2.8.80, quali quella di Peteano, autore confesso e condannato il neofascista Vincenzo Vinciguerra; l'attentato al direttissimo Torino - Roma del 7.4.74, autori Nico Azzi, Mauro Marzorati, Francesco De Min e Giancarlo Rognoni, attivisti della formazione di destra "La Fenice"; la strage del 17.5.73 in Milano, ascritta a Giancarlo Bertoli, sedicente anarchico, ma con legami nella destra eversiva e con persone dei servizi segreti; l'attentato al consiglio superiore della magistratura del 20.5.79 riferibile al confesso Marcello Iannilli; la vicenda della nota strage di P.zza Fontana — rimasta senza colpevoli — ma il cui tormentato procedimento aveva evidenziato il pesante coinvolgimento in attività dinamitarde di personaggi del gruppo eversivo veneto (quali Freda e Ventura); l'attentato al treno Italicus del 4.8.74; l'attentato al treno Bologna - Firenze del 21.4.84 ascritto ad Augusto Cauchi, Fabrizio Zani, Alessandro Danieletti e Andrea Brogi;
— le confidenze di Mario Guido Naldi, redattore del giornale QUEX diretto dallo Zani, all'agente dei servizi Calipatti e il significativo articolo apparso sul n. 5 del marzo '81 di tale foglio, riferibile a entrambi i predetti, sulla matrice provocatoria e di destra della strage; le dichiarazioni di Leonardo Giovagnini militante di "terza posizione", sulle confidenze del Fiore (leader della stessa organizzazione) riguardo ai programmi di azioni militari destabilizzanti; quelle di Mirella Robbio, moglie separata dell'estremista di destra genovese Mauro Meli, sul suo rammarico, dopo la strage del 2.8.80, di non avere corrisposto alla sollecitazione del cap. Segate! (dei servizi) di raccogliere qualche informazione tra i vecchi amici del marito, perché la destra preparava qualcosa di "grosso"; le dichiarazioni del detenuto Edgardo Bonazzi, estremista collegato a Tuti e Freda, per le quali gli ideatori della strage erano stati il Signorelli e il Fachini, ma il fatto aveva avuto conseguenze maggiori del previsto perché da costoro affidato a "ragazzini".
Ma in maniera più specifica e pregnante erano apparse indicative ai giudici di primo grado le dichiarazioni rese a partire dal 10.7.80, dal detenuto Luigi Vettore Presilio (inserito nel gruppo eversivo veneto), e l'informativa al SISDE del luglio '80 del col. Amos Spiazzi (già inquisito per la "Rosa dei Venti" e, in seguito, in altro procedimento che dava occasione alla scoperta di suoi documenti rilevanti), informativa non valorizzata dal servizio, ma seguita da un'intervista dello stesso al rotocalco "L'Espresso" nell'agosto del 1980.
La testimonianza — resa dal nominato detenuto al giudice di sorveglianza dopo insistenze con il suo legale per ottenere un colloquio — appariva contenere l'annuncio della strage, poiché il Vettore riferiva di avere saputo confidenzialmente dal Rinani (legato al Fachini, come si è detto) di prossimi attentati, uno a un magistrato del veneto, e un altro (che si sarebbe verificato nei primi di agosto '80), di tale portata che avrebbe riempito le pagine della stampa nazionale e internazionale.
L'informativa dello Spiazzi — cui si perveniva in seguito al sequestro di un appunto dello stesso, introdotto dalle parole, "il dott. Prati" — rivelava che un tale "Ciccio" (di seguito identificato con il leader di "terza posizione" Francesco Mangiameli, amico di Valerio Fioravanti e da costui assassinato nel settembre '80), si adoperava per ricompattare le fila dei NAR e di TERZA POSIZIONE in vista di un'azione più incisiva con attentati anche indiscriminati. All'informativa, non adeguatamente considerata, lo Spiazzi aveva fatto seguire dopo la strage un'allusiva intervista al settimanale riferendosi ancora al "Ciccio", nel quale non il solo Mangiameli aveva identificato subito sé medesimo; ma anche Rosaria Amico (sua moglie) e Alberto Volo (suo amico e commilitone in terza posizione) lo aveva agevolmente riconosciuto.
Seguirà, dopo l'assassinio del Mangiameli, un volantino di "terza posizione", nel quale la vittima era indicata come "l'86esima" della strage di Bologna, con l'aperta allusione che era stata soppressa dal Fioravanti per le possibili temute rivelazioni che avrebbe potuto fare considerati i contatti rivelati dall'intervista con i servizi.
La valutazione della sentenza impugnata dà ai dati probatori ora ricordati, complessivamente, una valenza indicativa che sfocia — come si è detto — in un giudizio probabilistico sulla riferibilità della strage all'area della destra, osservando che l'idea stragista, pur circolante in quell'area non poteva considerarsi elevata ad espressione di un programma riferibile a gruppi o organismi ben individuati, ma piuttosto era rimasta come manifestazione di intendimenti generici riferibili a singole persone.
Riguardo alla deposizione del Vettore rileva che essa non contiene un chiaro riferimento ad un evento prossimo di strage, ma ad un attentato, certo eclatante, ma mirato contro una singola personalità. E ovviamente la pregnanza indicativa della testimonianza ne rimane in larga misura svuotata.
Sulla vicenda Spiazzi rileva poi che l'informativa riguardava l'iniziativa del Mangiameli per una riorganizzazione dell'eversione di destra e un programma di azioni dimostrative, senza riferimenti alla strage della stazione, se non nella valutazione fattane dallo stesso Spiazzi ed espressa nelle sue successive dichiarazioni iniziali agli inquirenti.
3/e. —Sulle responsabilità individuali concernenti il delitto di strage e quelli connessi, la corte di assise di appello ha preso in esame le circostanze indizianti specificamente riferite ai singoli, che seguono.
IMPUTATI VALERIO FIORAVANTI E FRANCESCA MAMBRO.
1) Dichiarava Sparti Massimo, — delinquente comune politicizzato e coinvolto in varie imprese dei NAR e, specificamente, dei fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti —, che il 4.8. 80 Fioravanti Valerio gli aveva richiesto dei documenti falsi "freschi" per la sua compagna, Mam-bro. Nell'incontro il Fioravanti aveva, con compiacenza, commentato l'evento del 2.8. ("hai visto che botto!" avrebbe testualmente detto), soggiungendo che lui era transitato da Bologna vestito da turista tedesco; aveva elogiato la Mambro per il suo coraggio, ma ella si era dovuta tingere i capelli temendo di poter essere stata riconosciuta. Lo Sparti si era esplicitamente sottratto, impaurito, a ogni ulteriore dichiarazione su quel tragico evento e il Fioravanti aveva concluso il discorso, ricordandogli che comunque egli avrebbe dovuto tacere giacché altrimenti avrebbe messo in pericolo la vita del figlio.
2) Loreti Cecilia, amica di Elena Venditti, fidanzata del Ciavardini — militante dei Nar complice in gravi delitti del Fioravanti e della Mambro (cfr. sopra sub 3/c) — riferiva che il 1°.8.80 era pervenuta una telefonata a casa di Marco Pizzari (suo fidanzato), con la quale il Ciavardini invitava lei e la Venditti a differire la partenza per Venezia, dove si sarebbe dovuta incontrare con lui, adducendo generiche difficoltà di documenti. L'evento del 2.8. aveva indotto la Loreti a pensare che il Ciavardini avesse avuto a che fare con la strage, ma il giovane aveva respinto ogni sospetto. Il Ciavardini in seguito ammetteva di avere fatto la telefonata e, dopo averlo inizialmente escluso, finiva per giustificare il differimento della partenza, assumendo che si era trovato in difficoltà per i documenti di identità falsi di cui aveva bisogno come latitante e che gli mancavano. Ma appariva invece pacifico che egli aveva la disponibilità di un documento e che l'aveva "bruciato", esibendolo in occasione di un modesto incidente stradale avvenuto il successivo giorno 4 o 5.8.
All'episodio della telefonata sembrava doversi ricollegare il risentimento del Fioravanti verso il Ciavardini, manifestatosi subito dopo la strage, attestato dalla stessa Venditti e, confermato da ammissioni, seppur parziali, dello stesso Ciavardini. L'ostilità del Fioravanti per la condotta dell'amico, si era poi risolta, ma non la preoccupazione per i suoi comportamenti processuali. L'Izzo e Furiozzi Raffaella, riferivano infatti della confidenza di Fioravanti Cristiano, il quale aveva ricevuto dal fratello la richiesta di tener fuori dell'omicidio del s. procuratore Amato il Ciavardini, perché questi sapeva qualcosa della strage.
3) L'alibi del Fioravanti e della Mambro relativo al 2.8 (sarebbero stati ospiti del Cavallini e della sua compagna Flavia Sbroiavacca a Treviso e proprio il giorno 2.8 si sarebbero recati a Padova) appariva inadeguato se non addirittura falso, per la genericità e per l'inattendibilità dei testi e per i successivi aggiustamenti fatti dai medesimi interessati, in ripetute contraddizioni fra loro.
La ricostruzione resa dagli imputati sui loro spostamenti correlata con le verifiche fatte era la seguente: il 30.7 i due imputati avevano lasciato Palermo dove erano stati ospiti del Mangiameli e della moglie di costui Rosaria Amico, per recarsi a Roma. Da Roma, in auto con il militante dell'eversione Mauro Addis, si erano recati il 31.7 a Taranto per verificare la base aperta con l'aiuto dello stesso Mangiameli per l'impresa dell'evasione del Concutelli, facendo ritorno la sera per partire da Fiumicino (sempre con documenti a nome "De Francisci") per il Veneto, dove erano stati ospiti del Cavallini sino al 2.8 compreso. Il 4.8 i due erano a Roma dove era avvenuto l'incontro con Sparti e il 5.8 avevano partecipato alla rapina a un'armeria, realizzata — secondo gli imputati — per smentire l'accusa di stragismo che già trapelava ai danni del movimento dei NAR, ma di fatto mai rivendicata.
Inattendibili (per i legami delinquenziali e di amicizia) apparivano le dichiarazioni del Ciavardini e del Cavallini; negative quelle della madre della Sbroiavacca, Brunelli (i due imputati avevano visitato la figlia subito dopo il suo parto 10 luglio '80, ma non avevano mai dormito a casa di lei); decisamente poi l'alibi era smentito dalla dichiarazione di Sordi Walter, il quale dal Cavallini aveva ricevuto la confidenza che il 2.8 il Fioravanti non era affatto a Treviso o Padova.
4) L'omicidio di Francesco Mangiameli, avvenuto nel settembre '80 (cfr. sopra sub par.fo 3/d), costituiva nella ricostruzione della corte di assise di Bologna un ulteriore elemento indicativo del coinvolgimento del Fioravanti (di esso in altra sede ritenuto responsabile) nella strage del 2.8.80. La precipitosità con la quale il delitto era stato portato a segno, subito dopo la vicenda dell'intervista dello Spiazzi a "l'Espresso" e la sensazione diffusasi nell'ambiente eversivo dell'identificazione del "Ciccio" nel Mangiameli, il quale aveva mostrato così, per i suoi contatti con il col.lo Spiazzi, collaboratore del SISDE, e per la piega che avevano preso le indagini, di essere un soggetto vulnerabile e pericoloso, portavano a individuare la causale dell'omicidio nell'intendimento del Fioravanti di eliminare un possibile testimone della sua responsabilità.
Nessuna delle riferite circostanze indizianti è stata ritenuta probatoriamente conclusiva.
La dichiarazione dello Sparti è stata ritenuta attendibile, ma il contenuto allusivo delle battute del dialogo è apparso ambiguo e suscettibile di essere letto come una forzatura del Fioravanti (del resto alieno dal vantare le sue imprese criminose) per indurre lo Sparti, impressionato, a procurargli i documenti dei quali aveva bisogno per la Mambro, che temeva di essere stata notata e riconosciuta.
Attendibile anche la testimonianza della Loreti sulla telefonata del Ciavardini (del resto da costui ammessa), ma plausibile anche la giustificazione del Ciavardini sulle sue difficoltà per i documenti (di cui aveva parlato anche con la Loreti). Supposta la attendibilità di un risentimento del Fioravanti e di suoi propositi punitivi verso l'amico, essi dovevano considerarsi come reazione a quella che era apparsa come una "leggerezza" pericolosa, cosa questa alla quale il Ciavardini non era nuovo. La circostanza rimaneva comunque indicativamente ambigua.
Sull'alibi la corte ha considerato che il suo fallimento non ha valenza probatoria a carico degli imputati e che, peraltro, le contraddizioni non implicavano necessariamente che esso fosse falso, ma anzi potevano costituire indice di spontaneità della deduzione difensiva.
Il collegamento dell'omicidio Mangiameli all'evento del 2.8 è ritenuto dalla sentenza impugnata ancorato a un dato indiziante incerto, perché la causale di tale omicidio — riferita da Fioravanti Cristiano, per quanto confidategli dal fratello, all'essere stato il Mangiameli testimone di un accordo nel quale il Valerio si era impegnato con un politico della Regione Siciliana ad uccidere il presidente della stessa Piersanti Mattarella — era rimasta infine una circostanza non chiarita. E del resto la causale indicata dal Fioravanti Cristiano appariva non meno credibile dell'altra suggerita dalla concatenazione degli eventi.
SERGIO PICCIAFUOCO
1) L'imputato — delinquente comune da più tempo latitante — per molteplici indizi appariva essersi avvicinato alla destra eversiva, in specie a elementi di "terza posizione" e dei NAR in periodo anteriore al 2.8.80. Tanto più risultava da informazioni dei carabinieri di Osimo (città di origine dell'imputato stesso) che lo ritenevano legato a "terza posizione" e riferivano che la sua presenza era stata ripetutamente segnalata in Osimo, sede dell'emittente radio gestita da Leonardo Giovagnini, militante del citato movimento (cfr. sopra par.fo 3/d); dall'annotazione del suo nome in un'agenda contenente numerosi altri nominativi di militante dell'eversione detenuti, sequestrata al Cavallini al momento del suo arresto; dai documenti trovati in suo possesso al momento del suo arresto (avvenuto il 1.4.81 a Tarvisio), e dei quali era stato comunque in possesso, nonché di altri sei passaporti pervenuti in modo singolare da Vienna, contraffatti, riferibili all'imputato.
Al riguardo i fatti, sinteticamente, sono i seguenti: il Picciafuoco era stato in possesso di una patente falsa intestata a "Vailati Eraclio n. a Roma il 7.9.44". Un simile documento falso, intestato a "Vailati Adelfio" n. a Roma il 18.1.45 era stato sequestrato a Vale Alberto, il militante di "terza posizione" legato al Mangiameli.
L'identità del cognome e del luogo di nascita e l'origine greca dei prenomi apparivano indicare una comune origine falsarla di tali documenti.
Il passaporto sequestrato al Picciafuoco a Tarvisio era intestato a "Pierantoni Enrico" e recava il numero autentico di serie E/213730, quello stesso del passaporto autentico rilasciato nel 1978 a Brugia Riccardo (militante del gruppo NAR dei Fioravanti, che solo in seguito risulterà coinvolto in episodi criminosi). Il numero del passaporto, allora "pulito", era stato utilizzato anche da Alessandro Alibrandi (noto personaggio dei NAR) per la sua fuga in Libano.
Nel gennaio del 1981 venivano consegnati alla polizia n. 6 passaporti pervenuti da Vienna, indirizzati alla casella postale intestata a Russo Antonio di Roma. I documenti, contraffatti, risultavano spediti in data coincidente con un giorno in cui il Picciafuoco si era trovato a Vienna.
Due dei sei documenti recavano il numero di serie eguale a quello del simile documento autentico rilasciato a Petrone Luciano (militante dei NAR, come in seguito accertato). Altri due recavano il medesimo numero di serie del passaporto sequestrato al Picciafuoco (di cui si è detto). Tutti recavano una fotografia molto somigliante all'immagine dell'imputato.
I documenti venivano sottoposti a perizia grafo - tecnica per disposizione della corte di assise di appello. L'indagine accertava che tutti e sette i documenti, fra loro comparati, erano di identica matrice falsarla per la identità dei caratteri e del materiale. I caratteri scritti a mano, pur con un minimo margine di incertezza perché in carattere a stampatello, erano riferibili al Picciafuoco.
Costui asseriva di avere avuto i documenti falsi a Roma negli anni 1974/75; il documento a nome Pierantoni gli era stato consegnato predisposto nel supporto cartaceo, che lui aveva fatto completare nei caratteri a stampa a Milano (così come usava fare) e quindi aveva completato di suo pugno i caratteri grafici delle sue generalità a stampatello. Il passaporto "Pierantoni" lo aveva fatto completare nel 1981, quando — essendo stata scoperta la sua identità e la sua presenza a Bologna il giorno della strage — non aveva più potuto utilizzare il documento "Vailati".
2) Sintomatica e correlata alla militanza eversiva dell'imputato e alla strage appariva la accertata presenza di costui alla stazione di Bologna il 2.8, tantoché dalla esplosione era rimasto lievemente ferito e si era fatto medicare all'ospedale verso le 11,30 dichiarando di chiamarsi "Vailati Eraclio", utilizzando le stesse generalità spese in un albergo di Taormina pochi giorni prima e risultanti dal documento falso in suo possesso, del quale si è detto.
Il Picciafuoco dava della sua presenza giustificazioni manifestamente mendaci, che andava modificando e adattando via via che le sue indicazioni venivano controllate e smentite dalle indagini.
Egli sosteneva in sostanza di avere programmato la mattina del 2.8 un viaggio da Modena a Milano, dove doveva recarsi per farsi completare dei documenti di identità falsi (come era suo costume), ma aveva perduto l'espresso Modena - Milano.
Si era allora risolto, pur essendovi la disponibilità di tre corse in treno utili, a recarsi a Bologna per prendere il treno per Milano delle 10 e 34 con un taxi. Ma la ricerca — sulla base delle indicazioni dell'imputato — del conducente di taxi (fra tutti i 56 in servizio a Modena) che l'avrebbe accompagnato da Modena a Bologna dava esito decisamente negativo.
Secondo la sentenza impugnata la politicizzazione dell'imputato non risultava da fatti certi e conclusivi. Le informazioni dei carabinieri — non riscontrate dal Giovagnini — risultavano inutilizzabili, perché confidenziali. La giustificazione del Cavallini di avere notato il nome del Picciafuoco — che pur non conosceva — riprendendolo dalla stampa come uno di quelli che erano indiziati per la strage, appariva plausibile.
Le emergenze concernenti i documenti dimostravano al più che l'imputato aveva una fonte falsaria comune con quella dei terroristi, ma il fatto non poteva di per sé avere altre implicanze.
Non dimostrata l'internità del Picciafuoco al movimento terroristico - eversivo, la sua stessa presenza alla stazione di Bologna risultava svuotata della sua carica sintomatica, dal momento che la evidente determinazione dell'imputato di non dar ragione della sua presenza era pur sempre ricollegabile alla sua posizione di delinquente comune latitante.
Le giustificazioni rese potevano dirsi non dimostrate, ma non decisamente smentite.
MASSIMILIANO FACHINI
1) È ritenuto certo che l'imputato — capo del gruppo eversivo veneto al quale più attentati erano ascrivibili — aveva la disponibilità di un raro esplosivo quale il T/4 di uso esclusivamente militare (e pur raro anche in questo campo), del quale era stato riscontrato l'impiego nel congegno che aveva determinato la deflagrazione del 2.8. Di questo e altro tipo di esplosivo il Fachini era stato il fornitore, in più occasioni, dell'eversione di destra, come dichiarato concordemente dal Calore, dall'Aleandri e da Napoli Giancarlo. Su specifiche indicazioni di costui era stato trovato dagli inquirenti nel corso del giudizio di primo grado il deposito nel lago di Garda di residuati bellici dai quali, secondo gli accertamenti tecnici era possibile estrarre quell'esplosivo.
2) Ulteriore collegamento dell'imputato con la strage scaturiva dalle confidenze del Rinani, militante della banda veneta, al Vettore Presilio e dalle dichiarazioni fatte al Nicoletti Stefano (e da costui propagate) da Edgardo Bonazzi sulla responsabilità dello stesso Fachini e del Signorelli e sulla loro imprudenza per avere affidato l'esecuzione dell'attentato a dei "ragazzini".
3) II Fachini pochi giorni prima del 2.8. — secondo le confidenze fatte da Giovanna Cogolli, (già collaboratrice di costui al tempo dell'attività di "costruiamo l'azione"), a Mauro Ansaldi e Paolo Stroppiana — aveva sollecitato la terrorista ad allontanarsi da Bologna perché stava per accadere qualcosa di grosso. Di fatto la Cogolli era partita la mattina a buon'ora da Bologna con i suoi amici.
Considerando indimostrato il legame degli esponenti più eminenti della banda veneta nella "super - banda" costituita con quelli della banda romana del Fioravanti, e non riferibile l'annuncio fatto dal Rinani e rivelato dal Vettore, alla strage del 2..8., la sentenza impugnata ha ritenuto significativa ma non univoca la disponibilità del T/4 da parte del Fachini. Quanto all'avvertimento alla Cogolli il giudice di appello ha ritenuto di non dover approfondire l'attendibilità del fatto, avuto riguardo alla sua scarsa rilevanza probatoria. L'avvertimento ben poteva essere stato letto a posteriori, nella suggestione dell'evento poi verificatosi. D'altra parte la Cogolli si era politicamente allontanata dal Fachini, né costui era persona da lasciarsi andare a confidenze su fatti di tale natura e portata. Plausibile era invece che il Fachini — avendo colto qualche avvisaglia di possibili accadimenti — ne avesse parlato con gli amici.
IMPUTATI RINANI ROBERTO E SIGNORELLI PAOLO
1) La posizione del Rinani è ritenuta dalla sentenza impugnata legata e subordinata a quella del Fachini, talché esclusa la concludenza degli elementi a carico di costui, risulta svuotata di ogni consistenza probatoria l'accusa nei confronti cui il giudice di appello è pervenuto circa i contenuti delle confidenze del Rinani rivelate dal Vettore Presilio.
2) II ruolo di ideologo e attivista del Signorelli e la sua amicizia con il Fioravanti — considerati inadeguati a dimostrare il legame dell'imputato con la banda armata del secondo — sono ritenuti del tutto insufficienti a dare consistenza probatoria alle stesse dichiarazioni del Nicoletti sulle confidenze del Bonazzi.
3/f. — In ordine all'imputazione di calunnia la sentenza impugnata muove dagli accertamenti contenuti nella sentenza definitiva della corte di assise di appello di Roma 14.3.86 e da quelli della decisione di primo grado, per confermare — sulla base dei fatti acquisiti — il concorso degli imputati Musumeci Pietro e Belmonte Giuseppe anche nel delitto di calunnia aggravata, esclusa tuttavia l'aggravante della finalità di terrorismo.
La calunnia è ravvisata nelle informative fatte pervenire agli organi di polizia e ai magistrati inquirenti dal SISMI sia direttamente, sia attraverso propagazioni ad organi di stampa, nel quadro di una sapiente e articolata opera diretta ad accreditare la riferibilità della strage ad organizzazioni eversive di destra internazionali. Venivano così suggerite agli inquirenti più linee di indagine (sinteticamente e convenzionalmente indicate nelle sentenze e in atti di parte come "pista libanese" e "pista spagnola") destinate a impegnare l'istruttoria in defatiganti e inutili verifiche.
In particolare, a partire dall'ottobre 1980 dall'ufficio controllo e sicurezza del SISMI — diretto dal Musumeci collaborato dal Belmonte — venivano fatte pervenire (anche brevi manu) alla polizia e al G.I. informative sul trasporto e la collocazione nei treni di esplosivi da parte di un'organizzazione internazionale, nella quale erano coinvolti anche terroristi italiani (c.d. operazione "Terrore sui treni"). In questo contesto specifico la calunnia prendeva corpo anche nella forma reale, mediante il collocamento di una valigia sul treno Taranto - Milano, poi recuperata, sulla base delle informazioni fomite dal Musumeci e dal Belmonte, in una vettura alla stazione di Bologna, dopo inutili e affannose ricerche alle stazioni di Ancona e Rimini.
L'informativa specifica al riguardo veniva consegnata al gen. Notarnicola dal Musumeci in un incontro all'aeroporto di Ciampino, al quale erano presenti il capo del SISMI Santovito e Francesco Pazienza, di ritorno da Parigi, il 9.1.81.
