Sentenza processo d'Appello

I condannati in 1° grado per depistaggio sono tutte persone iscritte a logge massoniche e Licio Gelli è, come si è detto, il Gran Maestro della loggia massonica P2.

Il Generale Pietro Musumeci e il Colonnello Giuseppe Belmonte sono alti ufficiali del S.I.S.M.I. servizio segreto militare

Nell’estate del 1989 l’avvocato di parte civile Roberto Montorsi incontra Licio Gelli e passa dalla parte degli imputati tradendo la fiducia che gli era stata accordata.

Subito si scatena una campagna che cerca di squalificare tutto il lavoro dei magistrati, dell’Associazione e del Collegio di Parte Civile.

Vi fu una campagna di stampa martellante che per tutta l’estate fino all’apertura del processo d’appello ( ottobre 1989), prendendo le difese dell’avvocato, considerava l’inchiesta frutto di un teorema, e di un intrigo del partito comunista.

L’Associazione fu accusata di fare un’attività di spionaggio cercando di far passare come illecita la sua attività di informatizzazione degli atti del processo.

Questa fu la preparazione del processo d’Appello, il clima di tutto il procedimento risentì di quella situazione.

Il processo d’Appello iniziò nell’ottobre 1989 la sentenza fu emessa il 18 Luglio 1990.

TUTTI ASSOLTI DALL’ACCUSA DI STRAGE.

Da segnalare: il Procuratore Generale aveva chiesto l’appesantimento delle pene.

La sentenza fu definita dall’Associazione una Provocazione.

Immediata presa di posizione dell’M.S.I. che chiese la cancellazione dalla lapide presso la stazione di Bologna della scritta “Strage Fascista”

Il Presidente del Consiglio Andreotti si disse d’accordo ed il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga chiese ufficialmente scusa all’M.S.I..
 

N. R.RIC.C. N. R.SENT.

N. R.GEN.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA II^ CORTE DI ASSISE DI APPELLO DI BOLOGNA

composta dai Signori :

 

1.

dott.

Pellegrino

IANNACCONE

PRESIDENTE

2.

dott.

Antonio

ESTI

CONSIGLIERE

3.

sig.

Marzia

FOSI

GIUD.POPOL.

4.

sig.

Sandro

BRIASCHI

"

5.

sig.

P. Luigi

GENTILINI

"

6.

sig.

Marta

PREVIATI

"

7.

sig.

Francesco

FUSCA’

"

8.

sig.

Silvana

VENTURELLI

"

 

 

Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza odierna dal dott. Antonio ESTI

Intesi gli appellanti, il Pubblico Ministero dott. Gianfranco QUADRINI ed i difensori, ha pronunziato la seguente

 

S E N T E N Z A

nella causa penale

C O N T R O

1) BALLAN MARCO, n.16/5/1944 a Milano, residente a Sesto San Giovanni, via Gramsci 463

- libero - presente -

2) BELMONTE GIUSEPPE, n.18.3.1929 a Napoli. elettivamente domiciliato in Marino, via dei Laghi Km.8.600

- libero - contumace -

3) CAVALLINI GILBERTO, n.26.9.1952 a Milano, attualmente detenuto presso la Casa di Reclusione di Spoleto

- detenuto - presente –

4) DE FELICE FABIO, n.13.7.1927 ad Alessandria, residente a Poggio Catino, via Gioia 5/7

- libero - contumace –

5) DELLE CHIAIE STEFANO, n.13.9.1936 a Caserta-Centurano, residente in Roma, via M.D.Rossi 35

  •  

     

    • libero - presente –

6) FACHINI MASSIMILIANO. n.6.8.1942 a Tirana. residente a Padova

- libero - presente -

7) FIORAVANTI VALERIO, n.28.3.1958 a Rovereto, detenuto presso la Casa Circondariale Nuovo Complesso Rebibbia-Roma

- detenuto - presente -

8) GELLI LICIO, n.21.4.1919 a Pistola, residente Arezzo, via S.Maria delle Grazie 14, località Villa Vanda

- libero - contumace -

9) GIORGI MAURIZIO, n.29.7.1943 a Roma, ivi residente, via Tiburtina 595

- libero - contumace -

10) GIULIANI EGIDIO, n.3.5.1955 a Sora, detenuto presso la Casa di Reclusione di Spoleto

- detenuto - assente -

11) HUBEL KLAUS FRIEDRIK. n.12.1.1962 a Bopfingen, ivi elettivamente domiciliato 7085/Wurtt Harstsfeldstrasse 4

- libero - contumace -

12) MAMBRO PRANCESCA. n.25.4.1959 a Chieti,

detenuta presso la Casa Circondariale Nuovo Complesso Rebibbia Femminile - Roma

- detenuta - presente -

13) HELIOLI GIOVANNI, n.20.6.1952 a Rovigo,

ivi residente, via Miani 37

- libero - presente -

14) MUSUMECI PIETRO, n.18.5.1920 a Catania, residente a Marino, via dei Laghi Km.8.600

- libero - contumace -

15) PAZIENZA FRANCESCO, n.17.3.1946 a Monteparano, residente a Lerici, località Catene n.19-La Serra

- libero - presente -

16) PICCIAFUOCO SERGIO, n.11.11.1945 a Osimo, detenuto a Prato

- detenuto - presente -

17) RAHO ROBERTO, n.17.1.1952 a Treviso, ivi residente, via Terraglio 55

- libero - contumace -

18) RINANI ROBERTO, n.7.8.1947 a Padova, ivi residente via Dignano 2/a

- libero - presente -

19) SIGNORELLI PAOLO, n.14.3.1934 a Roma, domiciliato in Località Marta, via di Terra Rossa

- libero - presente -

20) TILGHER ADRIANO, n.1.10.1947 a Taranto, residente in Roma. via di Villa Ada n.27/9 sc.F

 

I M P U T A T I

Procedimento penale n.12/86 R.G.

GELLI LICIO, MUSUMECI PIETRO, BELMOMTE GIUSEPPE, DE FELICE FABIO, SIGNORELLI PAOLO, FACHINI MASSIMILIANO, DELLE CHIAIE STEFANO, TILGHER ADRIANO, BALLAN MARCO, GIORGI MAURIZIO :

1) del delitto p. e p. dall'art.270 bis C.P. per avere costituito, promosso, organizzato con ruoli e funzioni diverse, un'associazione sovversiva con fine di eversione dell'ordine democratico, da conseguire mediante la realizzazione di attentati o comunque mediante il loro controllo e la loro gestione politica nell'ambito di un progetto teso al condizionamento degli equilibri politici espressi nelle forme previste dalla Costituzione ed al consolidamento del potere di forze ostili alla democrazia, progetto nel quale rientrava necessariamente la copertura e la garanzia della impunità agli autori degli attentati sotto richiamati, tra i quali quello alla stazione di Bologna del 2.8.1980.

In Bologna, in Roma ed altre località del territorio nazionale in epoca antecedente e

successiva al verificarsi della strage del 2.8.1980.

 

SIGNORELLI PAOLO, FACHIMI MASSIMILIAMO, RINANI ROBERTO, FIORAVAMTI VALERIO, MAMBRO FRAMCESCA, PICCIAFUOCO SERGIO, CAVALLINI GILBERTO, GIULIANI EGIDIO, RAHO ROBERTO. MELIOLI GIOVANNI:

2) del delitto p. e p. dall'art.3906 C.P. perchè costituivano, promuovevano ed organizzavano in Roma, Milano, Bologna, nel Veneto ed in altre zone del territorio nazionale, una banda armata diretta alla realizzazione di una serie di attentati dinamitardi indiscriminati (libreria Feltrinelli di Padova del 25 luglio 1980; Palazzo Marino in Milano del 29 luglio 1980) di competenza di altre Autorità giudiziarie, e contro la stazione di Bologna del 2.8.1980; nonché attentati contro persone (l'On.Tina Anselmi, in Castelfranco Veneto 1'8.3.1980; progetto di uccisione di un magistrato di sede giudiziaria veneta fra la fine del 1979 e 1'agosto-settembre 1980; assassinio del dott.Mario Amato del 23.6.1980). da non

rivendicare, ovvero da rivendicare con sigle fuorvianti di "sinistra"; organizzazione armata, ritagliata all’interno di altre formazioni eversive neo-fasciste che agivano sotto sigle diverse (Movimento Rivoluzionario Popolare-M.R.P.; Nuclei Amati Rivoluzionari - N.A.R.; Terza Posizione - T.P.; Costruiamo l'Azione;

Comunità Organiche di Popolo - C.O.P. ed altre), con legami ed obiettivi in parte ignoti agli stessi appartenenti alle medesime sigle sopra indicate, banda destinata a realizzare con l'uso di armi ed esplosivi delitti contro la personalità dello Stato ed il suo ordinamento democratico.

Cessato in Bologna fino a tutto l'agosto 1980.

 

SIGNORELLI PAOLO, FACHINI MASSIMILIANO, RINANI ROBERTO, FIORAVANTI VALERIO, MAMBRO FRANCESCA, PICCIAFUOCO SERGIO :

3) del delitto di cui agli artt.110, 285, 422 C.P. perché in concorso tra di loro e con persone da identificare, allo scopo di attentare alla sicurezza interna dello Stato, commettevano un

 

fatto diretto a portare la strage nel territorio nazionale, concertando, promuovendo, deliberando, organizzando e rispondendo per l'esecuzione, il porto e la collocazione di un ordigno esplosivo nella sala d'attesa di seconda classe della stazione FF.SS. di Bologna, con il preventivato voluto fine di uccidere (tenuto conto della potenzialità dell'ordigno e dell'ora dello scoppio - 10,25 - del primo sabato di agosto nel più importante scalo ferroviario nazionale) un numero elevatissimo di persone, oltreché di ferirne molte altre, cagionando in effetti la morte di 85 persone.

Condotta iniziata in località imprecisata e cessata in Bologna il 2.8.1980;

4) del delitto p. ep. dagli artt. 81 cpv.,

110, 575, 577 n.3 C.P., art. 1 D.L. 15.12.1979 n.625, perché in concorso tra di loro e con persone da identificare, con le condotte sopra descritte, cagionavano la morte, o istantanea o derivante dalle gravissime lesioni, delle seguenti persone. Agostini Natalia, Ales Vito, Alganon Mauro, Abati Maria Idria, Barbaro Rosina, Basso Nazzareno, Bergianti Euridia, Bertasi

Katia, Betti Francesco, Bianchi Paolina, Bivora Verdiana, Bonora Argeo, Bosio Anna Naria, Bouduban Breton Ireno, Bugamelli Viviana, Burri Sonla, Caprioli Davide, Carli Velia. Casadei Flavia, Castellaro Mirco, Ceci Antonella, Gomezz Martinez Prancisco, Dall'Olio Franca, De Marchi Roberto, Diomede Fresa Francesco, Diomede Fresa Vito, Di Paola Antonino, Di Vittorio Mauro, Draumard Brigitte, Ebner Berta, Ferretti Lina, Fornasari Mirella, Fresu Angela, Frigero Enrica, Gaiola Roberto, Galassi Pietro, Gallon Manuela, Geraci Eleonora, Gozzi Carla, Kolpinski Andrew Jor, Langonelli Vincenzo, Lascala Francesco Antonio, Laurenti Pierfrancesco, Lauro Salvatore, Lugli Umberto, Mader Eckart, Mader Kai, Maner Elisabetta, Marangon Mariangela, Marceddu Rossella, Marino Angelina, Marino Domenica, Marino Leoluca, Marzagalli Amorveno, Mauri Carlo

e Mauri Luca, Messineo Patrizia, Mitchell Katherine Helen, Molina Loredana, Montanari Antonio, Natali Milla, Olla Livia, Patruno Giuseppe, Procelli Roberto, Remollino Pio Carmine, Roda Gaetano, Rors Marget, Ruozzi Romeo, Sala Vincenzina, Salvagnini Anna Maria, Secci

Sergio, Sekiguchi Iwano, Seminara Salvatore, Serravalle Silvana, Sica Mario, Tarzi Angelica, Trolese Marina, Vaccaro Vittorio, Venturi Fausto, Verde Rita, Zappalà Onofrio, Zecchi Paolo, Petteni Vincenzo, Fresu Maria e Priore Angelo;

5) del delitto p. e p. dagli artt.110 C.P., 4 L.2.10.1967 n.895 mod. dall'art. 12 L.14.10.1974 n.497, con l'aggravante del l'art.1 D.L. 15.12.1979 n.625 per avere, in concorso tra loro

e con persone da identificare, fatto collocare, nella sala di attesa di seconda classe della stazione centrale di Bologna delle FF.SS. un ordigno esplosivo, al fine di commettere il delitto sub 3).