Nella valigia recuperata venivano rinvenuti esplosivo di composizione eguale a quello impiegato per la strage del 2.8, un mitragliatore MAB, due biglietti aerei intestati rispettivamente a Dimitriev Martin per il volo Milano - Monaco e Legran Raphael per il volo Milano - Parigi del 13.1.81. Successive informazioni indicheranno come acquirente dei biglietti Vale Giorgio.
Il Belmonte da parte sua, dopo avere ripreso i contatti con il m.llo Sanapo, — comandante di una periferica stazione dei C.C. — da lui in precedenza conosciuto e con il quale aveva legami di amicizia, finiva per indurlo a inventare una "fonte confidenziale" alla quale attribuire la notizia della valigia, facendogli credere che ciò era necessario per coprire la figura eminente di una persona al centro di una rete spionistica internazionale, nella quale si riteneva il Belmonte avesse allusivamente fatto riferimento al Pazienza.
Il conclusivo giudizio sulla mancanza di prove riguardo alla sussistenza dell'associazione eversivo - terroristica configurata sub capo 1) dell'imputazione e il positivo accertamento della corte di assise di appello di Roma in ordine alla responsabilità degli imputati per i delitti di peculato e porto di armi ed esplosivo in relazione alla stessa vicenda, hanno portato la sentenza impugnata a ritenere che il movente perseguito da essi sia stato quello di lucro e che solo in termini eventuali sia ad essi stato presente il vantaggio assicurato ai responsabili della strage. Da ciò l'esclusione dell'aggravante della finalità di eversione e terrorismo.
La sentenza impugnata, discostandosi da quella di primo grado, ha ritenuto di dover escludere il concorso nel delitto di calunnia degli imputati Gelli Licio e Pazienza Francesco.
La sentenza analizza criticamente tre circostanze valorizzate dai giudici di primo grado ai fini del concorso del Gelli:
a) l'incontro dell'imputato con Elio Cioppa, funzionario P/2ista del SISDE, al quale il primo esprimeva l'avviso che l'indirizzo delle indagini orientatosi verso i gruppi eversivi nazionali era errato e che la pista giusta sarebbe stata quella internazionale;
b) la coincidenza dell'iniziativa di depistaggio con la preoccupazione destata da riservate indiscrezioni che il criminologo P/2ista Semerari (in custodia preventiva da tempo e da questa provato psicologicamente) andava facendo, sì da lasciar intendere di essere disponibile a più aperte e incisive rivelazioni. Sicché si imponeva un'accelerazione dell'azione di depistaggio, onde risolvere questa e altre situazioni simili, derivanti da altre persone detenute;
c) l'influenza acquistata dal Gelli, tramite l'organizzazione P/2istica, negli apparati statali e in particolare in quelli dei servizi (SISMI e SISDE), nello ambito dei quali particolare rilievo aveva, ai fini dell'accertamento del concorso, il legame con il Pazienza.
Sulla prima circostanza osserva la sentenza che il Gelli — richiesto del colloquio dal Cioppa — espresse in realtà delle opinioni non esclusivamente sue (tanto che già erano state diffuse sulla stampa), e non è emerso il movente che a ciò l'indusse.
Sulla seconda, che la pista battuta, anche su indicazioni del SISDE, dai giudici era in quel momento già in crisi e l'operazione cd. "terrore sui treni", alludendo a responsabilità di un'organizzazione di destra internazionale nella quale erano coinvolti anche personaggi del terrorismo nazionale, avrebbe anche potuto essere controproducente.
L'influenza innegabile del Gelli costituiva poi un elemento di carattere generico mentre i legami con il Pazienza costituivano un dato del tutto indimostrato, peraltro contrastato dall'iniziazione massonica dello stesso Pazienza (estraneo alle liste di CASTIGLION FIBOCCHI) avvenuta senza l'intervento del Gelli.
Nei confronti del Pazienza le circostanze prese in esame sono le seguenti:
— la pubblicazione dell'articolo a firma Lando dell'Amico sul numero del 1.9.80 del notiziario "agenzia repubblica" — ispirato dall'imputato — con il quale si svalutavano le informazioni del SISDE, che aveva riscosso l'apprezzamento dei magistrati inquirenti, qualificandolo come un riciclaggio di vecchie notizie di archivio;
— le informazioni date dal Santovito e dal Pazienza al giornalista Barberi, ammesso a esaminare alcuni fascicoli riservati del SISMI sulle ricerche che il servizio andava svolgendo in campo internazionale e autore quindi di un articolo su "Panorama" intitolato: "La grande ragnatela";
— la presenza del Pazienza all'incontro del 9.1.81 a Ciampino, nel corso del quale il Musumeci aveva consegnato l'informativa sulla valigia con l'esplosivo, che poi sarebbe stata trovata sul treno;
— le notizie preconfezionate fornite dal Pazienza al commissario POMPÒ, dirigente del I distretto di polizia di Roma, in merito a un traffico di anni e droga, e ad episodi di terrorismo ascrivibili ad organizzazioni internazionali;
— le allusioni al Pazienza fatte dal Belmonte al m.Ilo Sanapo.
Le prime due circostanze, — pressoché coeve —, sono, secondo la sentenza impugnata, ricollegabili più realisticamente ad un'operazione di pubbliche relazioni dovuta al risentimento da spirito di corpo per l'apprezzamento riscosso dal SISDE, considerando che lo screditamento delle informazioni fornite da codesto servizio e le notizie sulle ricerche che si andavano facendo nella direzione della pista internazionale, non apparivano idonee in sé ad un progetto calunniatorio. D'altra parte il Pazienza aveva mostrato nell'incontro con il Barberi il convincimento che le radici del terrorismo andavano ricercate nella direzione dell'eversione di sinistra e nei suoi collegamenti con i paesi dell'Est, e cioè in senso sostanzialmente diverso da quello che avrebbe poi segnato l'operazione di depistaggio e calunniatoria.
La presenza dell'imputato all'incontro di Ciampino era difficilmente ricollegabile a uno specifico interesse e al coinvolgimento del Pazienza nella consegna dell'informativa, poiché è certo che egli era presente in quanto di ritorno con il Santovito da Parigi, dove aveva propiziato dei contatti con i servizi francesi.
Le informazioni date al Pompò non sembravano avere alcun collegamento, se non in termini di semplice supposizione, con la vicenda della strage del 2.8, mentre le allusioni del Belmonte, strumentalmente collegate da costui all'esigenza di ottenere la compiacente collaborazione del Sanapo, non potevano considerarsi certe e affidabili.
La sentenza conclude rilevando che la labilità probatoria degli elementi utilizzati a carico dell'imputato è simmetrica alla carenza di qualsiasi conclusiva emergenza processuale nei suoi confronti nel procedimento definito a Roma, conclusosi con la condanna del Musumeci e del Belmonte.
HANNO PROPOSTO RICORSO LE SEGUENTI PARTI CIVILI:
1) L'Avvocatura dello Stato per la presidenza del consiglio dei ministri, il ministero dell'Interno, il ministero di grazia e giustizia e l'ente ferrovie dello Stato, per il capo relativo all'assoluzione dall'imputazione di associazione terroristica, nei confronti degli imputati di tale reato;
— per i capi concernenti l'assoluzione dall'imputazione di costituzione e organizzazione di banda annata e di partecipazione alla stessa, nei confronti di: Signorelli, Fachini, Rinani, Melioli, Picciafuoco; v'è poi per lo stesso capo il ricorso della medesima avvocatura di Stato nei confronti dello Iannilli, per il quale a suo tempo non si è resa operativa la disposizione dell'art. 514 c.p.p. abrogato;
— per i capi relativi all'assoluzione dai delitti di strage e dagli altri connessi, nei confronti di: Signorelli, Fachini, Rinani, Picciafuoco, Fioravanti e Mambro.
L'impugnazione investe anche le ordinanze dibattimentali con le quali è stata parzialmente respinta la richiesta di riapertura del dibattimento per nuove acquisizioni di atti e documenti, e ammissione di nuove disposizioni.
2) II presidente della Regione Emilia/Romagna, il presidente della provincia di Bologna, il sindaco del comune di Bologna e Bolognesi Paolo, per i capi concernenti l'assoluzione dal delitto di strage e dagli altri connessi e dal delitto di banda armata, nei confronti di: Fachini, Signorelli, Fioravanti, Mambro e Picciafuoco.
L'impugnazione è estesa anche alle ordinanze dibattimentali concernenti il diniego di nuove acquisizioni come sopra.
La difesa della provincia di Bologna non ha presentato motivi.
3) Vale Umberto e Garofoli Anna Antonia (genitori di Vale Giorgio, deceduto) per il capo relativo all'assoluzione dal delitto di associazione terroristica, nei confronti di: Musumeci, Belmonte, Pazienza e Gelli.
Sono stati presentati i motivi, non contestuali, a firma delle parti e depositate successivamente delle "note d'udienza" a firma del difensore; le deduzioni investono il capo concernente il delitto di calunnia.
Il procuratore generale ha proposto ricorso per il capo relativo all'imputazione di associazione eversiva, nei confronti di: Gelli, Pazienza, Musumeci, Belmonte, Signorelli e Fachini. Per il capo relativo alla imputazione di banda armata nei confronti di: Signorelli, Fachini, Rinani, Melioli e Picciafuoco.
Per i capi relativi al delitto di strage e agli altri connessi, nei confronti di Fachini, Picciafuoco, Fioravanti e Mambro.
Nei confronti di Musumeci e Belmonte relativamente all'esclusione dell'aggravante della finalità di terrorismo ed eversione in relazione al delitto di calunnia di cui sono stati ritenuti colpevoli e all'applicazione del condono di cui al D.P.R. n. 744/81, sulla pena inflitta per tale delitto.
Nei confronti di Gelli e Pazienza per il capo relativo al concorso nel delitto di calunnia, dal quale sono stati assolti con ampia formula.
Hanno proposto ricorso gli imputati Musumeci e Belmonte, Pazienza, Fioravanti, Mambro, Giuliani e Cavallini.
4/a. — Sul tema dell'associazione terroristica ed eversiva convergono dunque i ricorsi del procuratore generale e dell'avvocatura di Stato, ma quest'ultima ha esteso l'impugnazione anche nei confronti degli imputati facenti parte della cd. componente "avanguardistica" del sodalizio, Delle Chiaie, Tilgher, Ballan e Giorgi.
I ricorsi su detti (come anche quelli delle altre parti civili) deducono concordemente la denuncia della motivazione della sentenza impugnata nei diversi aspetti dell'emessa considerazione di circostanze decisive; del carattere apparente, per la non aderenza alle risultanze probatorie e per il travisamento delle stesse; della scorrettezza metodologica, per non avere valutato il complesso degli indizi nella loro globalità disperdendone così il rilievo probatorio, e per essere incorsa in vizi di illogicità e contraddittorietà; e, ancora, dell'incompiutezza e apparenza, per avere trascurato di considerare le circostanze accertate nel composito quadro storico - politico, perdendo così l'apporto del riferimento alle coordinate ambientali e temporali nel quale i fatti acquistano il loro senso compiuto.
L'avvocatura dello Stato denunzia inoltre il diniego della riapertura parziale del dibattimento (impugnando le relative ordinanze) per l'acquisizione di documenti e l'assunzione di testimonianze concernenti fatti rilevanti, quali i legami tra il Delle Chiaie e il Gelli, i legami tra il primo e gli apparati deviati dei servizi segreti, la posizione di preminenza di fatto acquisita dal Gelli in tali apparati e l'opera di protezione e copertura assicurata da questi (in coerenza con le direttive dello stesso Gelli) ai responsabili degli attentati terroristici. Salvo a ritenere, contraddittoriamente, poi non sufficiente la prova in ordine a siffatta circostanza.
Concordemente i ricorsi rilevano come alla sentenza impugnata, — per i vizi del processo logico di formazione del convincimento denunziati dalla motivazione —, sia sfuggita l'individuazione della struttura associativa composita, che ha preso le mosse dai documenti ideologici e/o progettuali eversivi del convegno dell'istituto Pollio del maggio del 1965, e di poi manifestatasi e caratterizzatasi, a) nel sistematico intervento delle coperture dei servizi a beneficio dei responsabili degli attentati stragisti (da piazza Fontana alla stazione di Bologna), i quali, avendo cagionato numerose vittime, più avendo colpito l'opinione pubblica e maggiormente quindi si prestavano — rimanendo i responsabili impuniti — a sollevare in essa sgomento e allarme; b) nella contiguità tra gli uomini dei servizi deviati, tutti iscritti alla loggia massonica P/2, e i più prestigiosi elementi dell'eversione ordinovista (Signorelli, Fachini, Semerari) e avanguardista (Delle Chiaie, Giorgi); c) nei rapporti del Gelli e dell'organizzazione P/2ista da lui controllata con taluni dei detti esponenti, specificamente con il Semerari e il Delle Chiaie; d) nell'influenza e nel dominio di fatto acquisito dal Pazienza sugli apparati del SISMI, subentrando alla declinante egemonia del Gelli, a favore del quale comunque il Pazienza non mancava di intervenire all'interno della massoneria; e) nella conclusiva operazione di copertura e depistaggio realizzata dopo la strage del 2.8.80 in grazia della regia del Gelli e del Pazienza.
4/b. — Sulla parte della sentenza impugnata concernente la banda armata convergono le impugnazioni del procuratore Generale, dell'Avvocatura di Stato e delle altre parti civili cui si è sopra fatto cenno, esclusa la provincia di Bologna che non ha presentato i motivi.
I motivi convergono nel richiamo ai diversi vizi di motivazione già sopra cennati e, (a parte quelli nei confronti dello Iannilli che investono specificamente la posizione di costui, ritenuto estraneo alla banda per avere cessato la militanza eversiva dopo la sequenza degli attentati riferibili al movimento di "costruiamo Fazione"), in una censura metodologica sulla valutazione della prova.
Si confuta l'assunto della sentenza impugnata sull'inadeguatezza logica dell'inferenza della sussistenza della banda dalla commissione di singoli reati da parte dei suoi presunti appartenenti.
La motivazione della sentenza impugnata è ancora censurata sui punti concernenti: a) la svalutazione immotivata e contraddittoria dell'analisi compiuta dal primo giudice sugli antefatti storico - ideologici dai quali aveva tratto la sua genesi la banda armata; b) la partecipazione a tale vicenda prodromica degli esponenti dei diversi movimenti dell'eversione, e in specie del Signorelli e del Fachini; c) la ritenuta censura ideologica tra il movimento "COSTRUIAMO L'AZIONE", e quello dello spontaneismo; d) la rilevanza delle informazioni dello Spiazzi e delle dichiarazioni del Vettore Presilio (travisate) e di altri; e) la portata della sequenza di attentati commessi a partire dal 1978 e non rivendicati, secondo i criteri suggeriti dal Fachini, il quale aveva fornito al gruppo eversivo romano armi ed esplosivi; f) i momenti di collegamento tra il gruppo romano e quello veneto, costituiti dal comune progetto di assassinio di un giudice veneto; dal progetto di evasione del Concutelli; dall'attentato a Palazzo Marino in Milano; dall'inserimento nella banda del Cavallini, uomo di fiducia del Fachini, e dalla collaborazione da costui data al riciclaggio di un notevole quantitativo di oro derivante da una rapina commessa da elementi del gruppo romano; nonché dagli stretti rapporti intercorsi tra il Signorelli, il Fachini, il Fioravanti e il Cavallini.
4/c. — Sulla parte della sentenza impugnata concernente il delitto di strage e gli altri connessi convergono le impugnazioni del procuratore generale e delle parti civili già menzionate, le cui censure, — richiamandosi in maniera più o meno ampia alle circostanze, ai documenti e alle risultanze in genere di cui si è detto sopra (cfr. par.fo 3/d) relative alla pratica e alla teorizzazione degli attentati stragisti e al sintomatico preannunzio della strage del 2.8. (dichiarazioni del Vettore, informative e intervista dello Spiazzi, etc.) —, investono sotto il profilo della variegata gamma dei vari vizi di motivazione, la conclusione della sentenza impugnata sul tema della riferibilità della strage alla destra eversiva, e alla banda romano - veneta in specie.
In ordine alle responsabilità individuali degli imputati sono censurati specificamente, per FIORAVANTI e MAMBRO: a) il travisamento e la contraddittorietà della motivazione sulla dichiarazione dello Sparti; b) l'incongruità della valutazione dell'alibi falso; c) l'omessa considerazione della corrispondenza tra la Mambro e Mario Tuti sul movente dell'omicidio Mangiameli e l'incongrua valutazione delle altre emergenze probatorie al riguardo; d) l'immotivata svalutazione dell'episodio della telefonata del Ciavardini e dei successivi suoi rapporti con il Fioravanti.
PICCIAFUOCO SERGIO,
a) la carente e illogica motivazione sui collegamenti dell'imputato con l'eversione di destra e specificamente con l'organizzazione di "terza posizione" e il Mangiameli, e con il gruppo terroristico del Fioravanti, desumibili, 1) dalle informazioni dei carabinieri di Osimo, — provenienti da quel Giovagnini che aveva anche aiutato il Ciavardini nella sua latitanza —, che avevano segnalato la presenza nella zona dell'imputato (e nella zona sarà anche ritrovata la vettura BMW del Copparoni, usata dall'imputato per fuggire da Modena); 2) dalle emergenze connesse ai documenti falsi dei quali l'imputato aveva avuto la disponibilità (in relazione alle quali la sentenza impugnata aveva trascurato le risultanze significative della perizia grafo - tecnica sui sei passaporti pervenuti da Vienna, ricollegantisi con il passaporto "Pierantoni" sequestrato all'imputato al valico di Tarvisio; 3) l'annotazione del nome dell'imputato tra quelli di numerosi altri militanti della destra detenuti nella agenda sequestrata al Cavallini;
b) l'inadeguatezza della motivazione sul significato della certa presenza del Picciafuoco alla stazione di Bologna al momento dell'esplosione, non correlata alla personalità dell'imputato, collegato alla destra eversiva e specialmente ai gruppi del Mangiameli e del Fioravanti;
c) l'illogica svalutazione della condotta processuale mendace del Picciafuoco, intrinsecamente inadeguata di per sé e svuotata di senso per il mancato, doveroso collegamento con la collocazione dell'imputato nella destra eversiva - terroristica e i suoi collegamenti con i gruppi cui si è sopra cennato.
FACHINI MASSIMILIANO,
a) la svalutazione della rilevanza probatoria delle dichiarazioni del Vettore Presilio (travisate nel loro contenuto effettivo) sulle confidenze ricevute dal Rinani, concernenti il preannunzio della strage, significativamente provenienti da persone legate all'imputato nella comune militanza eversiva;
b) la disponibilità da parte dell'imputato dell'esplosivo T/4, poco diffuso, di uso esclusivamente militare e plausibilmente proveniente da quei depositi scoperti nel lago di Garda secondo le indicazioni di Napoli Gianfranco;
c) l'awiso dato dal Fachini a Giovanna Cogolli di allontanarsi da Bologna ove era per succedere qualcosa di grosso, circostanza anche questa travisata illogicamente nella sua portata e nella sua significazione.
RINANI,
— nei confronti del quale v'è ricorso, per i capi qui in discorso, solo della avvocatura di Stato —, la lacunosità della motivazione assolutoria legata a quella concernente il Fachini, per un verso, e a quella sul contenuto (travisato) della confidenza fatta al Vettore Presilio.
SIGNORELLI,
— egualmente interessato solo dal ricorso dell'avvocatura dello Stato e delle altre parti civili su ricordate per i capi in questione —, la mancata correlazione delle dichiarazioni del Nicoletti con il ruolo di principale ideologo svolto dall'imputato nella elaborazione della strategia della lotta armata mediante attentati anche di carattere stragistico, e con quello di "cattivo maestro" dedito all'indottrinamento di vari giovani confluiti nel terrorismo.
Le dichiarazioni del Nicoletti avrebbero dovuto, inoltre, essere correlate con il contributo ideativo e operativo dato dall'imputato in vari attentati del 1978, secondo le propalazioni di taluni collaboratori. Né avrebbe potuto essere trascurato il ruolo del Signorelli nella banda armata, erroneamente escluso dalla sentenza impugnata.
4/d. — Per il capo concernente il delitto di calunnia, — ascritto a Musumeci, Belmonte, Pazienza e Gelli —, vengono in considerazione i motivi del procuratore generale nei confronti degli ultimi due imputati (assolti), e nei confronti dei primi due per l'esclusione dell'aggravante relativa alla finalità di eversione e terrorismo.
Le argomentazioni del ricorso sono in parte sovrapponibili con quelle svolte dalla memoria del difensore delle parti civili Vale Umberto e Garofoli Anna Antonia.
Il ricorso del procuratore generale fa ampio richiamo alle circostanze già sopra ricordate (cfr. par.fo 3/f) oltre che al filone di informative devianti, denominato convenzionalmente nel corso del procedimento come la "pista spagnola", aperto con un appunto del SISDE, asseritamente compilato sulla base di informazioni dell'omologo servizio spagnolo. Secondo il ricorrente l'analisi lacunosa e atomistica della sentenza impugnata ha finito per perdere la rilevanza probatoria di una serie di convergenti circostanze, dimostrativa di una sapiente regia posta in essere dai servizi segreti, — controllati di fatto da Gelli e dal Pazienza, — sia attraverso diverse informative, sia con l'ispirazione di interventi della stampa alle prime coordinate.
La valutazione complessiva delle risultanze avrebbe viceversa agevolmente dovuto portare la corte a individuare la sussistenza di un mandato, o quantomeno di un comune progetto politico tra coloro i quali avevano posto in essere l'operazione articolata di depistaggio e di calunnia, e i responsabili, autori materiali della strage.
La memoria della parte civile sottolinea la riferibilità della strage ai servizi, mossi dall'ingerenza del Gelli e del Pazienza.
Per ciò che attiene all'esclusione dell'aggravante della finalità di eversione e terrorismo, il ricorrente denunzia l'incongruità della motivazione della sentenza impugnata, la quale ha trascurato di considerare la specifica natura dell'operazione di deviazione delle indagini, la personalità e il ruolo dei responsabili di essa, il cui desiderio illecito di lucro ben altrimenti avrebbe potuto essere conseguito, considerando la discrezionalità ampia nell'uso di rilevanti somme di denaro. Sarebbe stato così giocoforza riconoscere la secondarietà del fine di profìtto della loro condotta.
L'illegittimità dell'applicazione del condono previsto dal DPR n. 744/81 è conseguenziale alla errata esclusione dell'aggravante ora cennata.
4/e. — Con i ricorsi per gli imputati i rispettivi difensori hanno dedotto i seguenti motivi:
PAZIENZA,
la richiesta di correzione integrativa del dispositivo della sentenza nella parte in cui è stata materialmente omessa l'indicazione del nome del ricorrente tra gli imputati assolti con la formula dell'insussistenza del fatto dall'accusa di costituzione e organizzazione di associazione per fini di terrorismo ed eversione;
FIORAVANTI e MAMBRO,
a) violazione dell'alt. 90 c.p.p., per essere stati gli imputati già giudicati per il medesimo fatto di banda armata;
b) illogicità e contraddittorietà della motivazione relativamente alla confìgurabilità di una banda armata nei termini ritenuti in sentenza;
CAVALLINI,
a) violazione dell'art. 90 c.p.p.,
b) contraddittorietà e illogicità di motivazione per avere la sentenza ritenuto la responsabilità del ricorrente per costituzione e organizzazione di banda armata, pur dopo avere escluso il concorso dei fatti specifici dai quali l'accusa aveva desunto la sussistenza del delitto associativo;
GIULIANI,
a) violazione dell'art. 90 c.p.p.;
b) vizi di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della banda annata, senza adeguata individuazione degli elementi probatori dell'accordo criminoso, della struttura del sodalizio e dei suoi componenti;
c) vizi di motivazione in ordine alla qualificazione del reato ascritto all'imputato, che avrebbe dovuto essere riportato nella fattispecie della partecipazione e non in quella del concorso in costituzione e organizzazione;
d) carenza di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche;
MUSUMECI,
a) violazione di legge (artt. 185 comma 1 nn. 1 e 2, 396, 29, 30, 405 e 406 c.p.p. 1930) in relazione all'erroneo giudizio sulla validità della revoca della richiesta del decreto di citazione a giudizio proposta dal PM. al presidente del tribunale; sulla validità del successivo decreto di citazione emesso dal presidente della corte di assise di Bologna, e dell'indebita riunione di procedimenti per una via processuale del tutto abnorme;
b) vizi di motivazione riguardo alla natura e rilevanza delle informazioni fornite dall'imputato e sulla conseguente sussistenza del dolo calunniatorio, nonché sulla riferibilità allo stesso della collocazione della valigia sul treno Taranto - Roma;
BELMONTE,
a) violazione di legge nei medesimi termini dedotti per il Musumeci;
b) omessa motivazione sulle deduzioni difensive proposte in appello (per le quali si fa riferimento generico ai motivi e agli atti difensivi del giudizio di secondo grado);
c) carenza di motivazione sul diniego di esclusione dell'aggravante cd. teleologica (art. 61 n. 2 c.p.) in relazione al delitto di calunnia. L'operazione di collocazione della valigia era stata predisposta perché essa fosse recuperata ad Ancona e coinvolgesse l'autorità giudiziaria di tale sede, non interessata alle indagini per la strage. Peraltro — riconosciuto come movente dell'operazione quello del lucro — sarebbe del tutto incongruo l'avere ritenuto il fatto finalizzato alla deviazione delle indagini per la strage.
5. — Va infine segnalato che l'imputato Melioli Giovanni è deceduto il 5.1.91, come attestato da certificati in atti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. — Preliminarmente deve essere dichiarata la inammissibilità del ricorso proposto dalle parti civili coniugi Vale Umberto e Garofoli Anna Antonia, genitori del defunto Vale Giorgio, parte offesa nel delitto di calunnia aggravata contestato agli imputati Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte, e ritenuto a carico degli ultimi due, con esclusione dell'aggravante contestata di avere agito per finalità di eversione e di terrorismo.
Il difensore nominato dalla parte ricorrente ha presentato una memoria difensiva e ha svolto in udienza le sue difese orali a sostegno dell'impugnazione proposta dal P.M. nei confronti dei su nominati imputati. Ma se ciò è processualmente corretto per il principio dell'immanenza della costituzione della parte civile, non vale d'altra parte a risolvere l'evidente inammissibilità del ricorso per cassazione per la ragione, assorbente di altri pur esistenti vizi, che i motivi dedotti risultavano sottoscritti dalla parte personalmente (e non da avvocato abilitato alla difesa avanti a questa corte), in violazione dell'art. 529, comma 1, c.p.p. abrogato (nella specie applicabile).
1/a. — Parimenti deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso proposto dalla Provincia di Bologna, che non risulta notificato a norma dell'art. 202, comma 2, c.p.p. (a parte l'omessa presentazione dei motivi).
1/b. — Raho Roberto è stato assolto sin dal primo giudizio dall'imputazione di partecipazione a banda armata (art. 306 c.p.). Il ricorso proposto nei suoi confronti dalle parti civili rappresentate dall'avvocatura di Stato è affetto da inammissibilità originaria, perché, pur essendo stati dedotti i motivi (seppur generici) nei suoi confronti, non risulta proposta tempestiva dichiarazione di impugnazione.
Non emerge dalla dichiarazione di impugnazione — ove sono specificamente indicati gli imputati nei cui confronti è proposto ricorso — il nominativo del Raho, il quale pertanto deve considerarsi non interessato dal gravame. Né giova evidentemente a sanare tale lacuna la deduzione dei motivi fatta successivamente, oltre il ristretto termine per la dichiarazione.
1/c. — Marcello Iannilli (come ricordato sopra sub. par.fo 4) della narrativa della presente) è stato assolto in primo grado dall'imputazione di partecipazione a banda armata ed è gravato dal ricorso nei suoi confronti dalle parti civili rappresentate dall'avvocatura di Stato.
Con il ricorso — richiamati gli episodi di delinquenza eversiva dei quali l'imputato è stato protagonista (fra questi, in particolare l'attentato di tipo stragista contro il consiglio superiore della magistratura) —, si sostiene che la motivazione della sentenza della corte di assise di Bologna è inficiata da carenza e contraddittorietà di motivazione ed omesso esame di punti decisivi, per avere escluso la partecipazione dell'imputato alla banda pur avendo riconosciuto il suo concorso a una sequenza di fatti criminosi (tra i quali il cennato attentato al CSM di speciale significatività), e avere registrato l'episodio del carcere di Ferrara nel quale lo Iannilli aveva dato prova della sua "internità" alla progettualità eversiva, stragista.
In realtà il ricorso investe in tal modo la valutazione squisitamente di merito della sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che le circostanze di fatto accertate e considerate erano riferibili al periodo di attività del movimento denominato "costruiamo razione", e dunque inidonee a dimostrare la militanza nella banda costituita dal Fioravanti Valerio.
Quanto alla conoscenza da parte dell'imputato dei progetti stragisti (ma, per quanto è stato rilevato in sede di merito, in termini del tutto generici) è stato considerato che le notizie di tali progetti giravano nell'ambiente eversivo della destra, talché non può avere valenza sintomatica specifica il fatto che lo Iannilli se ne dimostrasse consapevole.
Il ricorso è dunque inammissibile.
1/d. — Nei confronti di Melioli Giovanni — assolto per non avere commesso il fatto dall'accusa di partecipazione a banda armata — hanno proposto ricorso l'avvocatura di Stato, la Regione Emilia e Romagna e il procuratore generale.
È stato ricordato sopra che l'imputato è deceduto successivamente alla proposizione dei ricorsi il 5.1.91, talché si imporrebbe, secondo un orientamento giurisprudenziale prevalente (cfr. per tutte cass. 28.4.89, Iapicca), l'annullamento senza rinvio in questa sede per essere il reato estinto ai sensi dell'art. 150 c.p. (morte del reo).
La giurisprudenza richiamata ritiene che la specialità della causa estintiva del reato sopravvenuta e l'estinzione dello stesso rapporto processuale conseguente al venir meno di uno dei suoi soggetti, implichino in ogni stato e grado del processo la immediata declaratoria del fatto estintivo, con prevalenza su qualsiasi altra forma di proscioglimento. Ma una conclusione così radicale non appare condivisibile.
In presenza di una situazione processuale quale quella ora prospettata ritiene questa corte di dovere previamente saggiare il ricorso, privilegiando, qualora ne ricorrano le condizioni, la pronunzia appropriata che tenga ferma la pronunzia assolutoria ampiamente liberatoria, già espressa dalla sentenza impugnata nel presupposto dell'assenza di prove di reità.
A tale induce la considerazione della portata del principio codifìcato con la disposizione dell'art. 152, cpv., c.p.p., che chiaramente antepone il riconoscimento dell'innocenza dell'imputato che già risulti acquisito agli atti ed evidente, all'applicazione di una causa estintiva sopravvenuta, per la rilevanza che nel sistema processuale ha il criterio del "favor rei" ed altresì per ragioni di economia processuale.
È da rilevare, infatti, sotto questo secondo aspetto che anche la morte del reo non estingue le obbligazioni civili derivanti dal reato e quelle concernenti le spese processuali ed, eventualmente, di mantenimento in carcere.
La consistenza del principio espresso nell'art. 152/2 c.p. sottolinea come il fatto della sopravvenienza di una causa estintiva del reato, operativa ex nunc, non può porre nel nulla la realtà acquisita nel procedimento che il fatto - reato ascritto all'imputato non sussiste, o non è previsto dalla legge come reato o non è stato commesso dall'imputato stesso.
E una tale realtà deve — coerentemente ai criteri fondamentali su cennati — prevalere anche nel caso che la causa estintiva del reato sia quella della sopravvenuta morte del reo. Ciò, in primo luogo, per la rilevanza sostanziale del riconoscimento dell'innocenza di una persona accusata, che non cessa per effetto della sua morte, residuando l'interesse dei congiunti e degli eredi alla tutela della memoria (il che costituisce un valore tutelato dalla legge; si cfr. al riguardo la disposizione dello art. 597, comma 3°, c.p., esemplificativamente).
In secondo luogo, perché se, come si è visto, talune conseguenze non indifferenti permangono nonostante l'estinzione del reato, non v'è ragione — in virtù del principio di eguaglianza e per le cennate considerazioni di economia processuale — che i congiunti ed eredi del defunto ne debbano subire il peso solo per la causalità della sopravvenienza della morte del loro dante causa, rispetto alla miglior sorte dell'imputato vivente, che avrebbe viceversa il vantaggio (a parte la sopravvivenza) del vedersi riconosciuta la propria innocenza.
In terzo luogo, perché la disposizione dell'art. 152/2 c.p. non fa distinzione tra le cause estintive, e il suo senso più pregnante è quello, per le ragioni ora esposte e per la stessa sua portata logico - letterale, della tutela dell'innocenza della persona vivente al momento in cui è stata promossa l'azione penale.
Venendo allora all'esame dei ricorsi, va osservato che le impugnazioni del procuratore generale e della parte civile Regione Emilia e Romagna non contengono nell'esposizione dei motivi alcuna notazione che riguardi specificamente la posizione del Melioli, che pure si differenzia da quella degli altri imputati ritenuti seguaci del gruppo eversivo veneto facente capo al Fachini, tanto vero che la sentenza della corte di primo grado già era pervenuta a porre in dubbio (assolvendo l'imputato con la relativa formula) la partecipazione dell'imputato alla banda.
Ne discende che nei confronti del Melioli i ricorsi su detti sono inammissibili per mancanza dei motivi (art. 201 c.p.p.).
Il ricorso dell'avvocatura di Stato ripropone nella confutazione delle determinazioni e della motivazione della sentenza impugnata, l'evocazione delle circostanze di fatto già esaminate dalla sentenza di primo grado (richiamate dalla sentenza impugnata), quali i rapporti dell'imputato con il Fachini, il Fioravanti e il Cavallini, dando di essi una lettura diversa da quella del giudice di merito e per giunta in termini di genericità, facendo semplicemente richiamo alle considerazioni svolte in appello.
Dunque le censure mosse sono inammissibili per la loro incidenza nella valutazione di merito, non sindacabile in questa sede siccome adeguatamente motivata, e perché, e soprattutto, dedotte in maniera generica con richiamo ai motivi di appello (cfr. per tutte cass. 14.3.88, Schilirò).
È pur vero che la sentenza impugnata, ancorché si sia richiamata alla decisione di primo grado, ha preso le mosse dall'ulteriore ragione di fondo del disconoscimento di legali tali, tra il gruppo veneto e la banda romana del Fioravanti, da consentire l'affermazione dell'adesione del primo alla seconda. Ma per la posizione del Melioli è troncante il fatto che la sua stessa partecipazione al gruppo veneto è stata pregiudizialmente e motivatamente esclusa.
Anche il ricorso dell'avvocatura va pertanto dichiarato inammissibile.
1/e. — Ancora inammissibile è il ricorso della Regione Emilia - Romagna nei confronti di Ballan Marco, perché non sono stati indicati i motivi di impugnazione.
2. — Buona parte delle notificazioni delle dichiarazioni di ricorso proposte dalle parti civili nei confronti degli imputati sono state eseguite (art. 202, comma 2, c.p.p. abrogato), mediante il procedimento della notificazione a mezzo del servizio postale (L. n. 890/1982). Senonché, pur tempestivamente richieste e tempestivamente eseguite le formalità della notificazione, più volte i pieghi con gli atti sono stati recapitati dal servizio postale agli interessati oltre il termine stabilito, a pena di decadenza, dal citato art. 202, comma 2.
Nel corso della discussione avanti questa corte è stata prospettata la questione se anche nel caso in esame, — ove la notificazione è prescritto che avvenga in tempi brevissimi, con grave conseguenza sul piano processuale per la parte impugnante —, l'adempimento debba ritenersi soddisfatto, ai fini di ovviare alla sanzione di decadenza, nel momento della spedizione del plico piuttosto che al momento del recapito al destinatario, fermo restando per altro verso il principio che la notificazione si ha per eseguita con la consegna del piego o comunque quando siano adempiute le formalità equipollenti previste dallo art. 8 della legge n. 890/92.
La questione è stata introdotta prendendo lo spunto dalla sentenza pronunziata dalla corte costituzionale ai 26.9/16.10.90 n. 461 in proc. Giannino e altri.
È stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 169 ult. comma, 175 e 202, comma 2, c.p.p. del 1930, nella parte in cui prevede che la notificazione, nelle forme stabilite dall'art. 169 ult. comma, dell'impugnazione per i soli interessi civili si perfeziona al momento del recapito dell'avviso raccomandato al destinatario, anziché al momento della spedizione.
È noto che la corte costituzionale — con la sentenza 5.2.86 n. 33 e con l'ordinanza 28.7.88 n. 930 — aveva ritenuto la legittimità della disposizione del ricordato art. 202/2 c.p.p., sia in relazione al parametro dell'art. 3 che di quello dell'art. 24 della costituzione (tutela dell'eguaglianza e del diritto di difesa), avuto riguardo alla peculiarità della disciplina dell'azione civile introdotta nel processo penale.
D'altra parte, queste S.U., con la sentenza 28.2.89 ric. Perla e altro, affermavano che l'adempimento prescritto dall'art. 202/2 c.p.p. poteva considerarsi soddisfatto solo con la consegna, nel termine di tre giorni previsto, della dichiarazione di impugnazione all'interessato o con atto legalmente equipollente, indicando peraltro nel ricorso alla restituzione in termini il rimedio per risolvere il rigore della ristrettezza dei termini di legge.
Le sentenze ricordate della corte costituzionale n. 461/90 e di queste S.U. del febbraio '89, riguardano specificamente il caso della notificazione eseguita ai sensi dell'art. 169, ultimo comma c.p.p.
Ma va rilevato che la sentenza della corte costituzionale ha osservato che va tenuta distinta l'ipotesi della notificazione degli atti del procedimento penale — all'imputato, in cui la funzione della notificazione è quella di far decorrere nei confronti del destinatario il termine per ottemperare ad adempimenti che riguardano la sua posizione processuale; da quella in cui la notifica è disposta (ed è il caso dell'art. 202/2 c.p.p.) per soddisfare al principio del processo civile dell'osservanza delle formalità per la costituzione del contraddittorio senza che a carico del destinatario dell'atto notificato decorra termine alcuno per l'osservanza di adempimenti o l'esercizio di diritti o facoltà.
In questa seconda ipotesi, — ferma la prescrizione del termine di cui all'art. 202/2 c.p.p. (che non è più in discussione) —, il ritenere che l'esecuzione della notificazione, al fine di ovviare alla sanzione di decadenza, sia compiuta con la consegna del plico o con atti equipollenti legalmente, piuttosto che con la spedizione del plico stesso, si risolve in un onere particolarmente gravoso (e non sempre realisticamente assolvibile) a carico della parte privata tenuta alla notificazione, in violazione dei principi di tutela del diritto di difesa e di eguaglianza.
Il criterio ora esposto per il quale la corte costituzionale è pervenuta alla declaratoria contenuta nella decisione n. 461/90, va chiaramente oltre i limiti della questione risolta in quella sede, e consente la sua estensione ai fini della risoluzione corretta della questione posta in questo giudizio.
Appare invero evidente che la funzione propria della notificazione della dichiarazione di impugnazione voluta dall'art. 202/2 c.p.p. pone il problema del momento in cui essa si deve ritenere per eseguita al fine di ovviare alla decadenza, nei medesimi termini anche nel caso, che qui interessa, della notificazione compiuta con le formalità previste dalla legge n. 890/82 a mezzo del servizio postale.
Ed allora la soluzione interpretativa della disciplina legislativa (nel caso, il combinato disposto degli artt. 4 e 8 della detta legge e dell'art. 202/2 c.p.p. 1930) non può essere che la stessa, dovendosi l'interpretazione adeguare alla scelta che si trova in linea con l'applicazione dei principi della legge fondamentale.
In conclusione, anche nel caso di notificazione della dichiarazione di impugnazione a mezzo del servizio postale (L. n. 890/82), essa deve ritenersi eseguita, per gli effetti specifici relativi alla decadenza comminata dall'art. 202/2 c.p.p. 1930, al momento della spedizione del plico postale e non a quello della consegna o degli altri adempimenti legalmente equipollenti.
Le notificazioni delle dichiarazioni di ricorso cui in principio si è accennato vanno pertanto ritenute tempestive.
3. — Viene quindi in esame il tema centrale del giudizio, quello concernente la denunzia della sentenza impugnata per carenza e vizi di motivazione (sotto molteplici aspetti) in ordine alla responsabilità degli imputati per i delitti di strage contro la sicurezza dello Stato e gli altri connessi (cfr. par.fo 4/c sopra).
Nei motivi di ricorso del procuratore generale e di quelli delle parti civili (in larga misura convergenti) emergono sostanzialmente due ricorrenti censure).
La prima riguarda l'omesso esame di molteplici risultanze processuali utilizzate dal giudice di primo grado o comunque emerse nel processo anche in seguito alla parziale riapertura del dibattimento, per le quali sarebbe stato possibile, — e già la corte di assise in tale compito si era peraltro cimentata —, pervenire a una soddisfacente ricostruzione del contesto storico nel quale era maturato il delitto, individuandone la genesi e la causa, e quindi all'accertamento delle responsabilità individuali.
La seconda concerne il metodo di utilizzazione e valutazione del materiale probatorio e in special modo degli indizi, che sarebbero stati atomisticamente considerati per essere separatamente svalutati, trascurandone il doveroso esame complessivo.
In ordine alla prima censura va osservato che la corte di assise di appello ha ritenuto di potersi richiamare alla decisione di primo grado non solo per ciò che concerne l'esposizione dei fatti processualmente acquisiti, ma anche per l'iter logico argomentativo del loro esame e per le valutazioni compiute, dichiarando espressamente che si sarebbe soffermata nell'analisi critica dei passaggi logici e delle conclusioni sui punti della struttura motivazionale ritenuti non condivisibili.
Ora, è pur vero che, per uniforme e costante orientamento giurisprudenziale, quando le decisioni dei giudici di primo e secondo grado siano concordanti, la motivazione della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo.
Ma quando, per diversità di apprezzamenti, per l'apporto critico delle parti e/o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie (sollecitate e disposte) il quadro appaia tale da portare a diverse conclusioni (in tutto o in parte), non è più corretto risolvere il problema della motivazione della decisione di appello inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado — genericamente richiamata — delle notazioni critiche di dissenso, più o meno spiegate, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni e argomentazioni fra loro dissonanti.
È necessario in tal caso riesaminare, pur in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, considerare quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni.
Sulla seconda censura non v'è che da ricordare taluni concetti fondamentali, che costituiscono patrimonio acquisito dell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in parte codificati nella disposizione dell'art; 192, comma 2, del nuovo c.p.p. (nella specie pur applicabile).
Notoriamente, l'indizio è un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cd. sillogismo giudiziario.
È possibile — seppur non frequente — che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una ed una sola conseguenza. In tal caso, non sussistendo indizi di segno contrario, dovrà affermarsi che non tanto di indizio si tratta, ma di una prova logica compiuta.
Di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità, maggiore o minore, di fatti non noti (tra i quali quello da provare), presenta cioè un livello di gravità e precisione, che è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale l'indizio porta verso il fatto da dimostrare, e inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole d'esperienza.
In tal caso, applicando la regola metodologica del comma secondo dell'art. 192 citato, — la quale ha codificato un principio giurisprudenziale, sancendo non tanto la necessità della molteplicità degli indizi, quanto l'obbligatorietà dell'esame complessivo di tutti gli elementi processualmente acquisiti —, può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi.
Occorre tuttavia ricordare che l'apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un'univocità indicativa che dia la certezza logica dell'esistenza del fatto da provare, costituisce un'operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiare la valenza qualitativa individuale. Ciò perché una molteplicità di elementi ai quali fosse attribuibile rilevanza, non sulla base di regole collaudate di esperienza e di criteri logico e scientifici, ma bensì ed esclusivamente in virtù di semplici intuizioni congetturali o di arbitrarie e personaliste supposizioni, non consentirebbe di pervenire ragionevolmente ad alcun utile risultato probatorio anche nel quadro di un contesto estimativo unitario (icasticamente, si usa dire in tali situazioni, che "più zeri non fanno un'unità", aforisma che il legislatore ha canonizzato nel 2° comma dell'articolo 19 c.p.p. citato).
Acquisita, viceversa la valenza indicativa — sia pure di portata possibilistica e non univoca — di ciascun indizio, allora è doveroso e imprescindibile logicamente passare al momento metodologico successivo, dell'esame globale e unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talché il limite della valenza di ognuno risulta superato e l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, sicché l'insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto, (cfr. ancora il richiamato art. 192/2). Prova logica che — giova ricordare — non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica, che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice.
3/a. — Tanto premesso, va osservato che, in un primo approccio al tema della responsabilità degli imputati della strage, la sentenza impugnata ha ritenuto di dover prendere le distanze da quella di primo grado, contestando che la riferibilità del fatto all'area della eversione di destra costituisca una certezza e confinando tale assunto al rango di una ipotesi plausibile.
Le conclusioni al riguardo della corte di assise sarebbero state influenzate da un'idea preconcetta, per cui lo stesso assunto da dimostrare avrebbe condizionato l'indagine giudiziaria e l'apprezzamento dei dati acquisiti.
Tanto i giudici di appello hanno ritenuto di desumere dall'essersi la sentenza di primo grado sforzata di affermare l'esistenza e la ricorrenza di una strategia stragista nell'area su detta, considerando nel loro insieme un'ampia molteplicità di fatti e di personaggi in essi variamente coinvolti, di documenti e notizie (non sempre sicure) collegati fra loro, nonostante la loro evidente eterogeneità, in modo arbitrario. E ricorrendo al vaglio di un'imponente congerie di vicende e di movimenti politici e sodali, — questi apprezzati frequentemente con opinabili interpretazioni, piuttosto che in base ad accertamenti rigorosi —, sì da incorrere agevolmente nel facile rischio di non individuare (perché non processualmente acquisiti) fatti e dati di rilevanza decisiva.
Va intanto puntualizzato che la sentenza di primo grado non ha preteso di affermare la assoluta e aprioristica certezza della matrice di destra della strage, ma ha posto due punti fermi.
Il primo, che lo strumento stragista costituiva un dato proprio della strategia di lotta eversiva e terroristica della destra e che questa, fattualmente, alla strage più volte aveva fatto ricorso.
Il secondo, che prima e dopo la strage del 2.8.80 più informazioni avevano segnalato la riferibilità del fatto alla destra eversiva nella quale erano presenti preoccupanti fermenti di rilancio, anche mediante attentati indiscriminati negli obiettivi, tali da spargere un diffuso terrore e un bisogno di risposta forte e autoritaria.
Al di là della conclusione che (è ovvio, ma è bene ribadirlo) non può rientrare nella valutazione di questa corte di legittimità, la motivazione sul punto dei giudici di appello appare generica e in sostanza puramente assertiva, tale che finisce per non dare ragione neppure dell'assunto cui essa è pervenuta.
Gli elementi probatori diffusamente considerati dalla sentenza di primo grado (cfr. par.fo 3/d della narrativa della presente) sono genericamente richiamati, ma mentre si censura il metodo di analisi (anche questo con affermazioni non sostenute da argomentazioni dimostrative), si evita di dar conto specificamente della consistenza e della rilevanza del materiale probatorio, degli errori metodologici asseritamente commessi, e infine delle ragioni della stessa conclusiva valutazione sugli elementi probatori acquisiti.
Secondo la sentenza impugnata i documenti ideologici e programmatici acquisiti al processo, denunciano il farneticare di stragi di alcuni militanti della destra eversiva, ma non sarebbero rapportabili a gruppi o movimenti organizzati.
La sequenza degli attentati e delle stragi anteriori a quella del 2.8.80, sarebbe utile per la storia di un periodo oscuro della vita del Paese, ma priva di indicatività probatoria processuale.
Le molteplici testimonianze o informazioni provenienti dagli ambienti dell'eversione non sarebbero affidabili e conducenti, anche per la contraddittorietà delle loro indicazioni.
Tutto ciò è sostanzialmente affermato con sbrigativo riferimento all'analisi compiuta dalla sentenza di primo grado, la quale è riconosciuta solo in parte condivisibile. Ma alla quale il giudice di appello non ha sostituito una sua analisi, pago della enunciazione del suo dissenso.