In Bologna il 2 agosto 1980;

6) del delitto p. e p. dagli artt. 110 C.P., 81 cpv, 582, 583 C.P., n.1 D.L. 15.12.1979 n.625 perché, in concorso tra di loro e con persone da identificare, con la condotta di cui sopra, cagionavano ad oltre 150 persone lesioni personali multiple, tra le quali alcune di durata superiore ai 40 giorni, aggravate dalla sussistenza di postumi permanenti ed esposizione a pericolo di vita.

In Bologna il 2 agosto 1980;

7) del delitto p. e p. dagli artt. 110 C.P., 635 in relazione all’art.625 N.7 C.P. perché in concorso tra loro e con persone da identificare, con la condotta di cui sopra, cagionavano la distruzione di una importante porzione degli impianti ferroviari di Bologna e la parziale distruzione di materiale rotabile, con gravissimo danno patrimoniale delle Ferrovie dello Stato, nonché arredi e beni privati.

In Bologna il 2 agosto 1980;

8) del delitto p. e p. dagli artt.81 cpv., 110, 420 pp' e cpv. C.P. (come modificato con art.1 D.L. 21.3.1978 N.59) perché in concorso tra di loro e con persone da identificare, collocavano e/o facevano collocare l'ordigno allo scopo di danneggiare gli impianti ferroviari di Bologna determinandone il grave danneggiamento e la distruzione delle sale di attesa.

In Bologna il 2 agosto 1980

HÙBEL KLAUS FRIEDRIK:

9) del delitto p. e p. dall'art.372 C.P. perché deponendo come teste innanzi al G.I. di Bologna il 20 e 21.1.1982 taceva circostanze a

lui note in ordine alle quali veniva interrogato. In Bologna il 20/21.1.1982

GIORGI MAURIZIO

10) del delitto p. e p. dagli artt.110 C.P., ari.10 L.14.10.1974 M.497 per avere in concorso tra loro detenuto senza autorizzazione una pistola cal.7,65 Beretta;

11) del delitto p.e p. dall'art.23 L.110/75 per avere detenuto la pistola di cui al capo 10) munita di silenziatore e con matricola abrasa;

12) del delitto p. e p. dall’art. 110, 648 C.P. perché ricevevano o acquistavano la pistola di cui al capo 10) provento di rapina:

In Roma il 7 aprile 1982

PICCIAFUOCO SERGIO

13) del delitto p. e p. dall'art.498 C.P. per avere fatto ai sanitari dell'Ospedale Maggiore di Bologna, incaricati di pubblico servizio, che redigevano certificato medico per le lesioni da lui riportate in occasione dell'attentato alla stazione di Bologna, mendaci dichiarazioni circa la propria identità personale asserendo chiamarsi Vallati Enrico, nato a Roma l'11.11.1945 e ivi residente via Gregorio VII n.39.

In Bologna il 2 agosto 1980

Con la recidiva specifica reiterata infraquinquennale per Picciafuoco Sergio.

Con la recidiva reiterata infraquinquennale per Delle Chiaie Stefano e Ballan Marco.

Con la recidiva specifica per Giorgi Maurizio.

Con la recidiva per Fioravanti Valerio, Raho Roberto, Giuliani Egidio e Melioli Giovanni.

 

Procedimento penale n. 13/86 R.G.

PAZIENZA FRANCESCO:

del delitto p. e p. dall'art.270 bis C.P., per avere, in concorso con Gelli Licio, Musumeci Pietro, Belmonte Giuseppe, De Felice Fabio, Signorelli Paolo, Fachini Massimiliano, Delle Chiaie Stefano, Tilgher Adriano, Ballan Marco, Giorgi Maurizio, costituito, promosso, organizzato con ruoli e funzioni diverse, un'associazione sovversiva con fine di eversione dell'ordine democratico, da conseguire mediante la realizzazione di attentati o comunque mediante il loro controllo e la loro gestione politica nell'ambito di un progetto teso al

condizionamento degli equilibri politici espressi nelle forme previste dalla Costituzione ed al consolidamento del potere di forze ostili alla democrazia, progetto nel quale rientrava necessariamente la copertura e la garanzia della impunità agli autori degli attentati richiamati nel procedimento penale contro Pedretti Darlo ed altri definiti con sentenza-ordinanza 14.6.1986 tra i quali quello alla stazione di Bologna del 2.8.1980.

In Bologna, in Roma ed altre località del territorio nazionale in epoca antecedente e successiva al verificarsi della strage del 2 agosto 1980.

 

Procedimento penale n. 2/87 R.G.

MUSUMECI PIETRO - BELMONTE GIUSEPPE - PAZIENZA FRANCESCO - CELLI LICIO

i primi tre: Musumeci Pietro, Belmonte Giuseppe, Pazienza Francesco:

a) del delitto p. e p. dagli artt.1 L.6.2.1980 n.15; 9, quarto comma L.24.10.1977 n.801; 112 n.1, 81 cpv. 48, 61 n.2 e 9, 368, 2° comma C.P. perché in concorso fra di loro e con

altre persone non ancora identificate con più azioni esecutive di un identico disegno criminoso, ai fini di eversione dell'Ordine democratico e di assicurare la impunità agli autori della strage verificatasi in Bologna il 2 agosto 1980 e agli autori dell'attentato del 13 gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti alla funzione pubblica che essi svolgevano in qualità di esponenti del SISMI, simulando il realizzarsi di un insieme di reati di natura eversiva, inducendo in errore il Comando Generale dell'Arma, la UCIGOS, il Capo della Polizia, i vari organi di P.G. che avevano l'obbligo di riferire le informazioni ricevute all'A.G. bolognese e direttamente i magistrati che indagavano sulle responsabilità degli autori della strage del 2 agosto 1980 e di coloro che avevano collocato l'esplosivo e le armi rinvenute sul treno espresso 514 in Bologna il 13 gennaio 1981, incolpavano falsamente di tali reati, facendo in tal modo dirottare le indagini su false piste estere, le seguenti persone, pur

sapendole innocenti:

Macca Antonio, Marletta Eduardo, Santi Carla, militanti ETA collegati ai primi, tutti autori del furto di 8 q.li di esplosivo avvenuto in Spagna il 26 luglio 1980. Hartmut Frigger, Ericson del Gruppo VMO (Vlande Moviment Orde), Batansa Henri de11'ETA, Frederikson Mark, capo della FANE, Bragaglia Maurizio, capo del Nucleo Combattenti Rivoluzionari centro-sud, Affatigato Marco, Klinger Rudolf del Gruppo Hoffmann, Stephan Faber del Gruppo Hoffmann di Ingolstad, Behle Alter Verich del Gruppo Hoffmann di Nettetal Niederrhaein, Rolich Horst del Gruppo Hoffmann di Heidelberg, di anni 50, Robert Funk del Gruppo Hoffmann di Norimberga di anni 25, certo Philippe del gruppo FANE, Jean Luc-Dechaund del Gruppo FANÉ residente a Parigi, Ian Tron Long del gruppo FANE residente a Parigi, Vihin Tron Long {fratello di Ian) del gruppo FANE residente a Parigi, Philippe Potigny del gruppo FANE residente in Lille vico d'Ariz 28, Mark Frederiksen del gruppo FANE nato a Nois, Philippe Davi, capo della FANE di Parigi, tal Jacques della FANE, Peter Villorin italo francese

residente in Svizzera, Wi11iam Apikian nato in

Irak, naturalizzato canadese, di circa 40 anni, sposato a cittadina tedesca a nome Erdelt Annerole, che vive a Parigi, capo del Villorin che dirige gli attentati e li studia nei particolari, amico di Jacques e che ha realizzato molti attentati in Europa contro la Turchia;

Prof.Rossi di Arezzo, Macca Antonio, Morletta Eduardo, Munior Guren de11'ETA, Tarna Sorano dell'ETA, Vale Giorgio, Jurgen Mosler capo de11'omonimo gruppo Mosler Jurgen fondato a Duisburg il 17.5.1955 in Italia con sette componenti il gruppo con due automezzi risalenti alla seconda guerra mondiale dei quali sono indicate marche e targhe; persone tutte indicate tra l'agosto 1980 e l'aprile 1981 come coinvolte nella strage del 2 agosto 1980 ed altri attentati in Europa ed in particolare: attentato alla Sinagoga di Parigi ed all'Oktober Fest in Monaco.

Dimitris Martin della FANE, minuziosamente descritto; Le Grand Raphael della FANE, tal Philippe della FANE, Horst, nativo di Heidelberg, età 40-45 anni; Vale Giorgio, indicato come colui che manteneva i contatti tra P.T.-FANE e gruppo

Hoffmann, Fiore Roberto e Adinolfi Gabriele,

identificati erroneamente dall'A.G. bolognese sulla base della falsa accusa degli imputati, persone tutte indicate come coinvolte nella collocazione dell'esplosivo sul treno Taranto-Milano rinvenuto a Bologna i1 13.1.1981.

Reati commessi in Bologna tra l'agosto 1980 ed il settembre 1981

II quarto: GELLI LICIO :

B) del delitto p. e p. artt. 1 L. 6.2.1980 n.15 9, 4° comma, L.24.10.1977 n.801, 112 n.1;

81 cpv; 48, 61 n.2 e 9, 368, 2° comma C.P. perché in concorso con Musumeci Pietro, Belmonte Giuseppe, Pazienza Francesco, Santovito Giuseppe e con altre persone non ancora identificate, con più azioni esecutive di un identico disegno criminoso, a fini di eversione dell'ordine democratico e di assicurare l'impunità agli autori della strage verificatasi in Bologna il 2 agosto 1980, ed agli autori dell'attentato del 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano abusando dei poteri e violando i doveri inerenti alla funzione pubblica che i suoi complici svolgevano in qualità di esponenti del SISMI, simulando il realizzarsi di un insieme di reati di natura

eversiva, inducendo in errore il Comando Generale dell'Arma, la UCIGOS, il Capo della Polizia, i vari organi di P.G. che avevano l'obbligo di riferire le informazioni ricevute all'Autorità Giudiziaria bolognese e direttamente i magistrati che indagavano sulle responsabilità degli autori della strage del 2 agosto 1980 e di coloro che avevano collocato l'esplosivo e le armi rinvenute sul treno espresso 514 in Bologna il 13.1-1981 - incolpavano falsamente di tali reati, facendo in tal modo dirottare le indagini su false piste estere, le seguenti persone, pur sapendole

innocenti :

Macca Antonio, Marletta Eduardo, Santi Carla militanti ETA collegati ai primi tre, tutti autori del furto di 8 quintali di esplosivo avvenuto in Spagna 11 26.7.1980, Ericson del gruppo VMO, Batansa Henri de11'ETA, Frederikson Mark, capo della FANE; Bragaglia Maurizio capo del Nucleo Combattenti Rivoluzionari Centro -sud;

Affatigato Marco, Klinger Rudolf del Gruppo Hoffmann, Stephan Faber, Behie Alter Verich del Gruppo Hoffmann di Mettetal Niederrhein, Michel Ruttor, Rolich Horst, Robert Funk, certo Philippe

del gruppo FANE, Jean Luc-Dechaud del gruppo FANE, Ian Tron Long del gruppo FANE, Vihin Tron Long, fratello di Ian, Philippe Potigny, Philippe Davi, tal Jacques della FANE, PEter Villorin, italo francese residente in Svizzera, William Apichian n. in Irak naturalizzato canadese di circa 40, sposato a cittadina tedesca, a none Erdelt Annerole, prof.Rossi di Arezzo, Macca Antonio, Morletta Eduardo , Munior Guren de11'ETA, Tarna Sorano, Vale Giorgio, Jurgen Mosler, Dimitris Martin, Le Grand Rafael, Fiore Roberto e Adinolfi Gabriele.