Né può sottacersi dell'indebita abdicazione alla possibilità di un'utile analisi di un quadro di vicende certamente ampio e complesso, giustificato dal fatto che in un siffatto contesto possono non essere portati alla cognizione del giudice fatti e dati determinanti.
Certo, non è compito del giudice la ricostruzione storica di un particolare aspetto della vicenda politico - sociale del Paese, né tampoco gli è consentito ricorrere ad elementi di valutazione al di fuori della materia processualmente offerta alla sua cognizione.
Tuttavia, nell'ambito fissato dalle acquisizioni processuali e con il rigore dell'accertamento giudiziale, non può il giudice, — nell'approccio ad un evento delittuoso di carattere politico sottoposto al suo accertamento —, rinunciare alla ricerca e alla valutazione di tutte quelle circostanze che formano il contesto storico - politico del fatto e che sono direttamente utili alla comprensione della sua causale. Dall'individuazione di questa possono invero emergere preziosi apporti per l'accertamento definito del fatto e delle responsabilità individuali.
3/b. — Riguardo alla riferibilità della strage alla banda armata configurata al capo 2) dell'imputazione (cfr. sopra il par.fo 1) della narrativa), la sentenza impugnata ha affermato la mancanza di qualsiasi elemento probatorio concludente, che consenta di risalire alla componente veneta di quella banda, e al Fachini, ritenuto il suo capo.
A prescindere dalle conclusioni cui per questa e altre considerazioni la corte di merito è giunta in ordine alla consistenza della banda armata (individuata solo nel gruppo romano facente capo al Fioravanti — cfr. par.fo 3/c della narrativa), vengono qui in esame le censure dei ricorrenti sul punto concernente la motivazione della sentenza che ha confutato la rilevanza dei fatti probatori colleganti il ed. gruppo veneto alla strage.
L'esame è qui sotto il profilo sistematico possibile, nell'approccio al momento della verifica delle censure riguardanti le responsabilità individuali dei singoli imputati, perché il problema del coinvolgimento del gruppo veneto non è di per sé dimostrato necessariamente connesso, — a differenza di quanto hanno ritenuto i giudici di merito —, alla confluenza di quel gruppo in una struttura sodale unitaria con quello romano, non potendosi concretamente escludere l'eventualità di una cooperazione specifica tra i due gruppi se è vero, che vi erano tra essi altri progetti comuni e vi erano stati scambi di armi ed esplosivi.
D'altra parte, quando fosse dimostrato il coinvolgimento del cd. gruppo veneto nella strage, ciò potrebbe induttivamente portare un contributo all'accertamento dell'esistenza o meno della banda quale configurata dal capo 2) dell'imputazione (cfr. par.fo 1 della narrativa, sopra).
Ma il problema della configurabilità di una banda armata siffatta, della sua struttura e della individuazione dei suoi capi, organizzatori e partecipanti resta comunque come un fatto non necessariamente pregiudiziale a quello dell'accertamento delle responsabilità individuali per la strage, nei termini in cui la sentenza impugnata l'ha posto.
Momento probatorio determinante della riferibilità al gruppo veneto della strage era stato ritenuto dai giudici della corte di assise il compendio delle dichiarazioni rese dal Vettore Presilio (cfr. par.fo 3/d della narrativa) sulle confidenze ricevute dal Rinani in carcere.
Ciò specificamente per la collocazione dei due nel gruppo su detto e per i legami tra il Rinani e il Fachini, leader del gruppo stesso.
Il giudice di appello mostra di condividere le ragioni che avevano indotto la corte di assise a ritenere la cennata collocazione dei due e l'affidabilità delle rivelazioni del Vettore Presilio, ma dopo aver dato atto alla rilettura dei verbali delle dichiarazioni rese e del riascolto della registrazione della conversazione tra il P.M. e il Vettore, ha concluso che, — "nonostante la trasparente supposizione dell'inquirente circa la riferibilità alla strage delle risposte" —, il Vettore Presilio non aveva in realtà fatto alcun cenno del genere, ma si era riferito a un attentato certo clamoroso, addirittura a livello mondiale, ma mirato contro una singola persona.
I ricorrenti hanno censurato tale affermazione rilevando come la corte di merito abbia ignorato tutto un contesto di elementi probatori (quali la relazione del giudice di sorveglianza che raccolse la prima dichiarazione, la testimonianza del difensore che assistette al colloquio e che, per pressanti sollecitazioni dello stesso suo assistito, aveva richiesto al giudice di sorveglianza il colloquio, ed altro).
Ma, senza trascurare tutto ciò, il dato essenziale che aduggia la conclusione del giudice di appello è la sostanziale ed evidente mancanza di motivazione, la quale sul punto si risolve in un semplice assiomatico assunto, al quale la sentenza impugnata è pervenuta immediatamente dopo avere affermato di avere attentamente riletto le dichiarazioni e di avere ascoltato la registrazione della conversazione, traendo così sbrigativamente e categoricamente le impressioni e le conclusioni su riferite. Il che, pur dando atto dello scrupolo di un'acquisizione per quanto possibile diretta delle dichiarazioni del Vettore Presilio, non può d'altra parte appagare affatto l'esigenza della motivazione, che avrebbe, quantomeno, dovuto soffermarsi, seppure sinteticamente sul testo delle dichiarazioni e del brano registrato, darne certezza e quindi esporre argomentatamente le ragioni delle sue conclusioni.
Non soddisfa, invero, l'obbligo della motivazione circa il contenuto e il senso di una deposizione, il giudice che si limiti a riferire che egli ha percepito, senza dare una spiegazione logica dell'obiettivo significato dei dati oggetto della sua percezione in modo da rendere così tale significato verificabile razionalmente da chiunque, al di là di possibili impressioni soggettive.
L'esigenza di una tale spiegazione si imponeva in maniera pressante a fronte di un deposto di rilevanza fondamentale, che avrebbe dovuto essere letto e valutato anche all'integrativa luce del contesto complessivo nel quale era stato reso.
Ma a tanta esigenza la corte di merito non ha dato soddisfazione.
3/c. — La vicenda dell'indagine svolta dal col. Spiazzi — all'epoca dei fatti oggetto del giudizio collaboratore del SISDE — nell'ambiente dell'eversione romana, del suo rapporto 28.7.80 e della successiva intervista (pochi giorni dopo la strage del 2.8.) al settimanale "L'Espresso" con la chiara (almeno per chi apparteneva a un certo ambiente) allusione al Mangiameli, era stata ritenuta dalla corte di assise quale elemento indicativo della riferibilità della strage all'organizzazione romano - veneta, (cfr. par.fo 3/d della narrativa).
Questo essenzialmente, da un lato, per l'informazione su un'attiva opera di ricompattamento delle forze eversive romane (in particolare i NAR e Terza Posizione), di ricerca di armi ed esplosivi, e di progettazione di azioni eclatanti (non escluse quelle di tipo stragista) al centro della quale era il Mangiameli, amico del Fioravanti Valerio e suo ospite alla vigilia della strage; dall'altro, perché era emerso che nell'ambiente romano andava prendendo corpo il progetto dell'uccisione di un magistrato veneto, cioè lo stesso progetto che era stato indicato come in avanzata definizione nel gruppo eversivo veneto dalle confidenze del Rinani a Vettore Presilio (a parte il contestato preannunzio della strage).
I giudici di appello hanno escluso la rilevanza indiziaria della vicenda, notando che da essa nessun concreto accenno alla strage incombente (allora) era possibile cogliere, se non dalle postume indicazioni delle stesso Spiazzi.
D'altra parte, lo scompaginamento delle forze della destra eversiva seguito alla repressione scatenata dalla strage, appariva sintomatico di un ambiente niente affatto preparato a un'eventualità del genere (ovvia conseguenza di un fatto di tanta gravità) e che dunque presumibilmente non aveva avuto, al di là del rilancio unitario delle forze terroristiche, un progetto di strage di tanto rilievo.
Queste due notazioni critiche della sentenza impugnata, in sé ineccepibili, non si sottraggono alle censure dei ricorrenti per due aspetti.
La lettura della vicenda Spiazzi è carente del presupposto di un'analisi approfondita dei dati e delle circostanze per le quali si è snodata (e così, esemplificativamente, di una riflessione sul contenuto dell'appunto di pugno dello Spiazzi che esordisce con le parole "il dott. Prati", certo anteriore alle deposizioni ambigue di costui); ma soprattutto è insoddisfacente nel momento in cui non ritiene di saggiare la possibilità di una diversa conclusione, coordinando l'episodio Spiazzi con l'omicidio Mangiameli e il problema della sua causale, di cui la sentenza impugnata si occupa separatamente, con riferimento alla posizione del Fioravanti riguardo alla strage.
Un coordinamento suggerito da diverse circostanze — alcune pur riconosciute di una certa significatività dalla stessa sentenza —, quali la reazione preoccupata del Mangiameli subito riconosciutosi nel "Ciccio" dell'intervista; la prontezza con la quale la sua eliminazione da parte del Fioravanti seguì a tali fatti; le allusive perplessità sulla vicenda della soppressione del Mangiameli emergenti dalla corrispondenza tra la Mambro e Mario Tuti; le dichiarazioni degli esponenti di "terza posizione" a commento dell'uccisione del loro autorevole camerata, e lo stesso contorto espediente di Volo Alberto, stretto collaboratore del Mangiameli, di allontanare ogni sospetto di collegamento con, addirittura, un'anonima singolare autoaccusa per la strage.
Tutte circostanze, le quali prospettavano la concreta possibilità — da verificare — che l'inchiesta Spiazzi avesse ben colto un ruolo significativo del Mangiameli nei prodromi della vicenda della strage, ruolo reso palese con l'intervista unitamente ai contatti che egli aveva con i Servizi di sicurezza, sì da scatenare la reazione del Fioravanti contro l'amico e il camerata, per lui divenuto una "mina vagante".
La valutazione poi dell'impreparazione dello ambito eversivo della destra alla reazione repressiva conseguente alla strage, avrebbe dovuto essere verificata sulla scorta delle notazioni, ricorrenti in talune dichiarazioni di esponenti dissociati dell'eversione, per le quali all'inasprimento della repressione era attribuita una funzione catartica, perché avrebbe spinto i più decisi e qualificati militanti alla latitanza e alla lotta a tempo pieno nella clandestinità.
Ciò rispondeva secondo le notazioni dei dissociati alla strategia di lotta del Fioravanti affidata all'azione di gruppi operativi snelli e determinati.
Sicché infine lo sbandamento derivante dalla repressione successiva alla strage costituiva un fatto previsto e funzionale ad acquisire a detta strategia nuove forze qualificate.
3/d. — Le dichiarazioni dell'esponente di "terza posizione" e titolare di una radio nelle Marche sulle informazioni del Fiore (altro militante di spicco di quel movimento), circa la crescita di questo, la sua capacità di realizzare azioni militari destabilizzanti per promuovere una lotta di popolo (cfr. ancora il par.fo 3/d della superiore narrativa), concludono nella sentenza impugnata l'esame degli elementi indiziali, prodromici a quelli più da vicino attinenti alle responsabilità individuali per la strage.
II tenore generico della dichiarazione (che la sentenza impugnata riporta nel suo breve contenuto essenziale) giustifica lo scarso peso che essa le ha attribuito. Ma sul punto manca qualsiasi riferimento alle dichiarazioni di Mario Guido Naldi, a quelle del Nicoletti sulle confidenze fattegli da Edgardo Bonazzi, (pur in altra parte della motivazione ricordate e valutate) e all'episodio della Mirella Robbio, vedova di Mauro Meli.
Tali elementi probatori meritavano un vaglio coordinato non solo e non tanto con la posizione del Giovannini, quanto con le dichiarazioni del Vettore Presilio e con la vicenda Spiazzi - Mangiameli, e fra loro, per il ricorrente riferimento della strage all'eversione di destra, nel contesto di un suo momento di rilancio.
E la stessa attribuzione della strage fatta dal Naldi a una provocazione (ma nell'ambito della stessa area di destra) poteva trovare una sua ragione anche in quella funzione catartica e di selezione delle file dei militanti, cui sopra si è accennato come teorizzata all'interno della strategia eversiva, che voleva l'azione "militare" affidata a nuclei operativi numericamente limitati e qualificati.
3/e. — La sentenza impugnata introduce lo esame della tematica relativa alle responsabilità individuali per la strage, rimarcando, coerentemente alle sue conclusioni, l'indebolimento del contesto probatorio nel quale le emergenze processuali specifiche a carico degli imputati si innestano e che attiene alla ritenuta riferibilità, solo in termini possibilistici, della strage all'area della destra eversiva, e all'esclusione della componente veneta dalla banda armata configurata sub capo 2) dell'imputazione.
Per le ragioni sin qui esposte, tale assunto andrà riesaminato in sede di rinvio nell'ambito della ampiezza dei poteri di indagine e di valutazione che al giudice di merito di tale sede competono.
La posizione del FIORAVANTI e della MAMBRO si articola — come riferito sub par.fo 3/e) della narrativa della presente — sulle seguenti risultanze:
1) le dichiarazioni rese da Massimo Sparti sull'incontro con Valerio Fioravanti il 4.8.80;
2) la telefonata di Luigi Ciavardini per differire la partenza della fidanzata Venditti e dell'amica Cecilia Loreti da Roma per Venezia con il treno, fissata per il 1° agosto '80;
3) la vicenda dell'omicidio Mangiameli;
4) L'alibi ritenuto mendace dei due imputati.
1) I giudici di appello hanno ritenuto attendibile e veritiero lo Sparti nel riferire il suo colloquio con il Fioravanti e le allusive battute dell'interlocutore sulla strage, della quale appariva compiaciuto, tanto da indurre lo Sparti — che ritenne di cogliere una sua dichiarazione di responsabilità — a troncare il discorso, atterrito dall'enormità del fatto.
Le riserve dei giudici di merito si sono appuntate essenzialmente sull'ambiguità delle dichiarazioni del Fioravanti, il quale avrebbe studiatamente fatto quelle allusioni alla strage e al transito dalla stazione di Bologna (che sarebbe anche in realtà potuto avvenire il giorno 3.8), per intimidire l'interlocutore, dal quale intendeva ottenere rapidamente dei documenti "freschi".
Nota ancora la sentenza impugnata che la poca confidenza corrente tra i due e la posizione del Fioravanti, il quale aveva teorizzato la realizzazione di azioni incisive di lotta armata condotte con la copertura del segreto più rigoroso, mal si conciliano con l'inopinata vanteria proprio su un episodio di tanta gravità.
D'altra parte, le notizie di stampa su rivendicazioni dei NAR, su un uomo e una donna sospetti notati quel giorno alla stazione, spingevano il Fioravanti a procurarsi nuovi documenti falsi e a realizzare quella rapina del giorno successivo (il 5.8.) ai danni di un'armeria, impresa alla quale intendeva dare il senso di un tipo di lotta diversa da quella stragista.
Deve essere condivisa, perché giuridicamente esatta, la collocazione fatta dalla corte di merito della deposizione dello Sparti fra le dichiarazioni rese da imputato di un reato collegato a quello per cui si procede, con riferimento al 4° comma dell'art. 192 del C.P.P. vigente, in relazione all'art. 371, comma 2 lett. b) dello stesso codice. Correttamente la corte ha ricordato che lo Sparti ebbe a riferire del colloquio con il Fioravanti quando era coimputato con altri, tra i quali lo stesso Fioravanti, dei delitti di banda armata e altri, in ordine ai quali aveva reso diffuse dichiarazioni accusatorie, compresa quella in questione.
Appare viceversa inficiata da contraddittorietà e omessa considerazione di circostanze decisive la motivazione adottata per sostenere l'equivocità del senso delle dichiarazioni del Fioravanti. L'urgenza di procurarsi documenti per sé e per la sua compagna nella facile previsione dello scatenarsi della reazione degli organi di polizia, è argomento ineccepibile con il quale la sentenza impugnata ha collegato il fatto del Fioravanti alla paventata repressione.
Ma proprio per la riconosciuta riservatezza del Fioravanti e per i rapporti né amichevoli, né confidenziali che, come la sentenza dichiara, correvano con lo Sparti, l'assunto della strumentale e falsa allusione ad un coinvolgimento suo e della sua compagna nella strage è del tutto contradditorio: la falsità dell'allusione, in altre parole, non è meno contrastante con la ritenuta riservatezza del dichiarante di quanto potesse esserlo la sua veridicità. Per di più l'assunto è illogico, perché un'ammissione del genere avrebbe esposto il Fioravanti — contro i suoi principi — allo scopo di raggiungere un obiettivo che occorreva chiedersi se non potesse essere da lui agevolmente conseguito altrimenti.
La sentenza impugnata ha invece pretermesso, come è stato rilevato dai ricorrenti, di considerare la cinica spregiudicatezza con la quale il terrorista non aveva esitato a minacciare l'interlocutore nella vita del figlioletto, e di avere presenti i rapporti tra i due.
Ben altre volte lo Sparti, che temeva il Fioravanti, si era dovuto prestare alle sue richieste anche per "favori" più compromettenti e pericolosi dell'acquisizione di documenti falsi, affare che per un persona da tempo interna all'ambiente della malavita come lo Sparti non presentava infine particolari difficoltà. Sicché è un'illazione gratuita quella della strumentalità delle allusioni alla strage, alla quale la motivazione della sentenza aggancia la sua lettura del comportamento del Fioravanti, e solamente ipotetico e astratto, ossia congetturale, è il senso finalistico e riduttivo a esso attribuito.
D'altra parte, la sentenza impugnata ha anche trascurato che il coinvolgimento dello Sparti nella attività terroristica dei NAR e la sua complicità in molte imprese dei fratelli Fioravanti in particolare, potevano ragionevolmente giustificare, unitamente all'ascendente intimidatorio che il Valerio sapeva di avere su di lui, la disinvoltura e la schietta indifferenza con la quale egli aveva alluso alla strage e al suo transito per Bologna insieme alla Mambro, nella tranquilla sicurezza che mai il suo interlocutore avrebbe osato rivelare alcunché.
In definitiva, il carattere di indizio preciso e grave delle dichiarazioni fatte dal Fioravanti allo Sparti, intese da quest'ultimo come chiara ammissione di partecipazione del primo alla strage, è stato eliminato dalla sentenza impugnata senza saggiarne la concordanza con gli altri indizi, sulla sola base di congetture illogiche e contraddittorie, per di più non poste a confronto con fatti rilevanti idonei a contrastarle.
2) Riguardo alla telefonata del Ciavardini la sentenza impugnata ha osservato che la giustificazione da ultimo resa dal giovane terrorista, di avere dovuto differire, con la telefonata, la partenza della Venditti e della Loreti (con le quali si doveva incontrare a Venezia), già fissata per il 1°.8., a causa dell'inatteso arrivo del Fioravanti e della Mambro a Treviso e detta richiesta di restituzione di un documento di identità che il Fioravanti gli aveva fatto, non poteva essere del tutto disattesa. Anche perché sembrava trovare un riscontro nella dichiarazione della Loreti, la quale aveva riferito che l'amico le aveva prospettato genericamente delle difficoltà per i documenti.
Per conseguenza, il carattere di avvertimento della telefonata collegato a una consapevolezza della strage imminente da parte di persona molto vicina al Fioravanti e alla Mambro, per consuetudine delinquenziale nelle imprese terroristiche e per amicizia, risultava messo in dubbio.
Dubbio che avrebbe potuto essere superato solo dalla certezza che la telefonate era stata fatta prima del 1°.8.; ma l'accertamento era mancato e, anzi, dal complessivo tenore della dichiarazione della Loreti doveva desumersi che la telefonata era arrivata il primo agosto, talché la spiegazione del Ciavardini non risultava, quantomeno, smentita.
La motivazione in questi termini manca di completezza, perché trascura diverse circostanze che avrebbero dovuto, proprio nell'economia della sua impostazione, essere esaminate e, se del caso, confutate.
Aveva infatti considerato la sentenza di primo grado — facendosi carico proprio della questione del giorno in cui era stata fatta la telefonata e della giustificazione concernente i documenti — che la Loreti nelle sue dichiarazioni in istruzione aveva ripetutamente affermato (in ciò riscontrata dalla dichiarazione del Ciavardini al giudice istruttore del 24.10.84) che la partenza era fissata per il 1°.8. Per il che la telefonata sarebbe dovuta intervenire presumibilmente prima.
Lo stesso Ciavardini al giudice istruttore il 5.6.82 aveva dichiarato che nei primi di agosto non aveva alcun problema di documenti e che non era per tale ragione che non aveva in seguito pernottato a Venezia. Solo successivamente il Ciavardini aveva mutato tale posizione introducendo la giustificazione dei documenti, prima esclusa. Tale giustificazione poi risulterebbe contrastata dal fatto che il Ciavardini aveva "bruciato" un suo documento (la cui intestazione risulta incerta, ma dalla sentenza impugnata è ritenuta probabilisticamente quella "De Francisci", cioè quella del documento che il Fioravanti aveva dato in cambio all'amico), dopo e non prima del 2.8. Ma il Ciavardini non aveva denunziato problemi di documenti neppure successivamente a tale data, escludendo come si è visto che il suo non pernottare a Venezia con la fidanzata e l'amica fosse dipeso da questo.
Inoltre, al momento del suo arresto il giovane era stato trovato in possesso di una patente intestata "Marco Arena", della quale aveva avuto la disponibilità anche prima (sin dall'inizio della sua latitanza), secondo le dichiarazioni della Venditti e di lui stesso.
3) Sulla vicenda dell'omocidio del Mangiameli la sentenza impugnata ritiene non solubile l'incertezza della sua causale, considerando che la riferibilità del delitto alla volontà del Fioravanti di eliminare una persona rivelatasi non più affidabile dopo l'intervento dello Spiazzi, — affermata dalla corte d'assise —, sarebbe equivalente a quella, indicata da Fioravanti Cristiano (per averla appresa dal fratello Valerio), sulla riferibilità del fatto all'essere stato il Mangiameli partecipe di una riunione nella quale era stato con altri deciso l'assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella.
La motivazione della sentenza, pur richiamando il riferimento della sentenza di primo grado alla vicenda Spiazzi, omette di prendere in esame la correlazione dei due fatti come già si è osservato, mentre manca di converso l'approfondimento critico sulla plausibilità di un collegamento logico tra la supposta riunione, dianzi cennata, e l'omicidio del Mangiameli.
Riguardo a quest'ultimo aspetto una riflessione avrebbero meritato due circostanze dedotte dai ricorrenti: la prima che la complicità del Mangiameli per avere partecipato alla riunione in cui era stato deciso l'assassinio del presidente della Regione Siciliana, escludeva il pericolo che egli rivelasse la responsabilità del Fioravanti, rimanendo per ciò stesso esposto a dover confessare la sua. La seconda, che dall'omicidio del Mattarella erano decorsi circa otto mesi, durante i quali il Fioravanti si era incontrato con l'amico Mangiameli, aveva progettato con lui l'evasione del Concutelli, si era fatto aiutare a costituire la base per l'operazione, ed era stato ospite a casa sua.
Viceversa, la correlazione con la vicenda Spiazzi avrebbe aperto la strada alla doverosa considerazione di quei molteplici elementi (sopra indicati sub par.fo 3/c) che avrebbero dovuto essere approfonditi per chiarire in termini appaganti la sussistenza o non di un collegamento dell'omicidio con la strage.
4) Sul tema dell'alibi addotto dai due imputati la sentenza impugnata articola il suo argomentare su due punti sostanziali.
In termini di individuazione della massima esperienza per valutare la portata probatoria dell'alibi fallito e di quello falso (cioè costruito artificiosamente, prima o dopo il fatto delittuoso), la sentenza afferma, — e ciò in linea con la giurisprudenza costante di questa corte (qui meritevole di essere ribadita) —, che l'alibi fallito non può che essere considerato come elemento del tutto agnostico sul piano probatorio, e dunque non costituente neppure un indizio (secondo le notazioni fatte sopra sub par.fo 3). Acquisita aliunde la prova della responsabilità, esso può, e solo allora, costituire un elemento integrativo, di chiusura del costrutto probatorio.