Reati commessi in Bologna tra l'agosto 1980 e il settembre 1981.

A P P E L L A N T I

il Pubblico Ministero e il Procuratore Generale contro :

SIGNORELLI Paolo, RINANI Roberto, RAHO Roberto, MELIOLI Giovanni, CELLI Licio, MUSUMECI Pietro, BELMONTE Giuseppe, de FELICE Fabio, FACHINI Massimiliano, DELLE CHIAIE Stefano, TILGHER Adriano, BALLAN Marco, GIORGI Maurizio e PAZIENZA Francesco

 

R I C O R R E N T I

in Cassazione.

1) L'Avvocatura dello Stato contro la sentenza nonché contro tutte le ordinanze dibattimentali con le quali la Corte di Assise di Bologna ha deliberato di rigettare l'ammissione dei mezzi di prova richiesti dalle Parti civili o dal P.W. e segnatamente, tra le altre, le ordinanze: 13.4.1987, 16.4.1987, 5.5.1987, 10.6.1987, 14.7.1987, 15.7.1987, 7.10.1987, 12.10.1987, 15.10.1987, 16.12.1987, 2.2.1988, 5.2.1988, 12.2.1988, 17.2.1988, 23.2.1988 e 26.2.1988;

2) le parti civili Torquato Secci, Dall'Olio Raffaele, Gallon Giorgio, Gamberini Marina, avverso la sentenza limitatamente ai capi che non hanno accolto le conclusioni delle parti civili e del P.M. ed avverso le ordinanze con le quali sono state respinte le istanze istruttorie rivolte dalle parti civili e dal Pubblico Ministero;

APPELLANTI

gli imputati e i loro difensori ad eccezione del DE FELICE avverso la sentenza della Corte di

Assise di Bologna che in data 11 luglio 1988 :

Visti, gli artt. rubricati, gli artt. 483, 479, 477 C.P.P., nonché gli artt.72, 81 cpv. 99, 157 ss. C.P.,

a) dichiarava FACHINI Massimiliano, FIORAVANTI Giuseppe Valerio. MAMBRO Francesca e PICCIAFUOCO Sergio colpevoli dei delitti di strage e di omicidio plurimo aggravato contestati nei capi 3) e 4) delle imputazioni;

dichiarava i primi tre imputati colpevoli dei delitti di banda armata loro contestati e di quelli di cui ai capi 5) 6) ed 8) della rubrica e li condannava, per i reati di cui ai capi 3) e 4), ciascuno alla pena dell'ergastolo, e per gli altri reati, uniti dal vincolo della continuazione, il FACHINI e la MAMBRO alla pena di anni quindici di reclusione ed il FIORAVANTI

con la contestata recidiva alla pena di anni sedici di reclusione; e cosi, complessivamente, per tutti i reati il FACHINI e la MAMBRO alla pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno per anni uno ed il FIORAVANTI alla pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno per anni uno e mesi uno;

dichiarava, inoltre. 11 PICCIAFUOCO colpevole del delitto di partecipazione a banda armata, così modificata nei suoi confronti l'originaria imputazione di cui al capo 2), e di quelli di cui ai capi 5), 6), 8) della rubrica e lo condannava, per i reati di cui ai capi 3) e 4), alla pena dell'ergastolo, e per gli altri reati, uniti dal vincolo della continuazione, con la contestata recidiva, esclusa la specificità, alla pena di anni 12 di reclusione e lire 1.200.000 di multa;

e così complessivamente, per tutti i reati, alla pena dell'ergastolo con l'isolamento diurno per mesi 8 e lire 1.200.000 di multa;

visto l'art.36 ordinava la pubblicazione della sentenza, per estratto ed a spese dei condannati mediante affissione nel Comune di Bologna, Padova, Roma ed Osino; ne ordinava altresì la pubblicazione, per una volta, per estratto ed a spese dei condannati, sui quotidiani "II Resto del Carlino" e la "Repubblica";

b) assolveva SIGNORELLI Paolo dal delitto di strage (capo 3) e da quelli di cui ai capi 4) 5) e 6) ed 8) della rubrica per insufficienza di

prove; lo dichiarava responsabile per il delitto di banda armata (capo 2 dell’imputazione) e lo condannava alla pena di anni dodici di reclusione;

c) assolveva RINANI Roberto dal delitto di strage (capo 3 dell'imputazione) nonché da quelli di cui ai capi 4) 5) 6) e 8) per insufficienza di prove; lo dichiarava colpevole del delitto di partecipazione a banda armata cosi modificata nei suoi confronti l'originaria imputazione di cui al capo 2) e lo condannava alla pena di anni sei di reclusione;

d) dichiarava non doversi procedere nei confronti di FACHIMI, MAMBRO, FIORAVAMTI, SIGNORELLI, PICCIAFUOCO e RINANI in ordine al delitto di cui al capo 7) dell'imputazione perché estinto per prescrizione;

e) dichiarava GIULIANI Egidio e CAVALLINI Gilberto colpevoli del delitto loro ascritto e condannava il primo, con la contestata recidiva, alla pena di anni dieci ed il secondo alla pena di anni tredici di reclusione;

f) assolveva RAHO Roberto e MELIOLI Giovanni dal delitto loro ascritto per insufficienza di

prove;

g) dichiarava non doversi procedere nei confronti di HUBEL Klaus Friedrik in ordine al delitto ascrittogli perché estinto per intervenuta amnistia (art.1 D.P.R. 16.12.1986 N.865);

h) assolveva dal delitto di associazione eversiva ex art.270 bis c.p.: GELLI Licio, PAZIENZA Francesco, MUSUMECI Pietro, BELMONTE Giuseppe, SIGNORELLI Paolo, FACHINI Massimiliano, DELLE CHIAIE Stefano, BALLAN Marco e TILGHER Adriano per insufficienza di prove;

assolveva inoltre dallo stesso delitto DE FELICE Fabio e GIORGI Maurizio per non aver commesso il fatto;

i) dichiarava GIORGI Maurizio colpevole del delitto di cui ai capi 10) 11) 12) della imputazione, uniti dal vincolo della continuazione ed esclusa la recidiva lo condannava alla pena di anni tre di reclusione e lire 4 milioni di multa, dichiarava detta pena detentiva condonata nella misura di anni due di reclusione e la pena pecuniaria condonata per intero;

l) dichiarava non doversi procedere nei confronti di PICCIAFUOCO Sergio in ordine al delitto di cui al capo 13) dell'imputazione perché estinto per intervenuta prescrizione;

m) dichiarava GELLI Licio, PAZIENZA Francesco, MUSUWECI Pietro e BELMONTE Giuseppe colpevoli del delitto di calunnia pluriaggravata loro contestato nel procedimento n.2/87 R.G.C.A.,

precisate le imputazioni nel senso che la condotta era cessata entro l'agosto 1981, e li condannava ciascuno alla pena di anni dieci di reclusione; dichiarava le pene inflitte al MUSUMECI, al BBLHONTE ed al PAZIENZA condonate nella misura di anni tre di reclusione (D.P.R. 18.12.1981 N.744 e D.P.R. 16.12.1986 M.865) e quella inflitta al CELLI condonata nella misura di anni cinque di reclusione (D.P.R. N.744 cit. e ari.6, 4° comma D.P.R. N.865);

n) visto l'art.488 C.P.P. condannava FACHIMI, FIORAVANTI, MAMBRO, PICCIAFUOCO, SIGNORELLI, RIMANI, GIULIANI, CAVALLINI, GIORGI, MUSUMECI, BELMONTE, PAZIENZA, CELLI al pagamento in solido delle spese processuali;

o) visto l'ari.274 C.P.P. condannava gli

imputati tutti, escluso il CELLI, al pagamento ciascuno per quanto di sua competenza delle spese di mantenimento in carcere relative ai rispettivi periodi di custodia cautelare;

p) visti gli artt.29 e 32 C.P. dichiarava tutti gli imputati di cui al capo N), escluso il GIORGI, interdetti in perpetuo dai PP.UU. nonché durante l'espiazione della pena interdetti legalmente e decaduti della potestà di genitori;

q) visto l'art.9 D.P.R. 18.12.1981 N.744 dichiarava condonate per intero le pene accessorie dell'interdizione legale e della decadenza dalla potestà di genitori inflitta al MUSUMECI, al BELMONTE, al PAZIENZA ed al GELLI;

r) visto l'art.576 C.P.P. ordinava l'immediata liberazione di DE FELICE FABIO e l'immediata scarcerazione di DELLE CHIAIE Stefano se non detenuti o sottoposti a regime degli arresti domiciliari per altra causa; revocava gli obblighi imposti a MELIOLI Giovanni con ordinanza del 28 febbraio 1987, cosi come modificati con successiva ordinanza 27.5.1987;

s) visti gli artt.272, 275 C.P.P. ordinava l'immediata scarcerazione di RINANI Roberto se

non detenuto o sottoposto al regime defili arresti domiciliari per altra causa;

t) visto l'art.272 C.P.P. ordinava la cattura di PAZIENZA Francesco per il delitto di calunnia pluriaggravata di cui al procedimento n.2/87 R.G.C.A.;

u) visto l'art.260 C.P.P. revocava il mandato di cattura del G.1. n.119/85 del 10.12.1985, limitatamente agli imputati GELLI, MUSUMECI e BELMONTE, DE FELICE, PAZIENZA, RAHO, IANNILLI. DELLE CHIAIE; revocava altresì il mandato di cattura nel confronti di MELIOLI Giovanni emesso dal Giudice Istruttore il 20.12.1985;

v) visto l'art.240 C.P. ordinava la confisca della pistola, del caricatore e delle relative pallottole del silenziatore e dei proiettili sequestrati il 16.4.1982 nell'abitazione di Palladino Carmine (cfr. verbale sequestro in perquisizioni, vol.I cart.5 pp.5-6);

z> visto 1'art.489 I e II comma C.P.P. condannava gli imputati Fachini, Fioravanti, Mambro, Signorelli, Picciafuoco, Rinani, Giuliani, Cavallini, in solido tra loro, al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata

sede civile, patiti da tutte le parti civili costituitesi nel procedimento penale n.12/86 R.G.C.A. così come sotto elencate:

Agresti Franco, Castellina Pietro, Baranzoni Alessandro, Rota Romeo, Jurt Johan, Bruno Marina, Chiarello Giuseppe, Fumaroli Lucia, Gamberini Marina, Govoni Sabina, Greco Mario, Morelli Assunta, Ponti Mario, Procino Antonio, Racaniello Margherita, Sarcina Ruggero, Solaroli Silvana, Tedeschi Bruna, Zanasi Anello, Vaccari Esterina, Passini Annita in Zarattini, Bertasi Fulvio, Di Paola Francesco, Di Paola Grazia, Ragusa Maria, Di Paola Gaetano, Di Paola Emilia, Fresu Salvatore, Piliu Rosina, Vaccaro Antonina, Marangon Antonio, Zanellato Nella, Marangon Gianni, Marangon Guidina, Marangon Luigino, Mangano Elvira, Ruozi Roberta, Lenzi Giuseppina, Piccolini Livia, Zanetti Daniela, Drouhard Helene, SekiguchÌ Jiro, Gurgo Francesco, Di Matteo Grazia, Diomede Fresa Alessandra, Diomede Fresa Vincenzo, Birardi Giuseppe, Piccolo Elvira, La Scala Domenico, La Scala Vincenzina, La Scala Giuseppe, La Piana Filippa, Ottoni Osvaldo, Serravalli Luigi, Zanotti Sonia, Tina Domenico,

Rotunno Giuseppe, tutte assistite dall'avv.Roberto Montorzi :

Castaldo Roberto, Grandi Maria Teresa, Collina Giancarlo, Palazzolo Roberto, Tempesta Nicolò, Zacchi Franco, Bouduban Damien, Basso Delfino, Lauro Rosanna, Lauro Maria Grazia, Lauro Aurora, Lauro Gennaro, Lauro Giovanna, Ceci Pietro, Baldacci Anna, De Marchi Francesco Saverio, De Marchi Mario Gaetano, De Marchi Angelo Valentino, Montanari Romano, Fuochi Esterina Petteni, Procelli Rinaldo, Palazzeschi Ilda, Ruozi Onorio, Ruozi Valerla, Agostini Giorgio, Lauro Patrizia, Dall'Olio Raffaele, tutte assistite dall'avv. Domenico Pulitano;