Ma la sentenza impugnata va oltre, affermando che anche "l'alibi costruito e dunque falso, non chiuderebbe definitivamente il varco ad ipotesi diverse da quelle di accusa". Anche questa proposizione in sé è corretta (e gli stessi ricorrenti non l'hanno contestata, cfr. per tutti i motivi di ricorso della Regione Emilia/Romagna), perché la costruzione dell'alibi mentre è indicativo certamente di una maliziosa preordinazione difensiva sintomatica, non per questo riporta tuttavia alla necessaria conseguenza logica della responsabilità, restando aperta la possibilità, niente affatto astratta, del ricorso a tale strumento da parte anche dell'innocente per la sua iattura eventualmente a corto di argomenti difensivi di fronte al peso di pregnanti e preoccupanti elementi a suo carico.
L'alibi costruito ha pertanto una sua valenza indiziante che, a differenza di quello fallito, lo pone tra gli elementi, secondo l'esperienza, probatoriamente rilevanti, ma che deve essere preso in esame considerandolo intanto nella sua intrinseca strutturazione in rapporto alla situazione processuale concreta (ed è chiaro, ad es., che anche il modo e il momento della sua costruzione avranno la loro parte di significatività), e poi valutandolo in correlazione con gli altri elementi indiziari acquisiti.
Affidabile allora sul piano dell'enunciazione di principio, la sentenza impugnata — e si viene al secondo punto argomentativo — ha però mancato l'obiettivo doveroso della completezza e logicità della motivazione nel momento in cui, accertate le contraddizioni tra gli stessi imputati nella deduzione delle circostanze dell'alibi, l'inattendibilità di alcuni testi, il contrasto tra le affermazioni degli imputati e quelle di altri testi (in specie la Busnelli cfr. par.fo 3/e della narrativa), ha chiuso il discorso osservando che le cennate sfasature della struttura dell'alibi infine potevano anche costituire un sintomo della sua possibile genuinità, sicché non di alibi costruito si poteva sicuramente parlare, ma solo di alibi fallito.
È mancata qui quell'attenta verifica del sintomatico strutturarsi progressivo dell'alibi attraverso ripetute contraddizioni, le quali non si possono ragionevolmente spiegare come plausibili, accidentali sfasature di un alibi fallito. Gli adattamenti successivi delle dichiarazioni del Fioravanti a quelle della Mambro; le incongruenze interne delle loro stesse posizioni; la inconciliabilità con il deposto della Busnelli; e la stessa pretesa di dare valenza simbolica ad una rapina mai rivendicata, costituiscono elementi indicativi di una costruzione artificiosa sui quali la motivazione della sentenza impugnata avrebbe dovuto soffermarsi criticamente prima di accreditarli come sfasature di un semplice alibi non riuscito.
È mancata poi la correlazione della rilevanza probatoria dell'elemento indiziario in discorso con gli altri, il che, secondo quanto affermato sopra sub 3), sarebbe pur legittimo purché il momento della verifica individuale della rilevanza probatoria di ciascun elemento fosse pervenuta all'azzeramento, sul presupposto di una motivazione congrua e logica.
Poiché invece si sono dovute evidenziare le carenze e i vizi sin qui esposti, la sentenza impugnata per questa parte va annullata con rinvio per nuovo esame.
3/f. — La posizione di SERGIO PICCIAFUOCO, per quanto riferito sub par.fo 3/e della narrativa, si articola in due momenti essenziali: la sua militanza o quantomeno la sua stretta contiguità con i movimenti di "terza posizione" e dei NAR, e la sua certa, ma ingiustificata presenza alla stazione di Bologna al momento dell'esplosione, dalla quale rimase anche lievemente ferito.
Riguardo alle informazioni fornite dai carabinieri rileva la sentenza impugnata (discostandosi criticamente da quella di primo grado), che la fonte confidenziale di esse — individuata dai giudici della corte di assise nel Leonardo Giovagnini — in realtà non può dirsi accertata, essendosi costui limitato ad ammettere di essere stato confidente dei carabinieri e di avere loro riferito che aveva conosciuto e incontrato il Picciafuoco alquanti anni prima, senza più rivederlo in seguito. Per questo la sentenza impugnata ha concluso che la fonte delle informazioni è rimasta di natura confidenziale e per ciò non utilizzabile processualmente.
Sul punto ritiene questa corte che la valutazione del giudice di merito non sia suscettibile di sindacato in sede di legittimità, perché le scarse informazioni rese dal Giovagnini (assunto come imputato di reato connesso) non offrono alla censura dei ricorrenti un valido spunto per qualificare come illogica l'affermazione della corte di merito. E peraltro, la supposizione di avere individuato la fonte, che la polizia giudiziaria non ha ritenuto di rendere palese, non consente di superare il divieto di utilizzazione (sanzionato da nullità) contenuto nell'ultimo comma dell'art. 349 c.p.p. (1930), se la fonte in giudizio non abbia confermato la informazioni di polizia (si cfr. al riguardo la corte cost.le n. 175 del 1970, che ha affermato con forza la perentorietà del divieto sancito date norma citata).
Sull'inclusione del nome dell'imputato nell'elenco dei detenuti di destra annotato nell'agenda sequestrata al Cavallini al momento del suo arresto, la sentenza impugnata ha concluso che si tratta di un dato di significato ambiguo, inidoneo a collocare il Picciafuoco nella banda armata, cui la strage sarebbe riferibile.
In proposito ha osservato, a) che l'annotazione, fatta risalire dai giudici della corte d'assise alla fine del 1982, è plausibile sia stata frutto di notizie prese dalla stampa e dall'ambiente carcerario, essendo il Picciafuoco ignoto al Cavallini prima di allora (così ha sostenuto il terrorista arrestato), così come era ignoto ad altri militanti della destra eversiva e alla stessa polizia, per la quale sino alla sua identificazione dopo la strage, era un delinquente comune; b) che semmai il Cavallini avesse avuto contezza che l'imputato aveva concorso nella strage, si sarebbe guardato da includere il suo nome nell'elenco; c) che era pur possibile che l'imputato — una volta arrestato — avesse ritenuto (convinto o non) di politicizzarsi, meritandosi così la menzione nell'elenco del terrorista.
La motivazione appare invalidata da illogicità, approssimazione e carenza di esame riguardo a circostanze rilevanti.
Intanto il problema da sciogliere non è quello dell'appartenenza dell'imputato alla banda armata, quanto quello della sua stretta contiguità con i movimenti di "terza posizione" e dei NAR., di per sé stesso pur significativo nell'economia della posizione del Picciafuoco.
Venendo poi alle specifiche argomentazioni, è conclusiva l'osservazione dei ricorrenti, relativamente alla considerazione sub a), che la sentenza impugnata non si è posta il problema, nel valutare il tema dell'inclusione del nome dell'imputato nell'elenco, del fine per il quale il Cavallini aveva ritenuto di formarlo. Se, come la sentenza di primo grado e i ricorrenti sostengono, l'obiettivo era quello di avere presenti le posizioni dei singoli detenuti e la loro affidabilità, — per le molteplici e intuibili conseguenze da trarne nell'interesse del movimento armato e per la sicurezza di esso e dei singoli militanti (Cavallini compreso) —, allora risulterebbe del tutto illogico che l'elenco fosse stato da lui formato (al di là della conoscenza strettamente personale con ciascuno dei numerosi nominativi in esso compresi) sulla base di notizie sommarie e inaffidabili, al punto da includervi un qualsiasi delinquente comune del quale fossero ignoti i trascorsi e i rapporti con il mondo dell'eversione.
Anche la considerazione sub b) prescinde da una qualsiasi risposta all'interrogativo ora cennato e si risolve in una semplice asserzione, dal momento che non chiarisce perché mai la consapevolezza di un concorso qualsiasi dell'imputato nella strage avrebbe dovuto trattenere il Cavallini dall'annotarne il nome nell'elenco, che non conteneva alcuna indicazione sulle responsabilità per la strage o altro delitto di alcuno, né, nell'intenzione dell'autore, era certo destinato a cadere nelle mani della polizia.
L'assunto sub c) è poi una supposizione, che ancora si sottrae alla ricerca della logica sottesa alla formazione di quell'elenco di camerati detenuti, dei quali interessava conoscere la fedeltà al movimento eversivo o la disponibilità a cedimenti compromettenti, cui non poteva essere indifferente un'approfondita informazione sui toro trascorsi e i loro legami nel movimento.
Conclusivamente, l'annotazione del nome del Picciafuoco sull'agenda del Cavallini non è una circostanza che possa essere liquidata come insignificante, prima di averne adeguatamente saggiato il senso ed, eventualmente, di averla esaminata in correlazione con l'indicatività delle risultanze concernenti i documenti falsi utilizzati o comunque dei quali il Picciafuoco ha avuto la disponibilità.
In merito la sentenza impugnata conclude l'analisi delle coincidenze dei due documenti a nome Vailati (quello utilizzato dall'imputato e quello del quale aveva disponibilità il Volo, fedele collaboratore del Mangiameli), osservando che esse possono, al più dimostrare una comune origine falsaria.
Circa il passaporto intestato "Pierantoni" conviene che la stampigliatura in esso del numero corrispondente al passaporto genuino e all'epoca dei fatti "pulito" (cioè, appartenente" a persona in alcun modo compromessa e segnalata in indagini di polizia), costituisce un nesso ben più pregnante e indicativo.
Considera però, a) che l'imputato non poteva avere la disponibilità dei documenti "Pierantoni" prima del 2.8.80, perché altrimenti ne avrebbe fatto uso sia per accedere nel luglio del 1980 all'albergo di Taormina (dove rimase per alquanti giorni sotto il nome di Vailati), sia quando si presentò in ospedale per farsi curare le ferite subito dopo la strage; b) che semmai dalla disponibilità del passaporto "Pierantoni" potesse trarsi la deduzione di una sua "politicizzazione", questa non potrebbe che riferirsi a un tempo successivo alla strage e coincidente con il momento in cui egli — ricercato come indiziato di concorso in essa — non poteva che naturalmente ricercare la solidarietà nell'ambito della sovversione di destra; c) che tuttavia la disponibilità del passaporto con la stampigliatura di quel numero lasciava aperte almeno due possibilità: o che l'imputato, stretto dalla necessità di sostituire i documenti a nome "Vailati", si fosse rivolto al mondo dei falsari romani nel quale v'era un non distinguibile connubio di delinquenza comune a politica (come dimostrato dai passaporti provenienti da Vienna, recuperati a Roma). Ovvero che si fosse senz'altro e direttamente rivolto all' "organizzazione politica clandestina che gestiva la produzione e diffusione dei passaporti falsi recanti la stampigliatura di numeri di serie puliti". Ma in tal caso questo implicherebbe una politicizzazione successiva come dianzi cennato.
Anche in questo caso si deve riconoscere che la motivazione della sentenza impugnata non risponde ai canoni di logicità, correttezza e completezza richiesti da una diffusa e costante giurisprudenza.
Non tanto per l'apprezzamento sulle convergenze dei documenti "Vailati", le quali di per sé sole non vanno oltre una possibile, ma pur singolare e non anodina, indicazione di una comune genesi falsaria. Quanto per l'arbitrarietà delle proposizioni sunteggiate sopra sub a) e b), e per il mancato approfondimento delle implicazioni derivanti dalla, pur riconosciuta, sintomatica connessione tra il passaporto "Pierantoni" e quello genuino e insospettabile del Brugia. E, ancora, per l'omessa considerazione delle risultanze della perizia grafotecnica che la stessa corte di assise di appello aveva disposto sui documenti giunti da Vienna e sul passaporto su detto, in comparazione fra loro.
Affermare che il Picciafuoco non avrebbe avuto la disponibilità del passaporto "Pierantoni" prima del 2.8, perché altrimenti ne avrebbe fatto uso, è una gratuita petizione di principio. La sentenza non spiega la ragione per la quale l'imputato allora avrebbe dovuto preferire qualificarsi "Pierantoni" piuttosto che "Vailati".
Che poi egli, — delinquente comune da tempo esperto navigatore nella latitanza trascorsa con dovizia evidente di mezzi finanziari tra un albergo e l'altro —, avesse bisogno della solidarietà del mondo dell'eversione per procurarsi documenti falsi, pare un'altra incongruenza. Non solo, ma la sentenza impugnata avrebbe dovuto chiedersi se la consapevolezza di essere ricercato per un delitto politico non avrebbe dovuto fargli prendere più che mai le distanze dall'ambiente della delinquenza politica, che a quel tempo era, per giunta, scompaginato e incalzato dalla repressione di polizia, sicché non si vede come avrebbe potuto trovare ragione per offrire copertura e aiuto a un delinquente comune sol perché ricercato per un delitto politico, che del resto (lo si è visto) taluni consideravano un'intestina e devastante provocazione.
Una politicizzazione postuma alla strage dunque — allo stato delle circostanze acquisite dai giudici di merito — era la cosa meno ragionevole che l'imputato avrebbe potuto scegliere e la più diffìcile e concretamente rischiosa.
Le alterne ipotesi sulla provenienza del passaporto falso con il numero di serie corrispondente a quello di un documento autentico e pulito (se dall'ambiente dei falsari nel quale delinquenza comune e politica si scambiavano favori, o dall'ipotetica "organizzazione politica clandestina" che gestiva la produzione e diffusione di questo tipo di documenti) hanno poi ben poco rilievo.
Il fatto, pacificamente accertato, da leggere era quello del legame tra il passaporto falso in possesso dell'imputato e quello del terrorista Riccardo Brugia, appartenente ai NAR, in correlazione con l'altro legame tra il numero di quest'ultimo passaporto e quello falso utilizzato da Alessandro Alibrandi (prestigioso militante dei NAR vicino al Fioravanti).
La riproduzione del numero di serie del passaporto "pulito" del Brugia non poteva logicamente avvenire senza il consenso dell'interessato — anche per le implicazioni che l'accertamento della falsità di un passaporto recante quel numero avrebbe potuto avere — e ci si sarebbe allora dovuto domandare perché il Brugia si sarebbe dovuto prestare a favorire la contraffazione di un documento per uno sconosciuto delinquente comune, estraneo al movimento eversivo.
Ma l'analisi delle risultanze della perizia sui 6 passaporti pervenuti a Roma dall'Austria e sul passaporto sequestrato al Picciafuoco, — alle quali la sentenza impugnata non ha riservato alcun cenno, limitandosi a ricordare quei 6 documenti contraffatti come un fatto sintomatico della circolazione di documenti falsi omogenei nel giro dei falsari romani al servizio della malavita comune e politica —, avrebbe in realtà offerto ulteriori elementi ben meritevoli di attenzione per l'indagine alla quale la corte di assise di appello era chiamata.
Dei sei passaporti spediti dall'Austria (tra l'altro in un giorno in cui anche il Picciafuoco si trovava a Vienna) due recavano stampigliato lo stesso numero di serie di quello "Pierantoni" sequestrato all'imputato (e quindi lo stesso numero del passaporto del Brugia), e due recavano il numero corrispondente a quello originale del passaporto "pulito" appartenente ad un altro militare dei NAR., Petrone Luciano.
Tutti e sette i documenti — è stato ricordato dai ricorrenti — avevano per i periti la stessa provenienza sotto i profili merceologico, disegnativo e compositivo; i segni redatti a mano erano di pugno della medesima persona ed erano riferibili con buona probabilità al Picciafuoco; i timbri erano tutti eguali; la fotografìa sovrapposta nei documenti era la medesima e singolarmente somigliante all'imputato.
È evidente come tale compendio di risultanze, ignorate, prospetti due circostanze di rilevante portata: la riferibilità all'imputato di un'attività di falsificazione di passaporti, e il collegamento ulteriore, attraverso la corrispondenza dei numeri di serie, con un altro militante dei NAR.
Pertanto, la tematica della militanza eversiva del Picciafuoco, ora esaminata, per le considerazioni sin qui svolte, non può non formare oggetto di un più completo e approfondito esame, le cui conclusioni condizionano pregiudizialmente la pregnanza significativa della sua presenza alla stazione di Bologna il 2.8.80.
Su tale secondo punto, essenziale, della posizione dell'imputato la sentenza impugnata ha specificamente svolto le seguenti considerazioni: a) certamente il Picciafuoco è incorso in ripetute contraddizioni ed ha reso giustificazioni inattendibili. Tuttavia, non è stato smentito il suo assunto di aver raggiunto Bologna in taxi da Modena per poi raggiungere in treno Milano; b) il suo ferimento in conseguenza dell'esplosione costituirebbe un indizio contrario alla tesi accusatoria del suo concorso nella strage, perché denuncerebbe una singolare disinformazione sulla potenzialità dell'ordigno ed un anomalo attardarsi nella zona vicina all'esplosione; c) altro indizio in tal senso sarebbe costituito dalla circostanza che egli si presentò all'ospedale per farsi medicare, correndo il rischio dei controlli di polizia.
Con il primo passaggio dalla motivazione (su riferito in estrema sintesi) la sentenza dissolve la indicatività probatoria del comportamento dell'imputato considerandolo alla stregua di chi non abbia voluto o potuto dar ragione appagante di sé (rispetto a una situazione indiziariamente compromettente), epperò abbia addotto giustificazioni non smentite.
Viceversa le censure dei ricorrenti pongono in evidenza come le giustificazioni dell'imputato, scrupolosamente sottoposte a verifica, si siano progressivamente rivelate, non tanto inaffidabili, ma decisamente false e costruite, tali dunque da conferire al comportamento processuale una rilevanza probatoria, certo non conclusiva in sé, ma suscettibile di apprezzamento in correlazione con altri elementi.
L'analisi della sentenza impugnata sui singoli punti della costruzione difensiva del viaggio che avrebbe portato l'imputato a Bologna si presenta in realtà affidata ad argomentazioni astrattamente ipotetiche e quindi inconcludenti. Valga per tutte l'affermata inaffìdabilità degli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria per verificare l'assunto viaggio dell'imputato da Modena a Bologna.
La sentenza disattende la verifica (risoltasi nel senso di escludere che tale viaggio abbia avuto luogo) da un canto ponendo in dubbio l'attendibilità delle informazioni rese dai taxisti modenesi in servizio quel giorno, tutti interpellati (tranne uno); d'altro canto, adombrando fugacemente l'incompletezza dell'accertamento per il mancato interpello di quell'unico taxista, già deceduto al momento dell'indagine.
Il primo giudizio muove dalla considerazione che taluno degli interpellati possa avere avuto delle remore ad ammettere di avere trasportato un possibile terrorista "nero" responsabile della strage. Il che costituisce una generica supposizione su ipotetici atteggiamenti psicologici non giustificata, tra l'altro, dalla stessa asetticità della circostanza oggetto dell'interpello, e cioè l'esecuzione di un servizio del tutto normale per un qualsiasi cliente. Il collegamento eventuale di costui con la strage non poteva mutare sostanzialmente per gli interpellati l'obiettiva normalità e indifferenza del fatto in sé, tanto da spingerli ad atteggiamenti falsi o reticenti.
La valutazione dell'attendibilità di informazioni rientra sicuramente nella discrezionalità del giudice di merito, ma le ragioni alle quali il giudice affida il fondamento del suo apprezzamento devono muovere da elementi concreti riferibili alla fonte dell'informazione, e non già ancorarsi alla supponenza generica di ipotetiche reazioni psicologiche desunta dalla presunta ostilità diffusa in un ambiente verso una persona indiziata.
Quanto all'incompletezza dell'indagine — oggetto di un'accennata riserva, piuttosto che di un'esplicita e motivata verifica — è pretermessa la considerazione che gli inquirenti avevano espressamente ricercato specifici dati per stabilire se, sulla scorta delle indicazioni dell'imputato, potesse individuarsi nel taxista scomparso quello che aveva eseguito il servizio Modena - Bologna, pervenendo a una conclusione negativa.
Quanto alle altre circostanze considerate dalla sentenza impugnata e valutare come possibili indizi a favore dell'imputato, è evidente dalla motivazione che si tratta di elementi di indicatività non univoca e di rilevanza residuale. Talché il loro apprezzamento — posta la necessità di un riesame approfondito della posizione dell'imputato —, non può che rimanere nel quadro degli elementi che il giudice di rinvio dovrà riprendere in esame nell'ambito della sua potestà.
3/g. — La motivazione della sentenza impugnata in ordine alla responsabilità di MASSIMILIANO FACHlNI si articola su tre punti (per i quali cfr. sopra il paragrafo 3/e della narrativa).
In primo luogo, si osserva che, se è pur vero che al Fachini faceva capo il gruppo eversivo veneto e che sono stati dimostrati i legami tra lui e il Rinani, è però altrettanto certo che la mancanza di elementi probatori per ricondurre il gruppo dell'imputato alla banda armata romana guidata dal Fioravanti e la lettura data alle dichiarazione rese dal Vettore Presilio vanificano la rilevanza indicativa del contesto nel quale la posizione dell'imputato era stata considerata dalla decisione dei primi giudici.
In secondo luogo, si ritiene dimostrato — per le convergenti informazioni del Calore, del Napoli e dell'Aleandri — che il Fachini aveva la disponibilità dell'esplosivo denominato T/4, del quale l'imputato aveva fornito in varie occasioni gli attivisti e i gruppi della destra eversiva, dando anche indicazioni sul suo uso. Ma si osserva che il T/4 impiegato per la confezione dell'ordigno esploso il 2.8. non per questo poteva ritenersi proveniente necessariamente dal Fachini.
In terzo luogo, l'episodio di consiglio che lo imputato avrebbe dato a Giovanna Cogolli di allontanarsi da Bologna alla vigilia del 2.8. (consiglio che sarebbe stato puntualmente seguito), non avrebbe, — a prescindere dalla verifica della sua realtà fattuale e delle sue circostanze — alcun significato probatorio, vuoi per l'estraneità del Fachini alla banda Fioravanti, vuoi per la tendenza decisa del personaggio alla riservatezza più scrupolosa, vuoi infine perché, se un messaggio vi fu, potè essere letto dalla destinataria sotto la suggestione dei fatti poi accaduti, e perché la preoccupata comunicazione agli amici di una "indistinta avvisaglia" di qualcosa, sarebbe stata erroneamente interpretata come un preciso consapevole avvertimento.
Sul primo punto si richiama quanto si osserva sub par.fo 3/b riguardo alla non pregiudizialità logica della convergenza del gruppo romano e di quello veneto in un'unica banda, quando l'esistenza di contatti, di scambi di uomini, armi ed esplosivi, e la comunione di un progetto di attentato qualificato ed emblematico nella lotta terroristica come quello della soppressione di un giudice veneto, aprono la concreta possibilità di una cooperazione relativa al fatto specifico.
Si è rilevata poi la necessità di un riesame dell'episodio delle rivelazioni del Vettore Presilio considerata la carenza di motivazione riguardo alla consistenza e alla portata di quelle propalazioni.
Sicché in conclusione il tema della valutazione del contesto andrà compiutamente riesaminato in sede di rinvio.
Sul secondo punto non si può che convenire sulla correttezza e logicità della motivazione della sentenza impugnata, la quale ha però ritenuto l'indizio derivante dalla disponibilità del T/4 come unico elemento consistente (ma non univoco di per sé) svalutando totalmente l'episodio dell'avvertimento alla Cogolli.
E su questo terzo punto non è possibile intanto accettare il metodo seguito dalla sentenza impugnata di confutare aprioristicamente la valenza di un fatto pur in astratto significativo prima di averne accertate la sussistenza e le circostanze, vagliando accuratamente le risultanze probatorie.
Ma la stessa valutazione che la sentenza compie del fatto (assunto in via di ipotesi) risulta inadeguata e lacunosa, ove si consideri: a) che l'estraneità del Fachini alla banda del Fioravanti è un dato pregiudizialmente non rilevante; b) che la considerazione del carattere del personaggio Fachini dice poco senza un approfondimento dei rapporti che egli aveva con la Cogolli. La sentenza si limita in proposito alla valutazione della posizione critica sul piano ideologico e della strategia della lotta eversiva della giovane nei confronti dell'imputato, ma trascura il dato rilevante della stretta collaborazione che in passato v'era stata tra i due; c) che infine costituiscono solo delle petizioni di principio, tratte da ipotesi astratte e generiche, sia la supposizione che la Cogolli avesse travisato la portata del messaggio per la suggestione dei fatti successivamente accaduti, sia la supposizione che il Fachini, perché estraneo alla banda romana, non potesse disporre che di impressioni tratte da "indistinta avvisaglia" (quale?), da comunicare agli amici (Cogolli compresa?).
Pertanto l'episodio in parola va riesaminato adeguatamente nel duplice aspetto del suo accertamento e della sua consistenza probatoria, considerando, eventualmente, il fatto con tutte le altre emergenze processuali, non esclusa la testimonianza di Stefano Nicoletti sulle confidenze ricevute in carcere da Edgardo Bonazzi, ignorata in questa parte della sentenza dai giudici di appello.
3/h. — Nei confronti di ROBERTO RINANI è stato proposto ricorso per i capi concernenti l'assoluzione dal delitto di strage e degli altri connessi solo dalle parti civili rappresentate dall'avvocatura di Stato (cfr. par.fi 4 e 4/c della narrativa), la quale si è limitata a una generica doglianza di carenza di motivazione, per avere la sentenza impugnata risolto tale posizione con il richiamo a quella del Fachini e in special modo alla valutazone fatta delle confidenze palesate dal Vettore Presilio.
La motivazione della sentenza impugnata, — che ha tratto le logiche conseguenze dalle conclusioni cui è pervenuta sulla posizione del Fachini e sulle dette rivelazioni —, si integra tuttavia con quella di primo grado. Questa ha chiarito, muovendo da corretti criteri valutativi della prova, che la internità dell'imputato al gruppo facente capo al Fachini e la consapevolezza dell'imminente strage non consentono di dedurre che egli avesse avuto parte nell'ideazione e preordinazione di tale delitto, in mancanza di altri elementi probatori specificamente a lui riferibili.
Pertanto il ricorso va respinto.
3/i. — Analogamente per PAOLO SIGNORELLI i ricorsi delle parti civili (cfr. i richiamati par.fi 4 e 4/c) non risolvono la correttezza metodologica della motivazione dei giudici di merito e non possono in questa sede incidere sul merito della valutazione della prova che ne consegue, tornando a richiamare il ruolo svolto dall'imputato nel movimento eversivo per affermare, con tale elemento generico, la conclusiva integrabilità dell'indicazione che discende dalla testimonianza "de relato" del Nicoletti.
Anche in questo caso quindi i ricorsi vanno respinti.
4. — Sul tema della banda annata va qui richiamato quanto esposto nei par.fi 3/c e 4/b della narrativa della presente, e viene in considerazione, in primo luogo, la censura sul preteso vizio metodologico della sentenza impugnata, la quale avrebbe disatteso — dopo avere condiviso l'impostazione teorica della sentenza di primo grado sui requisiti della fattispecie ex art. 306 c.p. — la rilevanza del criterio induttivo per accertare l'esistenza della banda annata, la sua struttura e, specificamente, il momento soggettivo del reato, che è pur sempre quello di un "affectio societatis", (a parte le varianti relative alle distinte fattispecie criminose contenute nell'art. 306 c.p. ai commi 1 e 2).
La censura non sembra pertinente, perché — pur con espressioni forse non compiutamente chiare — la sentenza impugnata non ha inteso affatto disattendere il metodo di accertamento induttivo per pretendere, come ironicamente si è voluto dai ricorrenti, un atto costitutivo.
Ma ha chiarito che sono probatoriamente utilizzabili quei fatti specifici delittuosi (costituenti i reati particolari dai quali risalire al reato associativo) i quali presentino i caratteri di un'azione collettiva, e che non lo sono viceversa quelli che esprimono iniziative strettamente individuali o comunque episodiche, per ciò stesso di significato anodino rispetto al tema dell'indagine.
Di fatto poi la sentenza è pervenuta alla individuazione della banda armata (così come ha ritenuto siasi configurata in concreto) muovendo fondamentalmente da alcuni delitti specifici, considerati espressione sintomatica dell'avvenuta formazione di un gruppo stabilmente organizzato.
Detto questo, va considerato che il compendio delle articolate censure mosse dai ricorrenti (riassunte sub par.fo 4/b della narrativa) è suscettibile di essere ricondotto a tre ordini di critiche: quello concernente la svalutazione fatta dalla sentenza impugnata — con motivazione carente e inadeguata — della ricostruzione del contesto nel quale si formò e dal quale trasse la sua genesi la banda annata contestata sub capo 2) dell'imputazione; quello concernente l'analisi dei sintomi e dei momenti di collegamento tra il gruppo eversivo romano del Fioravanti e quello veneto dei Fachini; e quello relativo ai rapporti intercorsi tra gli esponenti di rilievo dei due su detti gruppi.
Ora, è vero che la sentenza impugnata, riguardo al primo punto, ripropone quelle stesse carenze di motivazione che si sono indicate sopra sub 3/a, sul diverso tema della riferibilità della strage all'area della destra eversiva, rifuggendo aprioristicamente da un'indagine considerata di rilievo solo storico — cronachistico. È chiaro invece che una analisi delle risultanze probatorie molteplici, (dai documenti ideologici e programmatici, alle plurime dichiarazioni dei terroristi dissociati, ai fatti storicamente accertati), sulla struttura, sull'ideologia e sulla strategia operativa, concretamente realizzatasi nei fatti, delle organizzazioni eversive immediatamente precedenti a quella in esame avrebbero potuto offrire un contributo all'indagine.
Specificamente è significativa la vicenda del movimento di "costruiamo l'azione", nella quale avrebbe avuto parte notevole il FACHINI, pur non essendo emersa la sua partecipazione a fatti delittuosi specifici riferibili a detta organizzazione.
Al riguardo la sentenza impugnata afferma una cesura tra il detto movimento e lo "spontaneismo" dei NAR; ma la conclusione appare tratta da un'insufficiente considerazione dei due movimenti.
Invero è stato chiarito (ma la sentenza impugnata non l'ha adeguatamente considerato) che il fenomeno spontaneista era largamente presente nel movimento "costruiamo razione", che affidava la sua unitarietà alla linea ideologica dell'omonima testata, ma lasciava ampio spazio alla creatività operativa dei gruppi che nella sua linea si riconoscevano.
E che tale linea registrava la presenza di quelle venature sinistrose che poi emergeranno anche nei NAR (cfr. par.fo 3/c della narrativa).
L'analisi sul secondo punto svolta dalla sentenza impugnata elude l'accertamento delle circostanze dei vari episodi (tra questi, particolarmente quelli della fuga di Freda, del progetto di evasione di Concutelli e dell'attentato al giudice Stiz), appagandosi di considerarli genericamente espressioni di intenti e posizioni nascenti da orientamenti culturali e strategie diverse, oppure vaghi disegni circolanti tra i due gruppi che non avevano dato luogo ad alcuna concreta collaborazione.
Sui rapporti tra gli imputati ritenuti esponenti di spicco dei due gruppi (Fioravanti, Signorelli, Cavallini, Fachini) la sentenza impugnata considera con motivazione adeguata le risultanze probatorie acquisite in ordine alle "frequentazioni" Fioravanti - Signorelli, Fachini - Signorelli, Fachini - Fioravanti, in relazione alle quali le censure dei ricorrenti investono in sostanza più il merito della valutazione sul senso di tali rapporti, che non la correttezza e compiutezza della motivazione.
Carenze si evidenziano invece nell'analisi del rapporto Fachini - Cavallini, che trascura la considerazione delle dichiarazioni di Marco Guerra riguardo alla collaborazione del Fachini nel riciclaggio di preziosi rapinati dal Cavallini e dal Giuliani Egidio; le dichiarazioni del Calore e dell'Aleandri sulle forniture di armi ed esplosivo da parte del Fachini ai gruppi eversivi romani, tramite il Cavallini; nonché l'indicativa corrispondenza delle manipolazioni evidenziate nel mitra recuperato sul treno Taranto - Milano con quelle descritte dai due dissociati come presenti in altri tre esemplari di quel tipo di arma, provenienti dal Fachini.
Ma al postutto, va osservato che il compendio delle circostanze richiamate non risolve di per sé univocamente il problema dell'accertamento della formazione di una banda armata quale configurata sub capo 2) dell'imputazione, prospettando, al limite, — come già rilevato —, la possibilità di convergenze progettuali e operative fra i gruppi.
Per cui risulta logicamente corretta la risoluzione della corte di merito che ha privilegiato la considerazione del concorso ricorrente di un gruppo di persone in azioni delittuose collettive, di rilevante significato politico, per pervenire alla conclusione della formazione della banda armata romana del Fioravanti.
Ma in quest'ottica, la necessità sopra evidenziata di un riesame della problematica sulle responsabilità individuali relative ai delitti di strage e degli altri connessi, non può non riaprire logicamente il problema della formazione della cd. banda romano - veneta, alla stregua di quelle che saranno per essere le risultanze del nuovo esame di questa parte della sentenza impugnata, correlate con la rivisitazione approfondita delle emergenze processuali sui tre punti dei quali si è fin qui discorso. E ciò con specifico riguardo alle posizioni del Fachini e del Picciafuoco nonché del Rinani, per il quale, — pur essendo sotto ogni aspetto e per ogni effetto definitiva la decisione di merito sulla sua assoluzione dalle imputazioni di strage e delitti connessi per il rigetto dei ricorsi delle parti civili —, vanno accolti i ricorsi del P.M. e delle parti civili per il capo relativo alla banda annata a causa degli accertati suoi rapporti con il Fachini e, in specie, per le confidenze che egli avrebbe fatto al Vettore Presilio, fortemente sintomatiche della sua estraneità al gruppo eversivo veneto.
4/a. — Va respinto il ricorso del P.M. e delle parti civili nei confronti del Signorelli per il delitto relativo alla banda armata.
La sentenza impugnata non disconosce il ruolo di ideologo e animatore della destra eversiva e i collegamenti, nell'articolata vicenda dei movimenti (per cui cfr. par.fo 3/c della narrativa), con il Fachini e successivamente con il Fioravanti, dopo la comune detenzione con quest'ultimo. Ma rileva che mancano conclusivi elementi per ritenere il coinvolgimento dell'imputato nella banda di cui al capo 2) dell'imputazione.
I ricorsi si richiamano alle vicende precedenti e in particolare a quella di "costruiamo l'azione", — cui in definitiva appaiono riferirsi le risultanze del processo denominato Addis + altri definito allo stato in primo grado —, nonché al coinvolgimento dell'imputato nelle vicende processuali per gli omicidi di Leandri e del s. procuratore di Roma Mario Amato.
Nel par.fo precedente si è osservato come l'approfondimento delle vicende prodromiche alla costituzione della banda possa portare un contributo all'accertamento delle formazione di questa e alla individuazione delle specifiche responsabilità per i relativi delitti di costituzione, organizzazione o partecipazione, ma né all'uno, né all'altra è logicamente possibile pervenire solo sulla base di dette vicende.
Né è conclusivo pretendere una rivisitazione dei fatti dell'omicidio Leandri (dal quale l'imputato è stato assolto e che, peraltro, non è riferibile alla banda armata oggetto di questo giudizio), o di quelli dell'omicidio del dr. Amato, per il quale egualmente la responsabilità del Signorelli è stata definitivamente esclusa.
Sia la sentenza di primo grado che il ricorso dell'avvocatura si richiamano all'attività istigativa che l'imputato avrebbe in quell'occasione svolta, ma il fatto che la sentenza di assoluzione (divenuta definitiva) abbia escluso l'incidenza di questa nella determinazione omicida dei responsabili (in specie del Fioravanti) costituisce un indizio in senso contrario al coinvolgimento del Signorelli nella banda.
In conclusione, le censure dei ricorrenti ripropongono la valutazione di circostanze già valutate dal giudice di merito o si dolgono dell'omessa valutazione di circostanze non decisive.
4/b. — La difesa dei ricorrenti Fioravanti e Mambro ha dedotto due motivi: con il primo osserva che la banda armata configurata dall'imputazione rifletteva un organismo sociale composto da uomini di diversi gruppi di estrazione regionale diversa, avente come oggetto la commissione di una sequenza di attentati e in special modo la strage della stazione di Bologna.
La sentenza impugnata è pervenuta ad affermare la sussistenza di una banda limitata a pochi elementi dell'eversione romana (tra i quali i ricorrenti) alla quale non sono riferibili i "delitti fine" indicati nell'imputazione (ad eccezione dell'omicidio del dr. Amato), ma altri cui concorsero anche altre persone alle quali non è stato contestato il delitto in esame.
D'altra parte la sentenza ha erroneamente ritenuto anche la partecipazione del Giuliani, rimasto fuori da ogni collegamento con gli odierni ricorrenti, mentre ha assunto come dato dimostrativo della sussistenza della banda l'omicidio Amato (unico fra i "delitti fine" indicato nell'imputazione), in relazione al quale la sentenza di condanna pronunciata in altro giudizio aveva ravvisato una semplice ipotesi di concorso ex art. 110 c.p.
L'articolata censura sembra adombrare una violazione dell'art. 477, comma 2°, c.p.p. abrogato, per avere la sentenza impugnata ritenuta la formazione di una banda diversa da quella contestata. È tuttavia agevole osservare che l'avere la sentenza impugnata individuato la banda in un gruppo armato più ristretto dal punto di vista del numero dei componenti e della loro estrazione regionale rispetto a quello contestato, non significa affatto che abbia ritenuto un fatto essenzialmente diverso da quello oggetto dell'imputazione.
Né giova rilevare che la sentenza abbia ritenuto riferibile alla banda individuata il delitto dell'omicidio del dr. Amato (unico fra quelli esemplificativamente indicati nel capo d'imputazione) ed altri delitti commessi tra la fine del 1979 e l'agosto del 1980.
Ai ricorrenti è stato contestato (con l'ordinanza di rinvio a giudizio e il decreto di citazione) di avere promosso, organizzato e diretto una banda armata finalizzata alla commissione di una sequenza indeterminata di attentati contro persone individuate o contro obiettivi personali indeterminati e indiscriminati (delitti previsti dagli art. 280 e 285 c.p.), che avrebbe operato, con particolari accorgimenti di tattica politica (rivendicazioni fittizie, con sigle varie, o del tutto mancanti), sino all'agosto 1980.
La sentenza impugnata non si è discostata da tale fatto nei suoi elementi caratterizzanti ed essenziali (condotta, evento, tempo e modalità operative della banda, suoi fini), ma si è limitata a definire la struttura operativa come composta da una cerchia di persone più limitata rispetto a quella indicata nell'imputazione e collocata in un ambito territoriale più ristretto dal punto di vista della sua formazione.
La indicazione nell'imputazione di taluni delitti riferibili alla banda è puramente e chiaramente esemplificativa, e costituisce un'indicazione secondaria per l'individuazione del fine per il quale la banda venne costituita, che era essenzialmente quello di commettere più attentati (come sopra cennato), riconducibili nelle ipotesi legali incriminatrici previste dagli artt. 280 e 285 c.p.
È appunto una sequenza di simili delitti (seppur, in buona parte, fattualmente, diversi da quelli ipotizzati) la sentenza ha individuato come "delitti fine" concretamente realizzati. Ma non è la specificità fattuale di tali delitti che qualifica il fine della banda in contestazione, bensì la riconducibilità di essi al tipo dei reati che essa, costituendosi, aveva assunto come suo fine, secondo lo schema legale previsto dall'art. 306 c.p., essendo indifferente per la sussistenza del reato, per la sua qualificazione fattuale e la sua valida contestazione, l'individuazione concreta e specifica dei singoli fatti in programma, che neppure i ricorrenti potevano, nel caso, avere definito al momento della commissione del reato, e cioè quello della formazione della banda.
Il rilievo difensivo sull'erroneità del ritenuto concorso del Giuliani Egidio è palesemente inammissibile, perché — non avendo alcuna incidenza del reato ascritto ai ricorrenti — risulta privo di interesse per i ricorrenti stessi.
Irrilevante ancora è la deduzione sul concorso ex art. 110 c.p.; ritenuto in altro giudizio relativo al delitto di omicidio del dr. Amato, perché in quella sede non era in questione l'accertamento del reato di costituzione e organizzazione di banda armata, mentre in questo procedimento quell'episodio è stato assunto (con altri) dal giudice come elemento probatorio dal quale desumere la costituzione della banda armata.
Con il secondo motivo la difesa dei ricorrenti denunzia la violazione dell'art. 90 c.p.p. (1930), osservando che il Fioravanti e la Mambro erano stati già giudicati per il delitto di costituzione e organizzazione di una banda armata (operante in Roma e altrove tra il 1977 e il 12.4.81), con sentenza della corte di assise di appello di Roma, sez.ne I/a 19.4.86 in procedimento Angelini Fulvia e altri.
È stata rilevata (cfr. sopra par.fo 4) la necessità del riesame della genesi e della formazione della banda contestata sub capo 2) dell'imputazione in relazione a una molteplicità di aspetti che qualificano il fatto storico così come contestato e ritenuto. Non può che scaturire dalla definizione di tale fatto (inteso nella sua materialità e nelle sue coordinate temporali e spaziali) il giudizio di incompatibilità con quello accertato in altra sede ai fini dell'individuazione delle condizioni che portano all'affermazione della preclusione ex art. 90 c.p.p.)
Pertanto il motivo in esame deve dichiararsi assorbito nella valutazione rimessa al giudice di rinvio sul problema della banda armata, in quanto da essa dipendente.
4/. — I motivi di ricorso proposti per Cavallini Gilberto non si discostano sostanzialmente da quelli dedotti per i precedenti ricorrenti, osservandosi che le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza riguardo alla responsabilità del Fioravanti e della Mambro riguardo alla strage, avrebbero dovuto portare all'esclusione della banda armata contestata; che essendo rimasto accertato che tale banda non avrebbe operato in Emilia, avrebbe dovuto ritenersi esclusa la competenza dei giudici di Bologna; che è stato violato l'art. 90 c.p.p., essendo stato il ricorrente già giudicato per lo stesso fatto con la sentenza della corte di assise di appello di Roma del 17.6.88 (cd. processo "NAR/2").
Per quanto alla prima censura possa sottendere un problema di correlazione tra la contestazione e la sentenza, si è già detto sopra sub 4/a; per altro verso la deduzione difensiva confonde il problema della prova di responsabilità per i delitti specifici con quello attinente alla dimostrazione della commissione del reato pp. dall'art. 306 c.p.
Sul secondo punto — a parte il rilievo, in linea di principio, che la competenza territoriale va stabilita in relazione al luogo ove la banda si è formata e non a quello in cui essa ha operato — è evidente che nel caso la competenza territoriale dei giudici bolognesi è stata determinata dalla connessione e che il suo radicamento non poteva essere modificato dalle conclusioni cui i giudici sono pervenuti riguardo alla sussistenza e alla responsabilità per i singoli reati devoluti alla loro cognizione.
Per quanto attiene la terza censura, la conclusione non può essere che quella già indicata nel par.fo precedente.
4/c. — La difesa del Giuliani Egidio deduce, a) l'illogicità e contraddittorietà della motivazione, che dopo avere escluso l'esistenza della prova in ordine all'accordo sodale per una banda più vasta (quella cd. "romano - veneta"), è poi pervenuta alla affermazione di un organismo più ridotto; b) carenza di motivazione in ordine al concorso del ricorrente nel delitto di costituzione e organizzazione di banda armata, e alla dedotta prospettabilità del diverso e più lieve reato di partecipazione, avuto riguardo al ruolo che il Giuliani avrebbe svolto; c) carenza di motivazione per il diniego delle attenuanti generiche; d) violazione dell'art. 90 c.p.p. essendo il ricorrente già stato giudicato per lo stesso fatto con la sentenza della corte di assise di appello di Roma 9.6.89 in procedimento c/ Allatta Benito e altri.
Il primo motivo è infondato, non potendosi ravvisare il dedotto vizio di contraddittorietà tra l'esclusione della prova riguardo all'esistenza di un più ampio accordo unificatore degli elementi del gruppo eversivo veneto e quelli del gruppo romano del Fioravanti, e la dichiarata esistenza di quest'ultimo desunta, tra l'altro, da una sequenza di specifici attentati a esso riferibili, denunzianti l'esistenza di un compatto organismo operativo armato. Si è già visto sopra, per altro aspetto, come l'estensione dell'organizzazione a un maggior numero di persone, non implica una diversità ontologica del fatto - reato e delle sue circostanze essenziali.
In relazione al secondo punto oggetto di censura la motivazione della sentenza impugnata (conclusivamente conforme a quella di 1° grado) si salda con la motivazione di questa delineando, — attraverso gli stretti rapporti tra il ricorrente e il Cavallini, e la disponibilità del primo ad assicurare al gruppo armi, esplosivi e documenti falsi —, il ruolo svolto dal ricorrente nel sodalizio. Le critiche difensive si risolvono in un inammissibile apprezzamento di fatto delle circostanze già congruamente valutate dai giudici di merito.
Il terzo motivo è dedotto in termini generici con inammissibile riferimento alle deduzioni svolte in appello.
Per quanto poi concerne la denunziata violazione dell'art. 90 c.p.p., si rimanda a quanto osservato sopra sub 4/a.
5. — Prima di passare all'esame delle censure dei ricorsi del procuratore generale e delle parti civili relativamente alle parti della sentenza concernenti le imputazioni di associazione per fine di terrorismo e di eversione dell'ordine costituzionale (art. 270 bis c.p.) e di calunnia aggravata dalla finalità di eversione, — per le quali viene in questione la posizione dell'imputato Licio Gelli —, va affermata la correttezza giuridica della soluzione data dalla sentenza impugnata alla questione, sollevata dalla difesa di detto imputato, circa l'esercizio della giurisdizione per fatti anteriori alla data dell'estradizione e diversi da quelli per i quali l'estradizione è stata concessa (cfr. sopra il par.fo 3/a della narrativa).
Va al riguardo richiamata la sentenza di queste S.U. 21.4.89 (cc. 28.2.89) ric. Nigro, con la quale è stato ritenuto che il principio di specialità, riaffermato nel primo comma dell'art. 14 della convenzione europea di estradizione (firmata a Parigi il 13.12.57 e ratificata con L. n. 300/63) non preclude in assoluto l'esercizio della giurisdizione per i fatti su citati da parte dello Stato richiedente, bensì una serie di limitazioni all'esercizio dei poteri giurisdizionali.
Per espressa deroga, contenuta nel comma secondo del citato art. 14, è consentito adottare "le misure necessario in vista sia di un eventuale allontanamento del territorio (dell'estradato), sia di una interruzione della prescrizione... ivi compreso il ricorso ad un procedimento contumaciale".
Ora non v'è dubbio che nel caso — per il fine cennato di evitare la prescrizione e per l'eventuale richiesta di estradizione suppletiva — bene è stata ritenuta dalla sentenza impugnata la procedibilità del giudizio nei confronti del Gelli.
5/a. — Riguardo al tema dell'accertamento della sussistenza dell'associazione ex art. 270 bis c.p., quale configurata nel capo 1) dell'imputazione e delle relative responsabilità, va richiamato qui quanto esposto sub par.fi 3/b e 4/a della narrativa per ciò che concerne i contenuti della sentenza impugnata e i motivi di doglianza dei ricorrenti P.M. e parti civili rappresentate dall'avvocatura di Stato.
Il punto nodale delle diffuse e articolate censure dei ricorrenti (in buona parte sovrapponibili e per le quali è severamente denunziata in vario modo la motivazione della sentenza impugnata) è dato dall'assunto che — attraverso la svalutazione atomistica dei molteplici elementi probatori desumibili dai documenti, dai rapporti intercorsi tra gli imputati, dalle vicende degli attentati verificatisi nel Paese nell'arco di circa undici anni e dei relativi procedimenti, e dalle dichiarazioni dei terroristi dissociatisi —, la corte di merito avrebbe mancato di cogliere la prova dell'accordo associativo realizzatesi tra le diverse esponenti del complesso sodalizio criminoso, e in specie, tra i singoli imputati di questo processo.
E viceversa, i comportamenti sostanzialmente omologhi tenuti — pur in tempi diversi e in distinte molteplici occasioni — dai qualificati esponenti dei servizi di sicurezza deviati (tutti iscritti alla loggia P/2), e la provata esistenza di particolari rapporti tra costoro e gli esponenti più eminenti del movimento eversivo - terroristico, sarebbero tali da dimostrare la sussistenza di un accordo associativo formatosi fattualmente attraverso la protratta sperimentazione reciproca delle rispettive condotte.
Tale assunto costituisce certamente una censura di merito sulla valutazione conclusiva delle risultanze probatorie, valutazione che accomuna le decisioni di primo e secondo grado nella sostanziale considerazione ultima che la pluriennale vicenda su cennata è inidonea a dimostrare, in termini di certezza, la sussistenza di un patto sociale delinquenziale.