Bevilacqua Angelo, Bolognesi Paolo, Botto Angelo, Calzoni Ettore, Colavitti Antonio, Donati Marisa, Fiorini Alfredo, Fiorini Edmondo, Garuti Roberta, Gozzi Felice, Longobardo Giorgio, Marangoni Virginia, Mastronicola Raffaele, Mazzetti Gino, Natale Roberto, Passini Angelo, Lenzi Valerla Passini, Pitzalis Clemente, Poirè Lucia, Provenza Giuseppe, Dall'Aquila Immacolata, Scaramagli Vera, Scolari Benito, Trolese Pasquale, Trolese Chiara Elisa, Trolese Andrea

Pietro, Zini Giovanni, Ales Giuseppe, Ales Giorgio, Ales Isidora, Bugamelli Luigi, Incerti Adele, Sica Davide, Orsolini Grazia, Sica Myriam, Urtamonti Lida, Bosio Eliseo, Vaccaro Antonino, tutte assistite dall'avv. Paolo Trombetti:

Di Vittorio Anna, Calati Maria assistite dall'avv. Fausto Tarsitano;

Rondelli Bruna, assistita dall'avv. Federico Bendinelli:

Era Giuseppe, assistito dal dr.proc.Antonio Spinzo ;

Ballerini Alessandro, Lanzoni Bruno, Magistrale Maria in Verni, Montani Luigi, Montani Anna Maria, Soldano Giuseppe, Spinello Giovanna, Alfanon Florio Aldo, Bay Vittoria, Casadei Egidio, Zanotti Virginia, Spinello Luciana, Fornasari Otello, Fornasari Ivonne, Lambertini Giorgio, Bivona Vincenzo, Bivona Antonina, Marsari Nelda, Gaiola Manuela, Gozzi Tiberio, Roveri Gina, Gozzi Carlo, Gozzi Ivana. Remollino Antonio, Secci Torquato, Verde Domenico, Verde Gianni, Verde Morena, Polizzano Maria, Marino Giovanni, Marino Anna Maria, Zanetti Maria Grazia, tutte assistite dall'avv. Guido Calvi;

Campagna Giancarlo, Maffei Filomena, Caprini Corrado, Cuoghi Mirella, Del Monte Luigi, Dragonetti Maddalena, La Morte Rosa, Gallon Giorgio, Gibertoni Beniamina, Mannocci Rolando, Pucher Eliseo, Pizzirani Anna, Toschi Teresa, Zanetti Umberto, Lusseau Yves Hervè Marie, Baldazzi Danilo, Biagetti Luigi, Maggese Anna Maria, Zecchi Vincenzo, Ebner Elisabetta, Lanconelli Pasquale, Lanconelli Lina, Lanconelli Ersilia, Marino Giuseppa, Natali Gino, Seminara Alfio, tutte assistite dalll'avv. Giuseppe Giampaolo;

Abbrevi Bruno, Abbrevi Patrizia, Adami Arga Maria, Ancillotti Silvana, Barioni Mario, Bengala Moreno, Bertini Tonino, Graziotto Pia, Biasin Alessandro, Bonori Luigi, Braccia Tonino, Colonna Maria Donata Abbrevi, Colonna Porzia, Salluce Palma, D'Aguanno Goffredo Giuseppe, D'Orta Vincenzo, Durante Francesco, Todaro Anna, Franceschelli Fabio, Gagliardi Adriana, Mauri Antonio, Montuschi Silvia, Mott Silvio, Nanetti Nello, Passardi Maria Angela, Pellizzola Franco, Petroni Granata Luciano Mario, Pizzitola Pietro, Roma Stefano, Sacrati Paolo, Santinelli

Gianfranco, Selva Walter, Stefanutti Maria Teresa, Vallona Giuliana, Vivarelli Diana, Alliot Jean Luc Christian Paul, Mader Horst, Caprioli Enzo, Bordignon Francesca, Caprioli Maria Cristina, Arletti Alma, Lugli Carlo Alberto, Sacrati Darlo, Sacrati Piera, Dal Buono Irma Roda, Roda Giovanni, Zappalà Ilario Mitchel Henry Wilfred, Berlot Armida, Sanguin Elisabetta, Zaccarelli Maria Luisa, Patruno Alessandro, Delia Anna, Stassi Maria, Baldazzi Alessandro, De Marchi Mario Gaetano, Lolli Rossana, tutte assistite dall'avv. Laura Grassi;

Comune di Bologna assistito dall'avv.Giuseppe Giampaolo;

Presidente dell'Amministrazione Provinciale di Bologna assistito dagli avvocati Umberto Guerini e Achille Melchionda;

Regione Emilia Romagna assistita dal 1'avv. Guido Calvi;

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero degli Interni, Ente Ferrovie dello Stato, assistiti dagli avvocati Fausto Baldi e Francesco Menarini;

Visto l'art. 489 3° comma C.P.P., condannava

inoltre gli imputati sopra indicati alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle parti civili costituite di cui sopra che liquidava come segue:

per le parti assistite dall'avv.Montorzi in lire 19.500.000}

per le parti assistite dall'avv.Pulitanò in lire 19.500.000;

per le parti assistite dall'avv.Trombetti in lire 19.500.000}

per le parti assistite dall'avv.Tarsitano in lire 19.500.000;

per la parte assistita dall'avv.Bendinelli in lire 8.890.000;

per la parte assistita dal dr.proc. Spinzo in lire 6.850.000;

per le parti assistite dall'avv.Calvi in lire 19.500.000;

per le parti assistite dall'avv.Giampaolo in lire 19.500.000;

per le parti assistite dall'avv.Grassi in lire 19.500.000;

per la parte assistita dagli avvocati Guerini e Melchionda in lire 37.000.000;

per le parti assistite datali avvocati Baldi e Menarini in lire 50.000.000;

liquidazioni tutte comprensive di onorari di avvocato;

al) visto l'art.489 I e II comma C.P.P. condannava gli Imputati GELLI Licio, PAZIENZA Francesco, MUSUMECI Pietro e BELMONTE Giuseppe, in solido tra loro, al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede civile patiti da tutte le parti civili Vale Giorgio, Garofoli Vale Anna Antonia, Fiore Roberto, Rossi Giovanni e Affatigato Marco, costituitesi nel procedimento penale n.2/87 R.G.C.A.;

Visto l'art.489 3° comma C.P.P. condannava i medesimi imputali alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle dette parti civili che liquidava come segue:

per Vale e Garofoli Vale, in lire 3.000.000;

per Fiore, Rossi e Affatigato in lire 3.000.000 ciascuno;

liquidazioni tutte comprensive di onorari di avvocato;

b1) visto l'art.489 bis C.P.P. rigettava le istanze di assegnazione di provvisionale

formulate in favore di Vale, Garofoli Vale, Fiore, Rossi e Affatigato.

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA

 

 

 

IL PATTO E LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Capitolo Primo

IL FATTO E LE INDAGINI

Subito dopo la tremenda esplosione che, alle ore 10,25 del 2 agosto 1980, travolgeva sotto le macerie della sala d'aspetto della stazione di Bologna centinaia di persone, uccidendone ottantacinque, l'avvio delle indagini era segnato, oltre che da numerosi controlli e perquisizioni domiciliari, dal conferimento dell'incarico ai periti chimico esplosivistici.

Tra le prime segnalazioni, appariva di un certo rilievo quella proveniente dal giudice di sorveglianza di Padova, il quale comunicava che il giorno 10 luglio 1980, (e quindi, 23 giorni prima della esplosione della bomba alla stazione), il detenuto VETTORE Presilio aveva riferito di una organizzazione di estrema destra che stava preparando un attentato al giudice STIZ di Treviso, ed altro attentato di eccezionale gravità che avrebbe riempito le

pagine dei giornali.

Nei giorni successivi alla terribile esplosione della stazione, si registravano dichiarazioni, provenienti dall'interno

dell'ambiente carcerario, di persone che avevano avuto la possibilità di captare informazioni di un certo interesse che sembravano confermare la direzione delle indagini nei confronti della estrema destra.

Agli inquirenti, quindi, perveniva un primo rapporto, redatto dal vicequestore LAZZERINI della DIGOS di Roma, che orientava le indagini nella direzione degli ambienti della destra eversiva.

Si arrivava, cosi, alla emissione dei primi ordini di cattura a carico di soggetti

ricompresi in quel rapporto, oltre che del RINANI

e del FACHINI, del FIORAVANTI e del MELIOLI.

Ma già dal 19 settembre la inchiesta subiva una svolta, destinata ad aprire nuovi, e illusori, campi di indagine: prendeva avvio, con l'intervista ad ABU AYAD, la cosiddetta "pista libanese".

Il 21 settembre la istruttoria veniva formalizzata.

Da registrare, ancora, alla fine del 1980, il deposito della prima perizia sull'ordigno adoperato il 2 agosto alla stazione; e, poi, il

13 gennaio 1981, il rinvenimento, annunciato nei dettagli da una "informatissima" fonte, di una valigia carica di esplosivi sul treno Taranto-Milano e l'inizio della relativa pista di indagini.

La istruttoria proseguiva con acquisizioni probatorie che interessavano sia l'oggetto più immediato, costituito dal fatto della esplosione del 2 agosto; sia la ricostruzione di una banda armata, all'interno della quale si sarebbero mossi i responsabili di quella strage;

sia, infine, la individuazione degli autori del depistaggio, perché tale era risultata la indicazione della pista internazionale e ritenuta la intera operazione del treno Taranto-Milano.

Si giungeva, cosi, dopo faticose e complesse indagini che si estendevano ai servizi segreti ed all'ambiente della loggia massonica P2, ai mandati di cattura del dicembre 85 nei confronti di SIGNORELLI, FACHINI, RINANI, FIORAVANTI, MUSUMECI, BELMOMTE, DE FELICE, PAZIENZA, RAHO, CAVALLINI, GIULIANI, IANNILLI, GELLI, DELLE CHIAIE, MELIOLI.

Ed, il 14 giugno 1986, alla sentenza-

ordinanza del giudice istruttore, con riferimento ai delitti di strage, omicidio, porto e detenzione di materie esplodenti, banda armata, associazione eversiva, calunnia aggravata.

 

1. I distinti settori di indagine

L'opera degli inquirenti, come si è appena detto, si sviluppava in tre distinti settori dando anche origine a procedimenti separati, poi unificati in sede dibattimentale.

Il primo campo di indagine era quello che aveva ad oggetto l'episodio centrale, e cioè, la tragica esplosione della mattina del 2 agosto all'interno della stazione ferroviaria di Bologna, alla ricerca ed alla individuazione dei responsabili di quel crimine e del nucleo operativo allo scopo attivatesi (banda armata).

Altro settore di indagine, quello della calunnia, o del depistaggio, che riguardava le

responsabilità relative alla indicazione della pista, ritenuta falsa perché artificiosamente costruita, che gli inquirenti avrebbero dovuto seguire, soprattutto dopo il rinvenimento di una

valigia carica di esplosivo sul treno Taranto-Milano, la notte del 13 gennaio 1981.

Il più ampio contesto associativo all'interno del quale si sarebbe formata l'idea e delineato il profeti o operativo teso al depistaggio, formava oggetto degli accertamenti relativi al delitto di cui al l'ari.270 bis c.p., con lo scopo di delineare e ricostruire l'attività eversiva di una associazione che, secondo l'ipotesi di accusa, si sarebbe proposto il controllo, la gestione e l'utilizzazione politica di attentati per condizionare equilibri politici e consolidare il potere di forze ostili alla democrazia.

Ovviamente, le tre menzionate ripartizioni della indagine istruttoria presentavano molteplici momenti di connessione ed i risultati raggiunti dovevano, alla fine, essere riguardati unitariamente.

Si vedrà, infatti, attraverso la motivazione della sentenza impugnata, che il complesso delle investigazioni relative al ritrovamento della valigia sul treno Taranto-Bilano interferiva con la ricerca degli autori della strage, e ancor

più, con la ipotesi associativa.