Pur muovendosi nell'analisi dei fatti e delle altre risultanze probatorie in un'ottica valutativa diversa, i giudizi di primo e secondo grado hanno finito per condividere l'apprezzamento conclusivo di fondo che la vicenda storica delle interferenze nelle indagini, delle coperture dei responsabili degli attentati stragisti e dei rapporti tra uomini di apparati dello Stato ed esponenti del terrorismo, può anche essere riferita (secondo i giudici di prima istanza), o è più attendibilmente riferibile (secondo la sentenza impugnata) a un fenomeno di convergenze di interessi e di conseguente contiguità nell'azione, prescindendo da un accordo associativo infine non dimostrato.
La ragione di tale conclusione sta essenzialmente nella stessa complessità del quadro storico - politico dentro il quale la sequenza delle vicende dell'eversione nell'arco di un decennio ha avuto come protagonisti uomini e movimenti terroristici diversi, da una parte, e persone e strutture statali pur diverse dall'altra. Sicché la costante del ripetersi del fenomeno delle interferenze devianti nelle indagini giudiziarie e delle coperture, e i rapporti intercorsi tra gli uomini delle diverse componenti, — che costituiscono il dato sintomatico dal quale si dovrebbe risalire, secondo i ricorrenti, all'accordo associativo ipotizzato nella imputazione —, lascia invece, ragionevolmente, spazio alla concreta alternativa possibile di convergenze tattiche strumentali nell'ambito di strategie politiche eversive distinte, quando non addirittura contrapposte negli obiettivi ultimi.
Nella prospettiva critica accusatoria dei ricorrenti vengono segnalati alcuni dati significativi, che sarebbero stati omessi o travisati dalla sentenza impugnata.
In primo luogo, l'adesione alla loggia P/2 di tutti gli esponenti dei servizi di sicurezza compromessi nell'opera di interferenza nelle indagini per le stragi e di copertura dei responsabili; e la scelta di favorire solo i responsabili di quei fatti che — per avere conseguito l'obiettivo di cagionare la morte e/o il ferimento di più persone — avevano avuto una forte risonanza emotiva nell'opinione pubblica, che strumentalmente doveva essere utilizzata per fini eversivi di svolta autoritaria e anticostituzionale, e non appagata dall'individuazione e dalla punizione dei colpevoli.
Tale strategia, che privilegiava più la copertura dell'attentato che degli attentatori, costituirebbe la espressione della gestione politica degli attentati, che si sarebbe articolata in due momenti: prima dell'attentato, favorendone la realizzazione, e dopo, coprendone i responsabili.
In secondo luogo, quell'articolata rete di collegamenti facente capo al Gelli e che ha stretto al gran maestro della P/2, da un canto, taluni ufficiali dei servizi di sicurezza, e dall'altro gli esponenti dei movimenti eversivi, particolarmente il Signorelli, il Fachini, il criminologo Semerari e il Delle Chiaie.
Sul primo dato, va osservato che le censure dei ricorrenti, pur dolendosi dell'incapacità della sentenza impugnata di cogliere a pieno il senso della strategia della gestione politica delle stragi e il suo modo di articolarsi, non individuano un solo caso in cui — secondo la loro prospettazione — i servizi di sicurezza abbiano dolorosamente e specificamente favorito preventivamente la consumazione di un attentato, rendendosene in buona sostanza complici.
La vicenda dell'omessa valorizzazione della denunzia contro Luciano Franci per detenzione di esplosivi prima della strage del treno "Italicus" e prima dell'attentato lungo la linea ferroviaria nei pressi di Terontola, e le connesse circostanze processuali segnalate, (a parte la loro rilevanza sintomatica ambigua) non risultano comunque riferite ai servizi di sicurezza, ma ad organi ordinari di polizia giudiziaria.
Il silenzio e l'inerzia caduti sul rapporto Spiazzi del luglio del 1980 da parte del SISDE, e l'interesse del col. Belmonte per Taranto (ove era stato allestito il rifugio del Fioravanti, cfr. par.fo 3/e della narrativa) e per una ripresa dei contatti con il m.llo Sanapo dello stesso periodo, sono circostanze dalle quali gli stessi ricorrenti non traggono più di un calcolato disinteresse dei servizi alla crescita del movimento eversivo e dei pericoli connessi (compresi quelli di non segnalare i movimenti del Fioravanti in Taranto).
Dunque la teorizzata gestione preventiva degli attentati si risolveva al più in una generica, dolorosa inerzia nell'attività doverosa di prevenzione nei confronti dell'eversione, la quale non coinvolgeva comunque i servizi nei singoli fatti prima che accadessero.
Il conseguimento del fine associativo prospettato nell'imputazione attraverso il duplice strumento della "realizzazione di attentati" e "il loro controllo e la loro gestione politica" (cfr. capo 1 dell'imputazione), alla stregua delle risultanze processuali, si sarebbe attuato allora solo attraverso il secondo mezzo, cioè quello definito come il secondo momento della gestione politica dei fatti delittuosi stragisti. Il che, se per un verso dà ragione della notazione dei ricorrenti sulla selezione operata nel dare le coperture solo nel caso di avvenimenti utilizzabili politicamente secondo l'ottica degli agenti P/2isti dei servizi; per altro verso, porrebbe anche in crisi la stessa concreta configurabilità della fattispecie prevista dall'art. 270 bis c.p. sotto un duplice profilo.
Il primo è quello del dubbio sull'accordo sociale — ritenuto dai giudici di merito — che apparirebbe almeno problematico in un contesto ove gli esponenti dei vari ed eterogenei movimenti eversivi avrebbero dovuto condividere lo strumentale abbandono dei loro "camerati" operativi, anche di rilievo, compromessi in attentati considerati politicamente non utilizzabili. E la problematicità del fatto discende ancor più dalla particolarità che, nella contestazione, a due imputati (Signorelli e Fachini) sono stati ascritti congiuntamente i reati di associazione per fine di terrorismo ed eversione, di banda armata e di strage.
Il secondo è quello che discende dal fatto che la ipotesi criminosa edittale dell'art. 270 bis c.p. prevede come oggetto dell'accordo sociale il "compimento di atti di violenza con fine di eversione" e non il favoreggiamento dei responsabili di simili atti decisi altrove e autonomamente attuati.
Riguardo al secondo dato, la sentenza impugnata si discosta, come si è accennato, dall'ottica valutativa dei giudici di 1° grado sull'apprezzamento dei fatti concernenti la fitta trama dei rapporti intercorsi tra il Gelli e gli ambienti e gli uomini dei servizi di sicurezza da un lato, e taluni esponenti del terrorismo dall'altro.
Il giudice di appello, infatti, ha ritenuto più elementi del complesso quadro probatorio, di attendibilità meno affidabile rispetto a quanto aveva considerato la corte di primo grado.
Ma al di là di questo, non si può disconoscere come, attraverso un ben più rigoroso percorso, i giudici di 1° grado siano pur pervenuti alla sostanzialmente identica conclusione dei giudici di appello, e cioè che il tessuto dei rapporti, aventi come punto alto di riferimento il Gelli, e quei ricorrenti collegamenti tra uomini dei servizi ed esponenti diversi delle componenti, niente affatto omogenee, dell'area del terrorismo, rimangono pur sempre inadeguati a fondare l'obiettivo convincimento che tra gli imputati di questo giudizio si sia potuto concretizzare un accordo associativo del tipo di quello contestato.
Lo sforzo dei ricorrenti di rivisitare analiticamente i dati valutati, ripercorrendo la storia dell'ascesa del Gelli nella P/2; l'evoluzione della sua strategia dalle compromissioni con i tentativi golpisti alla più sottile progettazione di una conquista del potere, per così dire, interna al regime costituzionale, ma pur sempre eversiva; e i collegamenti elaborati con l'eversione, il mondo politico - economico e gli ambienti dei servizi di sicurezza nazionali e sudamericani, si risolve infine in un'indebita censura di fatto mirante a proporre in questa sede un apprezzamento dei fatti e delle prove diverso da quello dei giudici di merito.
E lo stesso dicasi per tutta l'altra gamma di rapporti e vicende coinvolgenti gli altri imputati del delitto di associazione ex art. 270 bis c.p.
L'accusa privata si è doluta dell'omessa valutazione di vari elementi e del diniego di riapertura del dibattimento per sviluppare ancora l'indagine sui cennati rapporti. Ma la doglianza è irrilevante perché la considerazione dei dati non valutati o non acquisiti ne evidenzia la non essenzialità nell'economia del giudizio. Invero, neppure attraverso di essi era possibile sciogliere il dilemma di fondo tra una complessa trama di contiguità, rapporti e compromissioni tattiche sottesa alla realizzazione di disegni politici non omogenei, e la concretizzazione di un organismo sociale concepito come sede pensante e di elaborazione strategica sovrastante al magma delle diverse spinte eversive.
I ricorsi, in conclusione, vanno respinti.
5/b. — II procuratore generale ha proposto ricorso nei confronti del Pazienza in ordine al reato di concorso nella costituzione e organizzazione di associazione ex art. 270 bis c.p., rilevando la nullità della sentenza impugnata per l'omissione, nel dispositivo, di qualsiasi pronunzia nei confronti di questo imputato. La difesa dello stesso, a sua volta, ha proposto ricorso, chiedendo l'integrazione correttiva del dispositivo ai sensi dell'art. 149 c.p.p.; avuto riguardo al contenuto della motivazione.
La nullità della sentenza, derivante dalla disposizione dell'art. 475 n. 4 c.p.p., non è ovviabile nel caso con il procedimento di correzione, per costante giurisprudenza. Considerando, tuttavia, la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata, che ha prosciolto tutti gli imputati dal detto reato perché il fatto - reato non sussiste, il rilevato vizio di nullità comporta nella specie l'annullamento senza rinvio con la declaratoria dell'insussistenza del fatto, ai sensi dell'art. 539 n. 9 c.p.p. Tale declaratoria è invero estensibile logicamente all'imputato senza necessità di alcuna valutazione di fatto, sicché il rinvio risulterebbe superfluo.
6. — Riguardo all'imputazione di calunnia aggravata vengono in considerazione i ricorsi degli imputati Musumeci e Belmonte (cfr. par.fi 3/f e 4/f della narrativa) e il ricorso del procuratore generale nei confronti dei predetti e degli imputati Gelli e Pazienza (cfr. par.fo 4/d della narrativa).
Le difese del Musumeci e del Belmonte hanno riproposto in questa sede la questione concernente la revoca della richiesta del decreto di citazione, già presentata al presidente del tribunale di Bologna, da parte del P.M.; la nuova richiesta presentata al presidente della corte di assise della stessa sede e il decreto di citazione per il giudizio emesso dallo stesso presidente, (cfr. par.fo 3/a della narrativa).
Le censure difensive al riguardo rilevano, a) la violazione degli artt. 185 n. 2 e 74, comma 1, c.p.p. (1930). Con la revoca della richiesta del decreto di citazione, — non consentita, per il divieto di regressione del procedimento, salvi i casi previsti dalla legge —, e la proposizione di una nuova al presidente della corte di assise, il P.M. avrebbe esercitato una seconda volta per il medesimo reato l'azione penale, con ciò incorrendo in un vizio di inesistenza o comunque di nullità della seconda richiesta e conseguentemente del decreto di citazione; b) la violazione degli artt. 74, 396, 29, 30 c.p.p., per avere il P.M. proposto la richiesta del decreto di citazione a un giudice incompetente per materia; né varrebbe a sanare l'inesistenza o la nullità assoluta dell'atto, l'obiettivo perseguito di ottenere la riunione del procedimento con altro per ragioni di connessione, perché questo poteva e doveva essere fatto in altra forma e in altro momento processuale; c) la violazione dell'art. 185, n. 1 c.p.p. per la emissione del decreto di citazione da parte di un giudice funzionalmente incompetente, essendo a ciò legittimato solo il presidente del tribunale di Bologna; d) la nullità del decreto di citazione emesso dal presidente della corte di assise in violazione delle norme regolatrici della competenza per materia.
Il tema della revocabilità della richiesta del decreto di citazione è stato risolto dalla giurisprudenza di questa corte in maniera contrastante, ma nell'economia del presente giudizio il nodo da sciogliere non è questo bensì quello della validità della seconda richiesta.
Escluso che possa parlarsi di inesistenza giuridica dell'atto (estrema forma di invalidità riservata ai casi di atti inidonei a porre in essere il rapporto processuale, perché compiuti da persone prive di qualsivoglia legittimazione o per altre cause similmente radicali), neppure è possibile ravvisare nella specie la nullità denunziata.
La norma dell'art. 185 n. 2 c.p.p. prevede la sanzione per la violazione delle disposizioni concernenti l'iniziativa del P.M. nella promozione e nell'esercizio dell'azione penale, e la sua partecipazione al procedimento, investendo con ciò tutti i casi in cui si dia una carenza di iniziativa o di intervento dello stesso P.M., e non quelli in cui ci sia stato un esubero o una reiterazione di iniziativa, suscettibile di dar luogo non ad una declaratoria di nullità, ma semmai (ricorrendone i presupposti) di improcedibilità dell'azione, come è desumibile dalla disposizione dell'art. 90 c.p.p.
Né comporta vizio di nullità della richiesta il fatto che essa sia stata presentata a un organo giurisdizionale non competente, perché ciò darà luogo semmai alla declaratoria di incompetenza da parte del giudice erroneamente adito, ma non inficia la validità dell'atto in sé, dotato di tutti i requisiti intrinseci richiesti dalla legge.
Per ciò che poi attiene all'altro verso del problema, e cioè quello della validità del decreto di citazione emesso dal presidente della corte di assise (posto con le censure riassunte sub c) d), va intanto osservato che la proposizione della richiesta di citazione o del tribunale di emettere il decreto, essendo egli (e non la corte o il tribunale) funzionalmente competente a tale adempimento per il quale dalla richiesta è vincolato.
Ciò è desumibile chiaramente dalle disposizioni degli artt. 405, comma 2° e 406, comma 1°, c.p.p. e costituisce punto fermo in giurisprudenza (cfr. per tutte cass. sez. 2/a, 16.2.79, Muscerino, riguardo alla competenza funzionale, e corte cost.le, sentenza n. 96 del 1975 per l'obbligatorietà dell'emissione del decreto in seguito alla richiesta).
È stato autorevolmente ritenuto in dottrina (ed è condivisibile) che il presidente abbia il potere/dovere di verificare preliminarmente se la richiesta proviene da organo legittimato o da P.M. competente. E altresì, che può essere verificata, in sede di atti preliminari al giudizio, la competenza per materia quando ciò non comporti una valutazione del fatto e una valutazione della qualificazione del reato (come ricordato nel ricorso per il Musumeci) ma in tale ultimo caso, va precisato, che la determinazione non può essere assunta dal presidente, bensì con sentenza, dall'organo giurisdizionale collegiale.
Conclusivamente, non può essere condivisa l'affermazione difensiva che unico organo competente funzionalmente alla emissione del decreto fosse, nel caso, il presidente del tribunale, perché a fronte della richiesta del P.M. il presidente della corte era vincolato all'emissione dell'atto, salvo la verifica delle condizioni su cennate, sul concorso delle quali non poteva sussistere dubbio alcuno nella specie.
Quanto alla questione della competenza per materia, — delibabile comunque e conclusivamente dal collegio e non dal presidente in sede di emissione del decreto di citazione —, va infine rilevato che in presenza di evidenti (e non contestate) ragioni di connessione, il presidente della corte non poteva esimersi dal considerare (ai sensi dell'art. 413 c.p.p.) l'opportunità della riunione dei procedimenti. Né la corte avrebbe potuto, a questo punto, disconoscere la propria competenza per connessione solo in virtù dell'assunta irritualità del procedimento per il quale il giudizio era stato trasferito dal tribunale.
Giova invero al riguardo ricordare, a confutazione della dedotta violazione, quanto affermato dalla corte cost.le con la sentenza n. 117 del 1972, per cui la connessione costituisce un criterio ragionevole per la determinazione della competenza nei caso indicati dalla legge, e il giudice che prende cognizione del procedimento in forza della disciplina sulla connessione stessa è pur esso giudice naturale, precostituito per legge. E d'altra parte, il simultaneus processus giovava alla speditezza del giudizio, al migliore accertamento dei fatti, alla coerenza della decisione e all'interesse delle parti e in specie dell'imputato.
Pertanto le censure dei ricorrenti vanno respinte.
6/a. — La difesa del Musumeci ha dedotto un ulteriore motivo, osservando che la sentenza impugnata ha omesso di considerare che gli appunti presentati dall'imputato "brevi manu" (cfr. par.fo 3/f della narrativa) e le altre informative contenevano la riserva esplicita che le notizie dovevano essere verificate. Da ciò sarebbe stato agevolmente deducibile la mancanza del dolo del delitto di calunnia, consistente nella volontà di accusare con la consapevolezza dell'innocenza della persona incolpata.
Riguardo alla calunnia reale (collegata alla cd. operazione "terrore sui treni", cfr. ancora il richiamato par.fo 3/f), la difesa osserva che l'imputato rimase estraneo ad ogni contatto con il m.llo Sanapo, salvo un fuggevole incontro, e si rimise interamente al suo dipendente col. Belmonte.
Il motivo così dedotto è inammissibile, risolvendosi in una generica censura di fatto.
La motivazione della sentenza impugnata è integrabile sul punto con quella della sentenza di primo grado considerati il richiamo della prima alla seconda e l'uniformità delle conclusioni. Il quadro che ne emerge complessivamente evidenzia, attraverso una compiuta analisi, le seguenti circostanze: a) il metodo capzioso della complessiva azione di depistaggio articolata in informative contenenti notizie vere frammiste ad altre volutamente false; b) la saldatura tra la preliminare e successiva azione informativa e l'operazione della collocazione della valigia sul treno Taranto - Milano, riferibili, secondo gli stessi imputati Musumeci e Belmonte, a un unica "fonte", chiaritasi inesistente; c) la coordinazione delle condotte degli imputati (Musumeci e Belmonte) fra loro e con quella del gen.le Santovito (deceduto), massimo esponente ufficiale del SISMI, al fine di conseguire il fine unico della complessa azione deviante.
La condotta calunniatrice si realizzò dunque in forma articolata, unitaria e subdola, tale da determinare la possibilità del procedimento nei confronti degli incolpati, al di là delle riserve formulate. Tanto è sufficiente a integrare la materialità del delitto di calunnia (cfr., fra le tante, cass. sez. 6/a 6.12.85, Tripodi; sez. I/a 22.4.87, Bellavia). Le modalità di una siffatta azione implicano per necessità logica la consapevolezza nell'imputato della innocenza degli incolpati.
L'unitarietà dell'azione rende indifferente la circostanza che i contatti con il Sanapo siano stati materialmente tenuti dal Belmonte, posto che questo era solo un aspetto di un'operazione complessa, gestita, anche direttamente, dall'imputato (si ricordino le informative "brevi manu" recapitate ai magistrati inquirenti e la missione da lui compiuta a Brindisi l'8.1.8l alla vigilia dell'inizio dell'operazione della collocazione della valigia sul treno Taranto - Milano, insieme a Belmonte).
Il ricorso del Musumeci deve, in conclusione, essere respinto.
6/b. — La difesa del Belmonte ha dedotto i seguenti ulteriori motivi: a) omesso esame delle censure esposte in appello sulla ritenuta veracità della testimonianza del m.llo Sanapo, per le quali sarebbe rimasta dimostrata la mancanza nell'imputato della consapevolezza di accusare persone innocenti; b) omesso esame di circostanze decisive relativamente alla ritenuta aggravante ex art. 61 n. 2 c.p., contesta in relazione alla presunta finalizzazione della condotta calunniatrice alla copertura dei responsabili della strage del 2.8.80.
In ordine al primo motivo ne va rilasciata l'inammissibilità, poiché esso si risolve sostanzialmente in un generico richiamo ai motivi di appello (cfr. per tutte, cass. 14.3.88, Schilirò).
Va peraltro richiamato qui quanto osservato nel paragrafo precedente riguardo alle modalità della complessa, una unitaria condotta di calunnia e di depistaggio, — emergente dalla complessiva motivazione dei giudici di merito —, dalle quali discende in termini inequivocabili la consapevolezza degli agenti di sottoporre agli inquirenti informative sulla responsabilità di persone che essi sapevano estranee alla strage.
Il secondo motivo fa leva in sostanza sulla circostanza che — secondo il progetto — la valigia con le armi, i documenti e l'esplosivo, avrebbe dovuto essere rintracciata alla stazione di Ancona. In tal modo il caso sarebbe caduto sotto la giurisdizione dell'autorità giudiziaria di Ancona, la quale ignorava delle coincidenze dei nominativi indicati nei documenti contenuti nella valigia con quelli segnalati nelle precedenti informative.
Il fatto che si vuole decisivo appare, viceversa palesemente irrilevante, non essendo affatto ipotizzabile che nel contesto delle indagini e dell'istruzione in corso per la strage, il fatto clamoroso del rinvenimento della valigia — contenente esplosivo di tipo identico a quello usato nella strage stessa — rimanesse circoscritto all'attenzione della sede giudiziaria locale.
La deduzione difensiva trascura ancora, d'altra parte, il carattere unitario dell'articolata operazione di depistaggio nel quale l'episodio della valigia si inseriva come un tassello dell'annunciata scoperta della cd. operazione "terrore sui treni".
Anche il ricorso del Belmonte va pertanto respinto.
6/c. — In ordine all'esclusione dell'aggravante di avere agito per finalità di eversione e terrorismo, contestata in relazione al delitto di calunnia agli imputati Musumeci e Belmonte, viene in considerazione il ricorso del P.M., il quale ha osservato che la sentenza impugnata, — limitandosi a recepire il risultato minimale acquisito nel processo definito dalla corte di assise di appello di Roma il 14.3.86 —, ha trascurato di compiere una corretta indagine sulle reali finalità della condotta degli imputati, risolvendo il suo compito con una valutazione atomistica delle risultanze probatorie.
Il ricorso deve essere accolto, apparendo in effetti l'iter argomentativo della motivazione della sentenza impugnata inquinato da contraddizioni e illogicità, mentre denunzia al contempo la carenza di un esame complessivo delle risultanze processuali.
La sentenza impugnata, — che, come si è visto nei par.fi immediatamente precedenti, ha riconosciuto la responsabilità degli imputati per avere calunniato persone sapute innocenti con il fine di depistare il corso delle indagini sulla strage —, è pervenuta all'esclusione dell'aggravante in questione fondamentalmente sulla base di tre considerazioni.
Con la prima, pur riconoscendo condivisibile l'assunto dei primi giudici sulla ricorrenza, in un notevole arco di tempo, del fenomeno delle ingerenze depistanti nelle indagini per delitti di strage ad opera di esponenti dei servizi di sicurezza, osserva che però non è possibile individuare con certezza quale sia stato l'interesse sotteso ad ogni singola condotta illecita, che di volta in volta spinse i relativi autori all'azione.
Con la seconda rileva che, non potendosi inserire la condotta degli imputati nel contesto di attuazione di un programma delinquenziale riferibile ad una associazione con finalità di eversione (la cui sussistenza è stata esclusa), per ciò stesso rimane priva di un supporto essenziale la tesi che gli imputati abbiano agito per fine di eversione.
Con la terza infine, osserva che le false informazioni e incolpazioni, pur se riferibili all'intento di fuorviare le indagini relative a un delitto di terrorismo, non potevano ritenersi tuttavia idonee solo per questo ad essere ricondotte alla finalità di sovversione dell'ordine democratico.
Riguardo alla prima considerazione va rilevato che la sentenza impugnata, — muovendo dalla dichiarata diffidenza per l'analisi del contesto storico - politico in cui si è verificato il fatto delittuoso —, riconosce tuttavia che esso è stato preceduto da una sequenza di fatti consimili. Ma approda all'apodittica affermazione che non è possibile accertare quali siano stati gli interessi sottesi a tali fatti, e in ultima analisi abdica così alla verifica di possibili collegamenti tra il fatto in esame e i precedenti. E così rinunzia ulteriormente all'accertamento di possibili utili dati per stabilire la genesi, la causa e il movente del fatto sottoposto alla sua cognizione.