Ed allo stesso modo, la ricostruzione dell'associazione sovversiva serviva a fornire, attraverso l'indagine circa promotori ed organizzatori, un quadro di insieme più completo anche in ordine alle responsabilità per il fatto 055 etto dell'iniziale accertamento: la esplosione del 2 agosto.

 

2. le indagini circa i responsabili della

strage

I risultati raggiunti sul piano delle acquisizioni probatorie discendono da acquisizioni diverse che possono distinguersi in:

a) accertamenti tecnici e, in particolare, le perizie effettuate per individuare le caratteristiche dell'esplosivo adoperato alla stazione;

b) dati probatori ricavabili da documenti vari (scritti, lettere, volantini, pubblicazioni);

c) dichiarazioni testimoniali e degli imputati;

d) rapporti ed informative degli organi di

Polizia Giudiziaria e dei Servizi segreti.

 

a. Le perizie

Dopo il deposito, avvenuto il 23 dicembre 1980, della prima relaziona di perizia chimico-esplosivistica, il 24 agosto 1981 il G.I. affidava ai periti un ulteriore incarico di perizia comparativa allo scopo di mettere a confronto l'esplosivo fatto ritrovare sul treno Taranto-Milano, quello utilizzato per alcuni attentati (al carcere di Regina Coeli, al C.S.M., al Ministero degli Esteri) e l'esplosivo già analizzato in occasione della strage della stazione.

Il 7 dicembre i periti depositavano l'elaborato.

 

b. I documenti

II 31 agosto 1980, in una cabina telefonica di Via Irnerio a Bologna, venivano ritrovati vari

documenti abbandonati da ignoti.

Di notevole interesse un manoscritto con la annotazione "da TUTI a Mario Guido NALDI". costituente una sorta di risoluzione strategica

della destra eversiva, nel quale si affermava la necessità, di approfondire la frattura e le tensioni fra settori politici, economici e sociali; la necessità di evitare, al momento, lo scontro con i rossi della sinistra; la necessità di ricorrere ad azioni illegali per ottenere i mezzi finanziari e gli strumenti militari da utilizzare nella lotta rivoluzionaria; la opportunità di iniziare la lotta fondando piccoli nuclei operativi che, in seguito, avrebbero dovuto cercare collegamenti fra di loro.

Altro documento di notevole interesse i cosiddetti "Fogli d'ordine" di Ordine Nuovo, risalenti al marzo e al maggio 1978, sequestrati nella abitazione di Gianluigi NAPOLI.

 

c. Le dichiarazioni testimoniali Vettore PRESILIO

Pochi giorni dopo lo scoppio dell'ordigno alla stazione, e precisamente il 6 agosto, il Giudice di Sorveglianza di Padova informava il Pubblico Ministero di Bologna di avere raccolto, il precedente 10 luglio, interessanti dichiarazioni del detenuto VETTORE Presilio.

Questi, sentito dal Pubblico Ministero di Bologna la stessa sera del 6 agosto, e successivamente, nel novembre, dal Giudice Istruttore, parlava di una organizzazione di estrema destra che lo aveva contattato per proporgli la partecipazione a un attentato ai danni del Giudice STIZ.

A fargli simile proposta era stato un compagno di detenzione, tale RINANI Roberto, il quale gli aveva anche detto di far parte di una cellula veneta, facente capo a PREDA e VENTURA, che in quel momento, aveva come suo principale esponente Massimiliano FACHINI.

Simili confidenze gli erano state fatte dal RINANI in un momento di cedimento psicologico, avendo egli fidato in una sollecita concessione della libertà provvisoria.

Il RINANI, tra una bestemmia e l'altra, gli aveva anche detto: "potranno pure trattenermi in carcere, ma vedrai che nella prima settimana di agosto' succederà qualche cosa di grosso di cui parlerà l'opinione pubblica nazionale e mondiale ed allora ne rideremo insieme".

 

Le rivelazioni di Giorgio farina

L'8 agosto perveniva alla Procura della Repubblica una informativa dell'UCIGOS relativa ad un contatto tra il dr.Elio CIOPPA, funzionario del SISDE, ed un interlocutore, poi identificato in tale Giorgio FARINA, nel carcere di Rebibbia.

Costui aveva riferito che nel mese di maggio PEDRETTI Dario e CALORE Sergio, suoi compagni di detenzione, gli avevano richiesto un rilevante quantitativo di esplosivo da utilizzare per attentati terroristici e, in particolare, nel successivo mese di agosto, per "celebrare degnamente" la strage del treno Italicus.

 

Mario Guido NALDI

A seguito di perquisizioni domiciliari, nel corso delle quali erano stati rinvenuti alcuni numeri della rivista "QUEX", il 19 agosto veniva sentito Mario Guido NALDI, rintracciato in Sardegna.

II NALDI si diceva convinto che la strage della stazione di Bologna era una provocazione contro le idee sostenute dalla rivista QUEX e doveva spiegarsi con la faida interna ai

movimenti dell'estrema destra.

Affermava che capo indiscusso di Ordine Nuovo era il SIGNORELLI e che quel movimento usava anche sigle diverse come "Movimento Popolare Rivoluzionario", "Costruiamo l'Azione", "Gruppi Popolari di Base" e che un suo gruppo molto attivo si trovava a Padova.

Ricordava, infine, che, nella primavera del 1980, FIORE e ADINOLFI gli avevano chiesto se a Bologna vi fossero le condizioni per fondare un gruppo locale di Terza Posizione.

NICOLETTI dal carcere di Ferrara

II 31 ottobre 1980 un rapporto riservato del maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Ferrara informava del contenuto di brani di conversazione, intercettati dall'agente FERRELLI, tra i detenuti Roberto FEMIA e Stefano NICOLETTI.

Questo, in sintesi, il contenuto di quei dialoghi: "ma come mai avete combinato un tale

disastro?"; ed il FEMIA: "non avevamo previsto ne volevamo una cosa cosi grande, ecco cosa succede a mandare dei ragazzini a fare certe cose....".

Altre informazioni provenivano dal detenuto

 

AURORA, invitato dagli agenti a mettersi in ascolto presso le porte delle celle vicine.

Il FEMIA, inoltre, aveva comunicato anche con lo IANNILLI e questi avrebbe detto: "portarsi dietro i ragazzini... ad ogni modo io l'avevo detto, a portarsi dietro i ragazzini succede sempre cosi, ad ogni modo la pagherà....".

Contenuto delle conversazioni confermato dal NICOLETTI il quale aggiungeva che IANNILLI era arrabbiatissimo e FEMIA preoccupatissimo di quello che poteva dire il SIGNORELLI, chiedendo in più occasioni se il giornale radio o televisione avessero riferito dell'interrogatorio dello stesso SIGNORELLI.

Il 7 ottobre il NICOLETTI dichiarava al Giudice Istruttore che, trasferito dal carcere di Ferrara a quello di Rimini, vi aveva incontrato tale BONAZZI, già compagno di cella del FREDA, del TUTI e del FRANCI e questi gli aveva detto che, per l'inverno 1979 o la primavera 1980, era

stata programmata una azione dimostrativa che avrebbe dovuto colpire le città di Bologna, Milano e Genova.

Il progetto sarebbe stato rinviato per

ragioni non note; ma qualcuno, invece di desistere, aveva ritenuto di dare comunque corso ad un'azione dimostrativa, provocando effetti più disastrosi di quelli programmati a causa della inesperienza dei "ragazzini".

Il BONAZZI aveva anche aggiunto che SIGNORELLI e FACHINI dovevano pagare per essersi affidati a persone inesperte.

 

Le dichiarazioni di Massimo SPARTI

II 26 aprile 1981 la Procura della Repubblica di Roma trasmetteva al G.I. di Bologna copia del verbale di interrogatorio, reso in altro procedimento per associazione sovversiva e banda armata, da Massimo SPARTI.

Lo SPARTI, dopo aver parlato del suo rapporto con i fratelli FIORAVANTI, e con altri, ricordava che Valerio aveva ben presto manifestato un carattere particolarmente violento e coinvolgente, minacciandolo pesantemente in più occasioni, una volta imponendogli di custodire una borsa piena di armi e, nell'agosto 1980, pretendendo la consegna immediata di documenti falsi per la MAMBRO.

In tale ultima occasione, il FIORAVANTI riferendosi alla strage della stazione di Bologna, gli aveva detto; "hai visto che botto!", aggiungendo poi che a Bologna si era vestito in maniera da sembrare un turista tedesco mentre la MAMBRO poteva essere stata notata e per questo le aveva fatto tingere i capelli.

Spaventato dalla enormità della vicenda, lo SPARTI lo aveva pregato di non parlargli neppure di quelle cose ed il FIORAVANTI aveva replicato che, comunque, doveva starsene zitto perché se gli fosse successo qualcosa gliela avrebbe fatta pagare; aggiungendo una agghiacciante ed esplicita minaccia verso il figlioletto: "te lo faccio piangere io Stefanino tuo !".

Lo SPARTI aggiungeva di essere riuscito a procurare, tramite tale DE VECCHI Fausto, i documenti che il FIORAVANTI era andato a ritirare il giorno successivo.

Il DE VECCHI confermava la circostanza e,

mentre in un primo momento escludeva di avere ricevuto fotografie di una ragazza da apporre sui documenti, posto a confronto con lo SPARTI, dichiarava di non potere ne confermare ne

escludere che le foto fossero di una donna.

 

Le dichiarazioni di Laura LAURICELLA

Sentimentalmente legata ad Egidio GIULIANI, dichiarava, tra l'altro: "discutendo della strage della stazione di Bologna Egidio espresse con me un apprezzamento negativo... che una cosa del genere potesse essere stata fatta solo da quel folle di Valerio FIORAVANTI".

 

d. I cosiddetti pentiti

Una notevolissima quantità di informazioni proveniva dai cosiddetti "pentiti", la cui posizione e le cui caratteristiche personali sono state ampiamente analizzate e valutate dalla sentenza della Corte di Assise di Bologna.

 

Cristiano FIORAVANTI

Catturato l'8 aprile 1981, il FIORAVANTI si

determinava alla collaborazione già qualche

giorno dopo il suo arresto.

Queste, in sintesi, le cose da lui riferite.

I NAR, gruppo al quale aveva aderito, avevano

portato a termine numerosi attentati, contro

sezioni del PSI e del PCI, contro l'ACEA e la Centrale del Latte di Roma, utilizzando palistite granulare, tritolo ed altri esplosivi.

FACHINI era uno dei capi della organizzazione del Nord.

Roberto RAHO custodiva armi per conto del gruppo, (secondo quanto gli aveva riferito CAVALLINI); Egidio GIULIANI procurava documenti falsi; nel settembre 1980, con Valerio, la MAMBRO, VALE e BELSITO aveva alloggiato in un appartamento a Taranto; lo scopo del gruppo era l'evasione del CONCUTELLI.

Aggiungeva ancora che in quel "covo" di Taranto vi erano due mitra M12, quattro pistole 92 ed altre armi, tra le quali, silenziatori costruiti da Valerio.

Affermava ancora Cristiano di avere avuto sempre la convinzione che autori materiali dell'omicidio di Piersanti MATTARELLA fossero il fratello Valerio e Luigi CAVALLINI

 

Mauro ANSALONI

Affermava l'ANSALDI che, qualche giorno prima della strage della stazione di Bologna, lo ZANI e

la COGOLLI avevano incontrato, a Bologna o in una città vicina, Massimiliano FACHINI il quale aveva detto loro di andarsene da Bologna o dai dintorni perché sarebbe successo qualcosa.

 

Paolo STROPPIANA

Confermava di avere saputo dalla COGOLLI dell'avvertimento di FACHINI e di avere dedotto, da quell'episodio, che il FACHINI, in qualche modo, era a conoscenza in anticipo della strage.

 

Sergio CALORE

Sempre a proposito della COGOLLI, il CALORE ricordava che la donna si occupava della distribuzione di materiale di "Costruiamo l'Azione" in Emilia per conto del FACHINI.

Ed anzi, lo stesso FACHINI gli aveva detto che per Bologna poteva fare capo alla COGOLLI per qualunque esigenza.

Quanto alla sua personale esperienza, aveva

aderito ad ON nel 1974 e subito SIGNORELLI e PUGLIESE gli avevano chiesto di preparare un ordigno per collocarlo in piazza Montecitorio..." nell'estate 1978 organizzammo attentati, quasi

tutti con sveglie ed esplosivo forniteci dal FACHINI... nel giugno 1978 FACHINI sollecitò l'iniziativa di attentati da non rivendicare... attentati che effettivamente vi furono, nel luglio".

Nell'agosto 1978 era stato ad un convegno di Terza Posizione in Sicilia: come osservatore anche l'ALEANDRI che si era fatto dare tre milioni da SEMERARI.

"In questo periodo incontrai a casa di SIGNORELLI, INCARDONA, MANGIAMELI, ADINOLFI, FIORE, con i quali fu ritoccato l'argomento del possibile collegamento di TP con "Costruiamo l'Azione".

Nel marzo 1979, era stato con SIGNORELLI a Padova, dove avevano incontrato FACHINI, RAHO, CAVALLINI e MELIOLI.

 

Walter SORDI

Ricordava della sua appartenenza all'area dei NAR e dello spontaneismo armato, sostenendo che si trattava di esperienza del tutto estranea a quella dei gruppi che facevano attentati indiscriminati a Roma, quali MRP e Comunità

organiche di popolo.

Sapeva di rapporti personali del FIORAVANTI con quelli dell'MRP, come SIGNORELLI e Calore e riferiva che il CAVALLINI gli aveva rivelato che, dopo essere stato in contatto col SIGNORELLI, CALORE e tutti gli altri, a seguito dell'attentato al Consiglio Superiore della Magistratura, che avrebbe potuto risolversi in una strage, se ne era dissociato.

Secondo il SORDI, soltanto DE FELICE FABIO, che gli aveva confidato di appartenere alla P2, poteva aver dato l'ordine per la strage della stazione di Bologna, trovandosi al vertice dell'MRP, da cui prendevano ordini lo stesso SIGNORELLI e il CALORE.

In altra occasione, CAVALLINI gli aveva detto; "che credi che il 2 agosto FIORAVANTI era davvero a Treviso con me e la Flavia..?", ed in queste parole egli aveva colto la implicazione del FIORAVANTI nella strage".

 

e. Le indagini relative al PICCIAFUOCO

II nome del PICCIAFUOCO compariva per la prima volta in un'agenda sequestrata al CAVALLINI

e di lui i Carabinieri riferivano che si era politicizzato entrando nella organizzazione di destra Terza Posizione.

Sentito dalla DIGOS di Bologna circa la sua presenza alla stazione il giorno 2 agosto, egli sosteneva che quella mattina avrebbe dovuto raggiungere Milano per procurarsi dei documenti.

Perduto il treno delle ore 8 in partenza dalla stazione di Modena, aveva deciso di spostarsi a Bologna con un taxi per prendere il treno delle 10,34 in partenza da quella stazione.

Giunto a Bologna alle 10, dopo aver fatto colazione ed avere acquistato i giornali, si era diretto verso il quarto binario e, proprio mentre, seduto sul muretto del sottopassaggio, era in attesa del treno, era stato investito dalla tremenda esplosione; non senza aver prima notato due turisti sospetti scendere dal Settebello, sul primo binario.

Subito dopo si era prodigato per dare soccorso ai feriti, Collaborando in particolare con un agente in divisa della Polfer.

Fatti tre viaggi sulle autoambulanze dirette agli ospedali, alla fine, era anch'egli ricorso

alle cure dei medici, fornendo le false generalità di VAILATI Eraclio.

Il rapporto che accompagnava le suddette dichiarazioni del PICCIAFUOCO riferiva che gli accertamenti svolti in merito alle circostanze di fatto ricordate dallo stesso PICCIAFUOCO, avevano evidenziato la inattendibilità di quella versione.

La comunicazione giudiziaria al PICCIAFUOCO per il delitto di strage veniva emessa sulla base delle seguenti considerazioni:

1) dalla certificazione dell'Ospedale Maggiore di Bologna risultava che il PICCIAFUOCO era stato medicato alle ore 11,39, e quindi, subito dopo la esplosione;

2) le indagini svolte dalla polizia escludevano che un tassista di Modena avesse accompagnato qualcuno alla stazione di Bologna, la mattina del 2 agosto;

3> la presenza del nome del PICCIAFUOCO sull'agenda del CAVALLINI;

4) il tatuaggio, poi ricoperto, rappresentante la "rosa dei venti" che testimoniava della sicura appartenenza del

PICCIAFUOCO alla eversione di estrema destra:

5) il possesso del documento intestato al VAILATI, nominativo già adoperato da persone legate ad Avanguardia Nazionale in Sicilia.

 

L'attentato a Palazzo Marino

L'esplosione di un ordigno collocato in auto nei pressi del palazzo, sede del Consiglio Comunale di Milano, si era verificata nella notte del 30 luglio 1980 ed una telefonata anonima al Corriere della Sera aveva rivendicato l'attentato ad opera dei "Combattenti Rivoluzionari per il Contropotere" mentre, nello stesso giorno, si ritrovava un volantino a nome dei "Gruppi armati per il contropotere territoriale".

 

3. Le indagini sulla banda armata

a. I rapporti

II 22 agosto 1988 la DIGOS di Roma trasmetteva un rapporto di denuncia a carico di Sergio CALORE e Dario PEDRETTI: il cosiddetto rapporto LAZZERINI, dal nome del vice questore che lo aveva sottoscritto.

Oggetto delle indagini riferite in quel

rapporto, il mondo dell'estremismo di destra e la conseguente denuncia, per banda armata ed associazione sovversiva di Paolo SIGNORELLI, Aldo SEMERARI, Marcello IANNILLI, Gabriele ADINOLFI, Fabio DE FELICE, Roberto FIORE, Gianluigi NAPOLI.

Dopo il 1977, i resti delle due maggiori organizzazioni, ON e AN, avevano dato vita ad una serie di organismi (Movimento Rivoluzionario Popolare, Terza Posizione, NAR), che, operando in clandestinità, avevano commesso una lunga serie di attentati.

La strategia dell'intero movimento faceva capo a Ordine Nuovo ed era emersa evidente dalla lettura dei "Fogli d'ordine", sequestrati il 21.12.1978, nella abitazione di Gianluigi NAPOLI.

In quei documenti si teorizzava la lotta alle multinazionali, una sorta di pace armata con Autonomia Operaia, con l'obbiettivo di una spaccatura del paese reale, e l'accellerazione di processi di disgregazione mediante la partecipazione ad un gran numero di iniziative eversive, con sigle differenziate.

Nella stessa abitazione del NAPOLI, erano state ritrovate anche copie di "Costruiamo

l'Azione" e di "Terza Posizione", dove molte delle teorizzazioni dei "Fogli d'ordine" trovavano conferma.

 

b. I documenti

Venivano acquisiti ed analizzati gli atti del primo convegno di studi storici e militari, promosso e organizzato dall'Istituto Pollio, svoltosi a Roma nei giorni 3, 4 e 5 maggio 1965 presso l'Hotel Parco dei Principi.

Tra gli organizzatori del convegno, che aveva come tema centrale di discussione la "offensiva planetaria del comunismo", Eggardo BELTRAMETTI, tra i relatori, Guido GIANNETTINI, tra gli intervenuti, Pino RAUTI, Giorgio PISANO', Giuseppe DALL'ONGARO.

Negli atti del convegno si faceva una analisi della situazione, del pericolo costituito dal comunismo e della necessità di apprestare adeguate contromisure e "preparare uno strumento militare adeguato alle tecniche e ai procedimenti della guerra rivoluzionaria... "con gruppi permanenti di autodifesa che non esitino ad accettare la lotta nelle condizioni meno

ortodosse, con l'energia e la spregiudicatezza necessarie".

Altro documento preso in esame, il memoriale attribuito ad Eliodoro POMAR, scritto nella seconda metà degli anni 70, contenente la descrizione dell'azione di gruppi di potere e dei servizi segreti che, utilizzando la loro rete di informatori per compiti di istigazione e di attivazione, o anche di esecuzione, di attentati, stragi e colpi di stato, si sarebbero prefisso lo scopo di suscitare reazioni emozionali nei cittadini e leggi sempre più dure dirette a circoscrivere garanzie e libertà.

Ed ancora, il volume di Franco FREDA, "La disintegrazione del sistema", nel quale si affermava che "il male rappresentato dalla società borghese è inguaribile... che occorre lasciare solo le macerie... provocare la disintegrazione del sistema".

 

c. La intervista di SPIAZZI all'Espresso

II colonnello SPIAZZI, già implicato nel procedimento della "rosa dei venti", dichiarava di essere stato sollecitato da tale "BARONI"

(nome di copertura dell'appuntato BENFARI, in contatto col Centro SISDE di Bolzano), a recarsi a Roma per raccogliere notizie sulla riorganizzazione dei NAR.

Lo Spiazzi rispondendo alle domande dell'intervistatore, diceva che a Roma i NAR erano divisi ed anche il DELLE CHIAIE era venuto più volte in Italia per tentarne l'unificazione.

Attraverso Giulia RACANIELLO aveva avuto un incontro in un bar con alcune persone che gli avevano dato le informazioni circa i gruppi ed intorno a tale "Ciccio", che attendeva, in particolare, ad un tentativo di riunificazione dei vari movimenti e non si identificava, come si era pensato in un primo tempo, con Chicco FURLOTTI.

Riportate le informazioni al BENFARI, questi gli aveva detto che la notizia circa Ciccio non meritava ulteriori approfondimenti.

"Mi convinsi", concludeva lo SPIAZZI, "che non sì voleva indagare su Ciccio".

 

d. Le dichiarazioni testimoniali Sergio CALORE

Il CALORE era fonte di informazioni, numerose e di notevole peso probatorio.

Le vicende delle organizzazioni dell'estrema destra, nel corso dei decenni, venivano da lui ricordate con il riferimento a particolari e ad episodi molto significativi.

Una prima data importante, quella del settembre 1975, quando i leaders di ON e di AN si erano incontrati in una villa di Albano per discutere della riunificazione delle due organizzazioni.

Nel corso di quella riunione, alla quale avevano preso parte Stefano DELLE CHIAIE, Adriano TILGHER, Maurizio GIORGI, Giuseppe PUGLIESE, Pierluigi CONCUTELLI, Massimiliano FACHINI e Paolo SIGNORELLI, era stata decisa la costituzione di un vertice unitario, con una direzione politica formata da SIGNORELLI e DELLE CHIAIE, alla guida di settori nazionali: informativo, operativo, logistico.

Ma il processo di unificazione era entrato presto in crisi ed il CALORE, dopo l'aprile del 1977, aveva dato vita ad una nuova iniziativa, quella del giornale Costruiamo l'Azione,

espressione di mediazione tra tendenze diverse.

Al giornale collaborarono SIGNORELLI, SEMERARI, DE FELICE, ALEANDRI.

Il giornale diveniva così un punto di riferimento per azioni terroristiche, non più rivolte contro i nemici della sinistra, con i quali, anzi si proponeva una ambigua alleanza (era questa l'idea soprattutto del CALORE), ma contro i simboli e eli uomini degli apparati istituzionali dello Stato.

Riferiva, inoltre, il CALORE di una riunione presso la villa del SEMERARI, nel dicembre 1977, tenutasi alla presenza del SIGNORELLI, del DE FELICE, del DANTINI e del PUGLIESE ed aggiungeva che lo stesso SIGNORELLI gli aveva riferito dei particolari della fondazione di Lotta di Popolo, organizzazione della quale facevano parte il DELLE CHIAIE e Clemente GRAZIANI.

 

Paolo ALEANDRI

La incalzante attività terroristica di quegli anni veniva ricordata e ricostruita, in particolare, dall'ALEANDRI, il quale affermava, tra l'altro, che i "politici", quali CALORE,

SIGNORELLI, DE FELICE, ed altri, approvavano l'attività eversiva svolta dagli "operativi" del gruppo.