Come già osservato sopra sub par.fo 3/a non è qui in discussione la scorrettezza del metodo del giudice che — si abbandoni alla formulazione di "teoremi" storico - politici sulla base di elementi ambigui e congetturali. È viceversa in questione la doverosità di saggiare — con il metodo rigoroso dell'accertamento giudiziale — l'attendibilità indicativa di tutte quelle circostanze accertate che direttamente possono consentire la definizione del contesto in cui il fatto si è verificato, per un esatta comprensione di esso.
La seconda considerazione, — richiamandosi alla accertata insussistenza di prova adeguata a dimostrare la convergenza degli uomini degli apparati P/2isti dei servizi di sicurezza e di taluni qualificati esponenti dell'eversione in un'associazione ex art. 270 bis. c.p. (cfr. sopra sub par.fo 5/a) —, regista per ciò stesso il venire meno di qualsiasi possibilità di ritenere il contestato movente eversivo della calunnia.
L'assunto è illogico, perché la finalizzazione del fatto non è pregiudizialmente e necessariamente legata all'essere stati gli imputati partecipi di una associazione come quella contestata, essendo concretamente prospettabile una condotta con fini eversivi anche al di fuori di legami di tipo associativo.
E al riguardo la sentenza trascura di considerare che in altra parte dell'esame della complessa materia del giudizio ha pur riconosciuto la riferibilità delle condotte degli uomini dei servizi segreti all'esistenza di contiguità di azione e di convergenze tattiche con gli esponenti del terrorismo. Per conseguenza, prima di concludere attribuendo una rilevanza decisiva all'esclusione dell'associazione in relazione al tema dell'indagine, avrebbe dovuto verificare se il concorso dell'aggravante in questione non trovasse la sua genesi in quell'incontro di interessi sotteso alle contiguità e convergenze di condotte, anche se queste non potevano ritenersi espressione di previe intese riferibili a un legame associativo o un accordo preventivo specifico.
Riguardo alla terza considerazione, la sentenza impugnata ha ritenuto che la consapevolezza da parte degli imputati della incidenza della loro condotta calunniosa sul corso delle indagini relative a un fatto delittuoso di natura terroristico - eversiva non implichi per ciò stesso che il movente della loro azione sia stato quello eversivo. Considerato che la sentenza della corte di assise di appello di Roma 14.3.86 aveva definitivamente accertato la responsabilità degli imputati Musumeci e Belmonte, in relazione alla stessa vicenda, per il delitto di peculato (anche per una rilevante somma), ha escluso il concorso dell'aggravante di cui all'art. 1 del dl. n. 625/79, ravvisando il movente di lucro.
Tale soluzione trascura la valutazione di due serie di circostanze rilevanti: la prima concerne il contesto nel quale si concretizzò la condotta delittuosa, e di questo si è già detto sopra.
La seconda attiene alla stessa vicenda della condotta integrante la calunnia, che la sentenza impugnata ha ritenuto, come si è visto, essersi certamente articolata in una complessa operazione avente come obiettivo il depistaggio delle indagini e, infine, il favoreggiamento delle persone inquisite, tanto che non ha avuto dubbi nel ritenere il concorso dell'aggravante ideologica in relazione al delitto di calunnia contestato.
Ora, la considerazione di tale aspetto della vicenda — eventualmente correlata con il tema del concorso nel reato del Gelli e del Pazienza (oggetto del paragrafo che segue) — impone un approfondimento dell'indagine che colmi le lacune cennate, e dunque porta all'annullamento della sentenza anche per questa parte, con nuovo esame in sede di rinvio alla stregua dei criteri cennati.
La doglianza del P.M. sul riconoscimento del condono previsto da D.P.R. n. 744/81 rimane assorbita dall'accoglimento del motivo concernente l'esclusione dell'aggravante della finalità di terrorismo e di eversione.
6/d. — Sul tema del concorso del Gelli e del Pazienza nel delitto di calunnia il ricorrente procuratore generale rinnova la sua censura di fondo sull'analisi dei fatti condotta in modo carente, illogico e frazionato, tale da non consentire poi di risalire alla loro valutazione sintetica.
Ora, fermo quanto detto sub par.fo 3 riguardo al metodo di valutazione della prova indiziaria o logica, va osservato che effettivamente la sentenza impugnata presenta lacune di analisi e frammenta talora i fatti che prende in esame al punto di perdere la possibilità di cogliere il senso anche individuale, prima che complessivo.
V'è una dichiarata pregiudiziale enunciazione di metodo che espunge dal contesto in esame tutta una serie di risultanze, le quali viceversa debbono essere prese in considerazione per pervenire in modo appagante alla conclusione, quale sarà per essere.
La sentenza impugnata muove dalla preliminare censura della decisione di primo grado, che avrebbe indebitamente valorizzato gli elementi di giudizio relativi al tema della sussistenza dell'associazione eversiva per dimostrare il concorso del Gelli e del Pazienza nella calunnia. Ciò partendo dal pregiudizio della funzionalità reciproca dei reati di calunnia e associazione, talché la trama calunniatrice sarebbe stata finalizzata a proteggere la componente eversiva del supposto sodalizio, e questo avrebbe avuto come suo obiettivo quello di proteggere gli eversori - terroristi.
In secondo luogo, la sentenza impugnata avverte che la considerazione dell'ascendenza massonica del Gelli e il prestigio e l'influenza acquisiti dal Pazienza nell'ambito dei servizi non può risolvere il problema del loro concorso nel delitto di calunnia.
Sul primo punto, sembra che avendo i primi giudizi escluso, in buona sostanza, l'esistenza di una prova esaustiva del sodalizio, non potevano logicamente (né concretamente si ritiene che l'abbiano fatto) considerare poi tale reato in rapporto funzionale con quello di calunnia (e viceversa).
Altra cosa è invece la doverosa valorizzazione di ogni elemento offerto dal quadro processuale, che sia comunque ritenuto utile a portare un contributo al chiarimento e all'accertamento del tema oggetto dell'indagine, al di là di preconcetti teoremi.
E al riguardo si torna a dire che l'esame del contesto in cui il fatto - reato di calunnia si è verificato e i suoi antefatti (e ci si riferisce alla sequenza di contiguità e tattiche convergenze che pur la sentenza impugnata ha riconosciuto) non possono essere pretermessi aprioristicamente, ma ne va saggiata la rilevanza ai fini della comprensione approfondita del fatto in esame.
Sul secondo punto, è esatto che la, pur riconosciuta, ingerenza del Gelli e del Pazienza nella gestione degli apparati dei servizi di sicurezza non costituisce in sé un dato probatorio decisivo a loro carico per dimostrare il concorso nella calunnia. Ma è tuttavia un elemento di fondo che va tenuto presente nell'esame delle circostanze direttamente riferibili a questo tema per il loro congruo apprezzamento, e che viceversa la sentenza — dopo averlo ammesso — sembra averlo voluto esorcizzare, considerandolo come un fatto generico totalmente non significante.
Tanto premesso, va osservato che la sentenza impugnata considerando congiuntamente la posizione del Gelli e del Pazienza in rapporto al delitto di calunnia, prende in esame, in un primo approccio, tre circostanze: a) la pubblicazione dell'articolo di Lando Dell'Amico sul n.ro del 1.9.80 del notiziario dell'"agenzia repubblica" relativamente alle indagini in corso per la strage, con il quale si criticava l'apprezzamento rivolto al SISDE, che aveva fornito in realtà solamente poco significative notizie di archivio sul neofascismo eversivo italiano; b) la pubblicazione di poco successiva dell'articolo "la grande ragnatela" del giornalista Barberi sul diffuso rotocalco "Panorama", preceduta da ripetuti incontri del giornalista con il gen. Santovito — capo del SISMI —, il Pazienza e il col. Giovannone, nel corso dei quali furono mostrati al Barberi fascicoli riservati del servizio; c) l'incontro tra il Gelli e il dr. Cioppa, funzionario del SISDE, e gli apprezzamenti critici espressi dal primo sull'abbrivio preso dalle indagini (anche per il contributo del SISDE stesso) verso l'area del neofascismo eversivo italiano (cfr. per tutto il par.fo 3/f della narrativa).
Nella valutazione dei tre episodi la sentenza conclude in sostanza per la loro irrilevanza specifica e per la non collegabilità di essi con la vicenda successiva dell'operazione calunniosa. Riguardo al primo osserva come a parte ogni altra considerazione, la limitata tiratura del notiziario poco si prestasse alla divulgazione di una critica alle iniziative del SISDE (e a quelle degli inquirenti), critica che peraltro riflettevano opinioni già circolanti altrimenti.
Sul secondo rileva che esso fu l'espressione di un'operazione di salvaguardia dell'immagine del SISMI, in quel momento offuscata, in nessun modo collegabile con l'operazione successiva di depistaggio, anche perché l'indicazione che se ne poteva trarre era quella, cara al Pazienza, che il vero pericolo fosse nel territorio di sinistra e nei suoi collegamenti con le iniziative destabilizzanti provenienti dai Paesi dell'Est europeo.
In merito al terzo, si trattò di un episodio insignificante e non collegabile agli altri due, né a quelli successivi, in cui il Gelli — sollecitato dal Cioppa — si limitò a esprimere un'opinione, del resto non esclusivamente sua in quel momento.
L'analisi — come rilevato dal ricorrente — presenta aspetti di illogicità e omette di considerare, incorrendo anche in contraddizioni, taluni momenti di collegamento tra i tre episodi.
La sentenza riconosce esatto l'assunto dei primi giudici che sia l'articolo del Dell'Amico che quello del Barberi furono promossi dalla regia del Pazienza, ma da ciò non trae alcuna conseguenza, sicché i fatti sono separatamente valutati e considerati — per diverse ragioni — non rilevanti.
In realtà, il collegamento tra essi già avrebbe posto in crisi l'argomento della limitata diffusione del notiziario (riguardo alla quale si sarebbe anche dovuta considerare la qualità). Ma avrebbe pur creato qualche problema alla tesi dell'innocuo fine propagandistico perseguito dal Pazienza con l'affare Barberi.
Sono trascurati due dati significativi: il primo, che il gen. Notarnicola — comandante della prima divisione — riconobbe nell'articolo del Barberi spunti tratti da un voluminoso rapporto destinato al Governo che la sua divisione aveva dovuto redigere in tutta fretta su richiesta del gen. Santovito coinvolgendo l'opera dell'intero suo ufficio, già impegnato per ciò che riguardava la strage; il secondo, che ad almeno uno degli incontri tra il Barberi, il capo del SISMI e il Pazienza, prese parte il col. Giovannone, coartefìce rilevante nella costruzione della cd. "pista libanese", la quale proprio il 19.9.80 (dunque in quello stesso torno di tempo) riceveva il suo primo impulso con l'intervista di Abu Ayad (esponente dell'OLP) al Corriere del Ticino, e che costituirà il prologo dell'operazione informativa depistante successivamente posta in essere dal P/2ista Musumeci, con un'ingerenza anomala nel settore di attività del responsabile della 1/a divisione.
Quanto all'analisi dell'episodio Gelli - Cioppa, la valutazione della sentenza prescinde dal ruolo influente del primo, in quel tempo, nell'ambito del SISDE e dall'ascendente diretto che egli aveva nei confronti del Gen. Grassini, da una parte; e dalla militanza P/2istica del Cioppa (come dello stesso Grassini).
Sicché le considerazioni che il colloquio fosse stato sollecitato dal Cioppa e che il Gelli non avesse espresso più che un'opinione non sua esclusiva, risultano infine sorrette da un apprezzamento lacunoso del fatto, il quale trascura dati rilevanti non meno della stessa circostanza che, comunque, dopo quel colloquio l'impegno nelle indagini da parte del SISDE, — riprendendo la linea che l'aveva portato a trascurare il rapporto Spiazzi e gli altri segnali allarmanti della minacciosa crescita dell'eversione nera prima della strage —, si inaridì.
Rileva ancora la sentenza che è rimasto non spiegato l'interesse per il quale il Gelli avrebbe espresso quell'opinione, ma una risposta a tale interrogativo, prima di approdare al "non liquet", avrebbe dovuto colmare la lacuna dell'analisi sulla singolare contestualità della manifestazione di quell'opinione con l'iniziativa del Pazienza; e sulla linea strategica del Gelli per acquisire il controllo del potere dall'interno delle istituzioni, alla quale sarebbe potuto tornare congeniale il discredito di queste in conseguenza di un nuovo, ennesimo fallimento nella ricerca degli autori di una grave strage.
In questo quadro una diversa e più approfondita considerazione avrebbero potuto avere la vicenda del criminologo Semerari e l'intervento del Pazienza all'incontro all'aeroporto di Ciampino.
La presenza dell'imputato a quell'incontro è risolta con la causale coincidenza che costui tornava appunto con il gen. Santovito dalla Francia, ove si era prestato ad agevolare un miglioramento dei contatti con i servizi di sicurezza di quel Paese. La conclusione potrebbe essere appagante se non lasciasse in ombra la considerazione dei rapporti di stretta collaborazione (e addirittura di condizionante ascendente) che il Pazienza aveva verso il Santovito, da una parte; e se non trascurasse di rispondere, per altro verso, all'interrogativo sul perché a quell'incontro, — nel quale si concluse un momento saliente dell'operazione della valigia sul treno —, il gen. Notarnicola fu espressamente convocato, quando infine l'informativa lì consegnatagli avrebbe potuto essergli rimessa altrimenti, eventualmente accompagnata con le direttive dello stesso Santovito.
D'altro canto, — semmai non di casuale episodio si fosse trattato, ma di uno studiato incontro tra i vertici del SISMI con la significativa presenza del Pazienza —, la sua valutazione avrebbe dovuto essere allora collegata alle vicende cui sopra si è accennato, per le quali l'articolata operazione di inquinamento delle indagini — prima di approdare alla clamorosa iniziativa della valigia sul treno — avrebbe trovato un discreto avvio con l'imbeccata di ipotesi di piste diverse ai mass - media, con l'espressione di un'"autorevole opinione" (insistentemente ricercata), per evolversi quindi nella trasmissione di informative agli inquirenti ed infine risolversi nella cennata operazione.
Dalle considerazioni ora ricordate la sentenza passa alla valutazione di due ordini di circostanze: quelle indirettamente o direttamente relative al possibile ruolo svolto dal Pazienza nella specifica operazione della valigia, e quelle sui rapporti tra il Gelli e il Pazienza.
Dell'ascendente del Pazienza nel SISMI si è detto; più pregnante è il tema della valutazione che riguarda la testimonianza del m.llo Sanapo, là dove, nel riferire le informazioni del Belmonte, chiama direttamente in questione l'imputato, come persona autorevole del servizio che, essendo a capo di una rete spionistica internazionale, doveva essere coperta attraverso l'invenzione di una "fonte".
La sentenza impugnata richiama le dichiarazioni del Sanapo quali riferite nella decisione di 1° gr. e che definisce "allusive" al Pazienza, e conclude che la testimonianza non può avere alcuna apprezzabile valenza, perché non è dato stabilire quanto delle confidenze fatte dal Belmonte al Sanapo (e da costui riferite) sia stato frutto di invenzione ed enfatizzazione da parte del primo per soddisfare la curiosità del secondo e assicurarsene la compiacenza.
Intanto va rilevato che le dichiarazioni del Sanapo, riferite secondo la sentenza di primo grado al Pazienza sono allusive al personaggio solo inizialmente, nel senso che il teste avrebbe detto di avere intuito trattarsi dell'imputato argomentando dalle indicazioni dategli dal Belmonte. Ma in un secondo momento — ha sottolineato la stessa sentenza dei primi giudici —, il teste avrebbe rivelato chiaramente che nel settembre del 1983 il Belmonte gli aveva apertamente riferito che il personaggio al quale in precedenza aveva solo fatto allusione in modo ambiguo, era proprio l'imputato.
Il giudice di appello — non dubitando dell'attendibilità del Sanapo, ma mostrando di non avere compiutamente presente la testimonianza di costui — risolve il problema delle rilevanza del contenuto della deposizione, di decisivo rilievo, semplicemente ipotizzando che il Belmonte fosse pervenuto alla indicazione del Pazienza inventando ed enfatizzando, così svuotando di ogni interesse la sua informazione.
Una tale argomentazione si rivela generica e apodittica, perché non spiega per quale ragione il Belmonte avrebbe dovuto fare gratuitamente il nome del Pazienza — che sino a quel momento aveva taciuto — quando (era il settembre 1983) ormai l'operazione della valigia era stata da tempo conclusa ed egli si mostrava al Sanapo solo seriamente preoccupato che con l'avvento dei nuovi superiori del SISMI la fonte e la rete spionistiche, espressioni del lavoro di più anni, venissero annullate.
Sui rapporti tra il Gelli e il Pazienza la sentenza impugnata perviene alla conclusione di escluderli, analizzando criticamente taluni elementi con argomentazioni inadeguate.
Al di là della controversa deposizione della Lazzerini — amante del Gelli — sono screditati una serie di elementi probatori, quali: a) la dichiarazione di Michele Sindona (al quale il Pazienza avrebbe fatto profferta di aiuto quale amico di Gelli); b) quella del Barberi (al quale il Pazienza avrebbe confidato di essersi adoperato per il salvataggio "massonico" del Gelli dopo la scoperta delle liste di Castiglion Fibocchi, pur protestando di non conoscerlo e di avere agito per conto di altri); c) la collocazione massonica del Pazienza; d) il conflitto emerso in seguito tra i due imputati.
Sul primo dato la sentenza osserva che "non si comprende perché si deve credere al Sindona e non al Pazienza, che ha smentito di avere detto quanto l'altro gli attribuisce", e che riesce poco credibile che il Sindona si fosse rivolto al Pazienza quando aveva a disposizione il più comodo e diretto canale P/2ista.
Ora, risolvere il problema dell'attendibilità di due dichiarazioni fra loro contrastanti sottintendendo che — data l'ambiguità dei due autori di esse — il giudice può scegliere a piacer suo fra l'uno e l'altro, è un dare spazio non ad un motivato giudizio, ma all'arbitrio. E la carenza di motivazione non è risolta dall'accenno alla possibilità che il Sindona avrebbe potuto rivolgersi al Gelli altrimenti.
La valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni processuali rilevanti — da qualunque parte provengano — esige un'analisi che non può arrestarsi alla sommaria considerazione della personalità dei dichiaranti, ma esige un'attenzione ai rapporti tra essi intercorsi, agli interessi che li possono avere mossi a dire o a negare, ai moventi che li possono avere spinti e in definitiva a tutte le circostanze rilevanti nelle quali le dichiarazioni sono state rese.
L'improbabilità di un'iniziativa del Sindona presso il Gelli tramite il Pazienza è solo uno dei dati concreti, ma non certo risolutivo, che avrebbe dovuto concorrere alla complessa verifica dell'attendibilità dell'uno e dell'altra dichiarazione.
In ordine alla testimonianza del Barberi non risulta chiara la valutazione che il giudice di appello ha fatto della sua attendibilità. È chiaro invece che il contenuto della confidenza del Pazienza — quale riferita dal giornalista — non è stato affatto valutato nella sua credibilità, essendosi il giudice appagato dell'affermazione dell'imputato di avere soccorso il Gelli per conto di altri, escludendo a priori ogni problematico interrogativo sul possibile interesse dell'imputato a prendere le distanze da un personaggio come il Gelli, allora screditato non meno del Sindona del caso precedente.
La collocazione massonica del Pazienza è ritenuta estranea alla loggia P/2, perché l'imputato era stato affiliato alla massoneria di Palazzo Giuliani "all'orecchio del gran maestro" e perché il suo nome non figura nelle liste di Castiglion Fibocchi. Manca però la sentenza di analizzare la vicenda della militanza massonica dell'imputato, esaminata dalla commissione parlamentare e approfondita dalla sentenza di primo grado, dalla quale si evince come, da un certo momento in poi, il gran maestro di Palazzo Giustiniani avesse delegato al Gelli la cura dei "fratelli" chiamati massoni "a memoria" o "all'orecchio".
Riguardo alla circostanza sul punto d), è ben vero in generale che una situazione conflittuale può insorgere tra persone che non si conoscono. Ma nella sentenza impugnata la circostanza non è approfondita onde saggiare se concretamente essa si sia realizzata in termini tali da pervenire a questa conclusione.
In definitiva, anche tale aspetto del più ampio problema della valutazione degli elementi molteplici che possono ricondurre gli imputati nell'ambito del concorso nell'azione di depistaggio e calunnia posta in essere dal Musumeci e dal Belmonte, appare sorretto da una motivazione complessivamente inadeguata e, in taluni punti, del tutto carente.
Anche per questa parte della sentenza si impone pertanto l'annullamento e il rinvio per un nuovo esame che approfondisca tutti gli elementi processuali acquisiti (e quelli che, eventualmente, si dovesse ritenere indispensabile acquisire), compiendone una valutazione esaustiva.
7. — Le spese di questo giudizio di cassazione vanno poste solidalmente a carico degli imputati Musumeci e Belmonte e delle parti civili provincia di Bologna, e coniugi Vale - Garofoli. Per le altre parti e per il resto la imputazione e la liquidazione delle spese va rimessa, anche per questo grado del procedimento," al giudice di rinvio che vi provvederà in conseguenza delle sue determinazioni.
A carico dei predetti imputati e parti civili va, separatamente, posto l'obbligo del versamento della somma di lire 500mila a favore della cassa delle ammende.
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P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite Penali ha pronunciato la seguente sentenza:
1) DICHIARA inammissibili:
a) i ricorsi delle parti civili Provincia di Bologna, Vale Umberto e Garofoli Anna Antonia;
b) i ricorsi delle parti civili Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero degli Interni, Ministero di Grazia e Giustizia ed Ente Ferrovie dello Stato nei confronti di Raho Roberto e Iannilli Marcello;
c) i ricorsi del Procuratore Generale, delle parti civili rappresentate dall'Avvocatura dello Stato, della parte civile Regione Emilia Romagna nei confronti di Melioli Giovanni;
d) il ricorso della parte civile Regione Emilia Romagna nei confronti di Ballan Marco.
2) ANNULLA senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Pazienza Francesco, nel capo relativo alla imputazione di cui al reato previsto dall'art. 270 bis c.p. perché il fatto non sussiste.
3) ANNULLA la sentenza impugnata:
a) nei confronti di Fioravanti Giuseppe Valerio, Mambro Francesca. Fachini Massimiliano e Picciafuoco Sergio, nei capi relativi ai reati di strage, omicidio plurimo, porto illegale di esplosivo, lesioni personali volontarie ed attentato ad impianti di pubblica utilità;
b) nei confronti del Fachini, del Picciafuoco e di Rinani Roberto nel capo relativo al reato di banda annata;
c) nei confronti di Gelli Licio e Pazienza Francesco nel capo relativo al reato di calunnia;
d) nei confronti di Belmonte Giuseppe e Musumeci Pietro nel punto relativo all'esclusione della circostanza aggravante di cui all'art. 1 legge n. 15/80, contestata in relazione al reato di calunnia;
e) RINVIA per nuovo giudizio nei confronti dei predetti imputati e sui capi e punti sopra precisati ad altra sezione di Corte di Assise di Appello di Bologna.
4) RIGETTA:
a) i ricorsi di Fioravanti, Mambro, Cavallini Gilberto e Giuliani Egidio, dichiarando assorbiti i motivi relativi alla violazione dell'art. 90 c.p.p.;
b) i ricorsi di Musumeci e Belmonte;
c) nel resto i ricorsi del Procuratore Generale, delle parti civili rappresentate dall'Avvocatura dello Stato, della Regione Emilia Romagna, del Comune di Bologna e di Bolognesi Paolo.
5) CONDANNA in solido al pagamento delle spese del processo Musumeci, Belmonte, Provincia di Bologna, Vale e Garofoli, nonché ciascuno al versamento di £ 500.000 alla Cassa delle Ammende.
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Roma, 12 febbraio 1992
IL PRESIDENTE
Ferdinando ZUCCONI GALLI FONSECA
IL CONSIGLIERE ESTENSORE
Umberto FELICIANGELI
Depositato in Cancelleria
li 04 GIU. 1992
IL CANCELLIERE
IL DIRETTORE DI CANCELLERIA
(Carlo Navacci)
92
Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980
c/o Comune di Bologna - P.zza Maggiore, 6 - 40124 Bologna (IT) - Tel. +39 (051) 253925 - Fax. +39 (051) 253725 - Cell. +39 (338) 2058295
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