In proposito, si acquisiva copiosa documentazione relativa a procedimenti instaurati presso altre autorità giudiziarie in ordine ai numerosi episodi terroristici di quegli anni (attentati, omicidi, rapine ecc.).

Da uno di tali procedimenti, quello contro ALES Fabrizio + altri, ad esempio, si ricavavano notizie rilevantissime circa la costituzione di un gruppo terroristico, quello del FUAN romano, con sede in via Siena, del quale facevano parte personaggi come Valerio e Cristiano FIORAVANTI Francesca MAMBRO, Alessandro ALIBRANDI, Walter SORDI.

Tra le imprese del gruppo, alcune gravi rapine ai danni di armerie, l'omicidio di Roberto SCIALABBA, gli assalti alle sedi di "Radio città futura" e della società CAB.

Altro gruppo operante dal 1977, quello di Terza Posizione, il cui nucleo operativo, in un primo momento, era controllato da Roberto FIORE e Gabriele ADINOLFI, che si proponeva un proprio

modello di Stato, con uomini nuovi ed il rifiuto tanto del capitalismo quanto del comunismo.

Ma già dopo l'omicidio dell'agente ARNESANO, quel nucleo aveva assunto una struttura autonoma, per passare poi sotto il controllo di Valerio FIORAVANTI, nell'ambito di una strategia che si autodefiniva "spontaneista".

Le azioni terroristiche si erano infittite, si consumavano gli omicidi ARNESANO ed EVANGELISTA, si faceva largo uso di bombe incendiarie e di esplosivi.

Ancora il CALORE, al P.M. di Firenze, il 1 marzo 1984; "nel corso del mese di giugno 1978, FACHINI sollecitò l'iniziativa di mettere in atto una campagna di attentati che non dovevano essere rivendicati, al fine di verificare il grado di rispondenza dell'ambiente ad un eventuale discorso politico-militare che egli aveva intenzione di sviluppare d'accordo anche con noi, parallelamente a Costruiamo l'Azione. Questi attentati effettivamente avvennero nel corso del mese di luglio...".

Altri attentati si verificavano nel corso del 1979, alcuni rivendicati con la sigla MRP, e

quindi, coma si è visto, riferibili al gruppo di Costruiamo l'Azione: contro la sala consiliare del Campidoglio, contro la Casa Circondariale di Regina Coeli, contro il CSM, contro il Ministero degli Affari Esteri.

Ancora ALEANDRI sul punto si esprimeva in maniera molto esplicita: "... nelle riunioni che si tenevano a casa del SIGNORELLI, e alle quali partecipavano diverse persone, anche provenienti dal gruppo veneto, argomenti come attentati e fatti di sangue erano per cosi dire pane quotidiano... debbo dire che tutto l'ambiente di "Costruiamo l'Azione" era permeato di discorsi sulla violenza e sugli attentati ed è quindi evidente che tutti i componenti di detto ambiente erano a conoscenza che gli attentati MRP provenivano da noi..." ( 18/9/81 al P.M. di Roma).

In un tale contesto, ideologico ed operativo, due episodi significativi: il procurato allontanamento di FREDA dal soggiorno obbligato di Catanzaro e la fuga di Giovanni VENTURA.

Secondo la testimonianza del CALORE, in entrambi i casi il FACHINI era stato ideatore ed artefice delle operazioni.

Seguiva la vendetta progettata contro l'avvocato ARCANGELI, accusato di aver determinato l'arresto del CONCUTELLI, per un errore sarà ucciso un incolpevole passante, tale LEANDRI.

E, quindi, il progetto di evasione del CONCUTELLI.

 

SODERINI, NAPOLI, ANSALDI

Altre notizie fornivano le dichiarazioni di Stefano SODERINI che si soffermava, tra l'altro, sull'opera di arruolamento svolta dal SIGNORELLI, dal DE FELICE e dal SEMERARI.

La conoscenza tra lo stesso SIGNORELLI ed il FIORAVANTI e le loro frequentazioni venivano riferite da numerose fonti, tra le quali anche il CALORE.

Altri ancora ricordavano (vedi ALEANDRI) del continuo personale contatto tra FACHINI, RAHO, MELIOLI con SIGNORELLI, CALORE, GIULIANI e IANNILLI.

Anche Gianluigi NAPOLI forniva le medesime indicazioni circa i rapporti tra il FACHINI, indiscusso capo militare e politico, ed il

SIGNORELLI, nonché tra il FACHINI ed 11 RINANI.

Circa la provenienza degli esplosivi usati per fare attentati, il NAPOLI riportava cose che aveva apprese dal MELIOLI, il quale, nelle sue solite forme allusive, gli aveva fatto capire che era FACHINI a disporre di esplosivo che proveniva dal recupero di munizioni militari.

L'ANSALDI, dopo aver parlato dell'omicidio MANGIAMELI, diceva di aver saputo dall'ADINOLFI e dallo SPEDICATO che essi avevano le prove di almeno tre incontri, in ristoranti, tra SEMERARI, GELLI e SIGNORELLI e che FIORAVANTI, nel corso della sua precedente carcerazione, durata pochi mesi, era stato in contatto col SIGNORELLI... e in quella situazione aveva accettato di operare per conto del SIGNORELLI.

Il FIORAVANTI veniva definito dall'ANSALDI "braccio armato" del SIGNORELLI e precisava ancora: "Intendo con l'espressione gruppo SIGNORELLI innanzitutto il FACHINI che costituiva il referente per il SIGNORELLI per il Nord Italia, il FIORAVANTI, di cui ho detto, il SEHERARI ed il GELLI... ZANI (tra i leaders di TP) mi disse che quando CAVALLINI evase... riparò

da FACHINI ed ebbe in tal modo occasione di conoscere SIGNORELLI con il quale poi strinse amicizia."

 

Walter SORDI

Circa i collegamenti SIGNORELLI-GELLI, Walter SORDI precisava (25.10.1982 al G.I. di Roma): "... nell'incontro che ebbi col CAVALLINI a Milano, al ritorno da Parigi, egli disse che il DE FELICE faceva parte della loggia massonica denominata P2 ed era collegato con Licio GELLI".

"In seguito CAVALLINI ebbe a confermarmi più volte questi legami, senza però spiegarmi la origine della notizia... non avevo peraltro motivo di dubitare della fondatezza dell'affermazione del CAVALLINI, il quale mi aveva sempre detto cose vere e non aveva nessun interesse ad ingannarmi".

"Il CAVALLINI mi disse anche che lo stesso SIGNORELLI era legato a Licio GELLI. Mi parlò anche' di un pranzo o di una cena alla quale avevano partecipato il GELLI ed il SIGNORELLI".

 

 

Aldo TISEI

Questo teste parlava degli attentati avvenuti a Roma, dopo il dicembre 1977, al CSM, a Regina Coeli, al Campidoglio, all'Autoparco dei Vigili Urbani.

Autori di quegli attentati erano stati l'ALEANDRI, il CALORE, lo IANNILLI, Bruno MARIANI e MACCHI Emanuele.

L'esplosivo era custodito a casa dello IANNILLI, detto 1'"agente Zeta".

Tutti attentati, rivendicati con la sigla MRP, braccio armato di "Costruiamo l'Azione", il più delle volte, concordati tra SIGNORELLI, FACHINI, CALORE e ALEANDRI.

Precisava in proposito il TISEI che quelle stesse persone gli avevano detto che si era trattato di una iniziativa politica decisa da loro.

Ancora, il TISEI doveva riferire di rapporti tra il SIGNORELLI ed ufficiali dell'esercito, nonché di rapporti conviviali tra lo stesso SIGNORELLI ed il GELLI.

 

 

4. Gli elementi relativi ai depistaggi

a. La pista indicata dal GELLI al CIOPPA

Nei primi giorni del settembre 1980, nella hall dell'Hotel Excelsior di Roma, il dottor Elio CIOPPA, funzionario del SISDE, si incontrava con GELLI che, riferendosi all'inchiesta di Bologna, gli diceva: "le indagini sono errate in quanto, secondo me, bisogna battere la pista internazionale".

 

b. il caso BARBERI

Un secondo episodio, che i primi giudici avrebbero valutato nel contesto della indagine sulle attività depistanti, era costituito dalla rivelazione del contenuto di due relazioni del SISMI, destinate alla esclusiva conoscenza del Presidente del Consiglio e del Ministro della Difesa, relazioni che il SANTOVITO ed il PAZIENZA avevano mostrato al giornalista BARBERI, il quale poi doveva pubblicare sul settimanale "Panorama" un articolo dal titolo "La grande ragnatela".

L'episodio sarebbe stato ricostruito dalla sentenza n. 45/85 della V Corte di Assise di

Roma, in data 29.7.1985.

In sintesi, poiché la magistratura bolognese aveva elogiato il SISDE, irritando il generale SANTOVITO, questi aveva consegnato al giornalista perché li consultasse, due fascicoli, uno intestato alla Libia e l'altro concernente altri paesi.

Subito dopo, il SANTOVITO aveva invitato il BARBERI a dichiarare che le notizie gli erano state fornite da una fonte anonima.

Il BARBERI doveva, in seguito, riferire ai giudici che lo stesso PAZIENZA gli aveva detto che quel documento che egli aveva pubblicato non era poi cosi importante e che era stato messo in piedi in pochi giorni dal SISMI al solo fine di dimostrare che il Servizio si interessava attivamente delle indagini sul terrorismo.

Parlando, poi, del terrorismo in generale, il PAZIENZA gli aveva detto che era sua convinzione che le radici del fenomeno fossero esclusivamente a sinistra e che occorresse lavorare sui legami internazionali dei terroristi con i Paesi Socialisti, aggiungendo che egli era

in Italia proprio per raccogliere tutti gli elementi utili a dimostrare la fondatezza di questa sua opinione.

 

c. La pista libanese

Pochi giorni dopo l'episodio BARBERI, il 17 settembre, sul quotidiano "la Repubblica" compariva un trafiletto riportante la dichiarazione di tale SALAH KALAF: "abbiamo documenti che provano il coinvolgimento falangista nella esplosione di Bologna".

Il 19 settembre, sul "Corriere del Ticino" veniva pubblicata una intervista, raccolta dalla giornalista Rita PORENA, ad ABU AYAD, esponente della O.L.P., il quale sosteneva che già da un anno la Organizzazione era venuta a conoscenza della esistenza di campi di addestramento per stranieri tenuti nei pressi di Aqura, controllati dalle destre maronite.

Dal contatto con due tedeschi, partecipanti al campo, si era appreso che in quella zona vi erano circa 35 persone, italiani, spagnoli e tedeschi e che il responsabile del gruppo era un tale HOFFMANN.

Il giorno dopo la pubblicazione della intervista, il Procuratore della Repubblica di Bologna, chiedeva alle Direzioni del SISDE e del SISMI alla Presidenza del CESIS, notizie ed accertamenti in ordine alle cose riferite da ABU AYAD.

Il 9 ottobre 1980 si aveva un prima risposta del Direttore del SISDE, Generale GRASSINI: attraverso un contatto ad alto livello era sembrata emergere una conferma delle dichiarazioni attribuite al signor SALAH KHALAF, alias ABU AYAD, braccio destro di YASSER ARAFAT.

Il 31 ottobre rispondeva il CESIS: il SISMI non era stato mai informato delle dichiarazioni di ABU AYAD; il Servizio tentava di ottenere concreti elementi di informazione.

Un altro appunto veniva trasmesso dal CESIS il 30 gennaio 1981: si confermava dei campi di addestramento, del fatto che due tedeschi avevano riferito dei propositi di italiani di colpire il PCI con azioni violente a Bologna... tra gli italiani un certo "Alfredo", forse bolognese, alto 1,75-1,80, snello, curato, si comportava da capo ed aveva parlato di

Bologna, quale esempio di città in mano ai comunisti e, quindi, da combattere.

L'appunto dal CESIS riferiva gli incontri tra tedeschi ed italiani e le dichiarazioni dell'Alfredo risalivano al luglio 1980 e non più ad un anno prima, come, invece, aveva inizialmente detto ABU AYAD nella sua intervista alla PORENA e si spiegava che quella discrepanza era derivata da un'involontaria confusione dell'intervistato, il quale, del resto, aveva rettificato le date in altra intervista apparsa sul Resto del Carlino del 27 dicembre 1980.

Il 27 ottobre perveniva alla Procura della Repubblica di Bologna un rapporto SISHI a firma del generale SANTOVITO, con la indicazione dei nomi di presunti responsabili di un furto di 8 quintali di esplosivo in Spagna; nomi di militanti dell'ETA e di altri gruppi; del noto francese Paul DURAND, di AFFATIGATO e di altri imprecisati italiani.

Il 2 novembre perveniva un appunto del Nucleo Operativo della Legione Carabinieri di Bologna che, a sua volta, lo aveva ricevuto dal SISMI.

Paul DURAND, esponente di prestigio del gruppo FANE, nel giugno 1980, si era incontrato a Roma con Maurizio BRACAGLIA, Ugo GAUDENZI, Walter SPEDICATO e Massimo TORTI per realizzare due grossi attentati in Europa.

Nel corso di quell'incontro, il BRACAGLIA avrebbe detto che per l'Italia ci avrebbe pensato lui.

Sulla pista cosi tracciata, si incanalavano altre informazioni, sempre più particolareggiate.

Nei primi giorni del 1981 il MUSUMECI consegnava un nuovo appunto al Giudice istruttore nel quale si ripeteva dell'incontro, nel giugno 1980, tra il DURAND ed il BRACAGLIA, capo del NUCLEO COMBATTENTI RIVOLUZIONARI, i cui direttivi DELLE CHIAIE, POMAR, MASSAGRANDE, AFFATIGATO, FUMAGALLI, si trovavano all'estero;

mentre altri, come FREDA e VENTURA, erano ancora in Italia.

L'incontro era stato promosso dal DELLE CHIAIE ed il BRACAGLIA avrebbe dovuto mettersi in contatto con RAUTI mentre era stata stretta alleanza col gruppo HOFFMANN.

In seguito, il BRACAGLIA si sarebbe

rifiutato di depositare nel bagagliaio della stazione di Bologna una valigia carica di esplosivo e, ripresi i contatti col DELLE CHIAIE, gli era stata data assicurazione che alla operazione avrebbero concorso quelli del gruppo HOFFMANN insieme con un giovane francese, aderente alla FANE, di nome Philippe, rimasto poi ucciso nella esplosione.

 

d. La valigia sul treno Tarante-Milano

II 9 gennaio 81 rientravano in Italia dalla Francia SANTOVITO e PAZIENZA e i due si incontravano nella saletta vip dell'aeroporto di Fiumicino con MUSUMECI e NOTARNICOLA.

Il MUSUMECI, in quella circostanza, consegnava al NOTARNICOLA un appunto con notizie circa l'imminente attuazione di un piano eversivo, con attentati dinamitardi sui più importanti tronchi ferroviari, progettato da direzione strategica costituita da FREDA e

VENTURA e portato avanti dalla organizzazione del DELLE CHIAIE.

Il piano prevedeva, inoltre, la consegna di ordigni a bordo di un treno.

Nei giorni successivi, pervenivano informazioni sempre più dettagliate, fino alla notte del 13 gennaio, quando al SISMI giungeva notizia, a mezzo di una telefonata, che la consegna dell'esplosivo sarebbe avvenuta sul treno 514 verso le ore 5,30, in una valigia scura con fibbie nuove.

Dopo un controllo, con esito negativo, alle stazioni di Ancona e Rimini, il treno giungeva a Bologna alle 9,26 e, in una vettura di seconda classe, veniva trovata la valigia descritta, contenente, tra l'altro, un mitra MAB, un fucile automatico da caccia, otto lattine riempite con 6\7 ettogrammi di sostanze esplosive e due biglietti aerei Alitalia, intestati a Dimitrief MARTIN, per il volo Milano-Monaco e a LEGRAND Raphael per il volo Milano-Parigi del 13 gennaio.

 

e. Gli appunti PAZIENZA-POMPÒ

Un nuovo episodio si aggiungeva agli elementi già acquisiti fino a questo momento.

I fatti sono stati ricostruiti dalla sentenza in data 29.7.1985 della Corte di Assise

di Roma.

Il dottor POMPÒ, dirigente del I Distretto di Polizia della Questura di Roma, preparava, (seconda la sentenza impugnata, su indicazione del PAZIENZA, che agiva d'accordo col SANTOVITO), due appunti: il primo, concernente un traffico di droga e il secondo una organizzazione, con sede a Monaco, composta da italo-tedeschi e con collegamenti con le Brigate Rosse.

Tale "Eros", padovano, brigatista rosso aderente alla organizzazione, il quale faceva la spola tra Monaco e Padova, aveva eliminato un certo Renato.

Un esemplare dell'appunto relativo al traffico di droga ed armi, con la data del 18 gennaio 1981 (e cioè di otto giorni prima) veniva, in seguito, ritrovato tra gli atti del soppresso Ufficio Controllo e Sicurezza del SISMI.

 

f. Il rapporto SANTOVITO

Intanto, il 24 febbraio SANTOVITO inviava un rapporto in risposta a quesiti proposti dal Procuratore della Repubblica di Bologna, dr.

SISTI circa la valigia ritrovata sul treno.

Quei biglietti aerei sarebbero stati acquistati a Bari da Giorgio VALE, persona che aveva mantenuto i contatti tra Terza Posizione, FANE ed il gruppo HOFFMANN, per la operazione "terrore sui treni".

Il VALE avrebbe affittato un appartamento ad Imperia, in via Risso o Rizzo n. 11, da utilizzare come base.

DIMITRIS e LEGRAND avrebbero dovuto ritirare ad Ancona i biglietti aerei e due armi automatiche e recarsi poi a Milano, mentre gli altri avrebbero proseguito per Bologna.

Le successive indagini su detto appartamento davano esito del tutto negativo.

Il 7 marzo 1981, infine, i carabinieri del Nucleo Operativo di Bologna comunicavano dell'esito negativo degli accertamenti svolti per addivenire alla identificazione degli italiani frequentatori del campo di Aqura e di quell'Alfredo, di origine bolognese.

 

 

g. Il sequestro di CASTIGLION FIBOCCHI

Intanto, il 17 marzo, per ordine dei giudici istruttori di Milano che procedevano per il "caso SINDONA", la Guardia di Finanza sequestrava, in Castiglion Fibocchi, una lista di iscritti alla Loggia P2, oltre a copiosa documentazione relativa alle attività ed ai traffici della Loggia.

Nell'elenco, i nomi del prefetto PELOSI, Capo del CESIS. del Generale SANTOVITO, Direttore del Sismi, del Generale GRASSINI, Direttore del SISDE, del Generale MUSUMECI, Capo dell'Ufficio Controllo e Sicurezza del SISMI.

 

Si sviluppava, intanto, la indagine relativa al ritrovamento della valigia carica di esplosivi sul treno.

Il generale MEI, vicedirettore vicario del SISMI, convocato dal P.M. in luogo del SAMTOVITO, in ferie "forzate", dichiarava di poter " confermare che la segnalazione della valigia era partita da un' occasionale fonte informativa, cosi come gli aveva riferito il co1onneIlo BELMONTE.

Si accertava, poi, che proprio in quell'arco di tempo, (luglio 1981), il BELMONTE si era recato a Vieste per incontrare il maresciallo dei Carabinieri Francesco SANAPO e raccomandargli di predisporre una versione di comodo circa la fonte della informazioni, essendosi trovati, lui ed il MUSUMECI, in gravi difficoltà.

Il SANAPO, in un primo tempo, dichiarava al P.M. di avere ricevuto da tale Peppe MONNA confidenze relative alla strage di Bologna ed alla vicenda del treno; confidenze che egli, poi, aveva riferite al BELMONTE.

In seguito, però, modificava la versione, dicendosi deciso a dire la verità, cioè, che quel confidente era stato del tutto inventato e che la richiesta di simulare un rapporto con un fantomatico informatore gli era venuta proprio dal BELMONTE, che gli aveva chiesto un aiuto per sé e per il MUSUMECI.

Altre interessanti dichiarazioni provenivano dal generale NOTARNICOLA il quale ricordava, tra l'altro, che la sera dell'11 gennaio il BELMONTE gli aveva detto che la notizia preannunciata si

stava concretizzando e che egli stava per partire allo scopo di contattare personalmente la fonte.

Alle richieste di spiegazione del NOTARNICOLA, il BELMOMTE aveva risposto vagamente, senza svelare la identità di quella fonte.

Il NOTARNICOLA, allora, aveva interessato i carabinieri di S. Severo, località nella quale il BELMONTE aveva detto che si sarebbe portato, nel tentativo, risultato vano, di localizzare lo stesso BELMONTE e di individuare la sua ignota fonte di informazioni.

Il 29 luglio 1981 il procedimento della "valigia" veniva formalizzato ed a carico di Giorgio VALE veniva emessa comunicazione giudiziaria.

Intanto, in quello stesso mese di luglio, il g.i. partiva per il Libano "nella speranza di risolvere in modo chiaro e definitivo il caso di Alfredo e dei suoi complici".

Il viaggio si risolveva in un nulla di fatto.

Infine, il 7 agosto, il generale SANTOVITO, rientrato dalle ferie, trasmetteva al g.i. una nota con la quale comunicava che non si era in

grado di fornire le richieste notizie circa la fonte e la sua attendibilità e che, comunque, le note informative trasmesse "erano da considerare come ipotesi di lavoro da confortare sulla scorta di concreti elementi eventualmente risultanti nel quadro generale delle indagini o ulteriormente acquisibi11 ..."

 

h. La pista CIOLINI

Se ne deve riferire, sia pure brevemente, perché dalle accuse provenienti dal CIOLINI, e dallo sviluppo delle relative indagini, i primi giudici dovevano trarre ulteriori argomenti di convincimento in ordine all'opera di inquinamento delle indagini posta in essere dai servizi deviati.

Anche il CIOLINI, infatti, forniva indicazioni che avrebbero dovuto indirizzare verso un gruppo internazionale composto da italiani , tedeschi e francesi, con precise responsabilità del DELLE CHIAIE.

Il giudice istruttore definiva le dichiarazioni del CIOLINI "calcolata miscela di verità e menzogne, capace di far presa e,

al tempo stesso, di fuorviare":

II CIOLINI, arrestato in Svizzera per reati comuni, il 10 novembre 1981, aveva indirizzato, dal carcere di Ginevra, una missiva al Console generale d'Italia, contenente un allegato sulla organizzazione terroristica denominata OT.

Tale organizzazione, sarebbe stata in contatto con quella frazione della OLP che si era resa responsabile della sparizione dei giornalisti italiani TONI e DE PALO e di alcune delle stragi verificatesi in Italia (piazza Fontana, Italicus, Bologna), oltre che del golpe Borghese e di traffici di valuta, di droga e di materiale bellico.

Il g.i. osservava che la lettera del CIOLINI sembrava contenere la perfetta descrizione di una organizzazione occulta, del tipo di quella che le indagini successive avrebbero ritenuto di individuare, composta da terroristi neri, massoni piduisti ed esponenti dei servizi segreti, quasi un "segnale in codice" lanciato per ottenere interventi in proprio favore.

Nel corso di una sua deposizione, il generale LUGARESI, capo del Sismi, affermava: "CIOLINI è uno dei più brillanti esponenti dello staff di GELLI, in collaborazione con l'avvocato FEDERICI...in particolare, i rapporti tra CIOLINI, FEDERICI, GIUNCHIGLIA...mi indussero a pensare che in qualche modo CIOLINI fosse legato a costoro, di cui erano noti i rapporti con la P2...in sostanza, l'intera attività del CIOLINI a me parve, e ne ho tuttora l'intimo convincimento, una ben riuscita manovra di depistaggio attuata per paralizzare le indagini sulla strage di Bologna".

 

Capitolo Secondo

DALL'ORDINANZA DI RINVIO A GIUDIZIO ALLA SENTENZA

 

1. La ordinanza

Gli imputati GELLI, MUSUMECI, BELMONTE, DE FELICE, SIGNORELLI, FACHINI, DELLE CHIAIE, TILGHER, BALLAN, GIORGI e PAZIENZA, (a seguito di apposito procedimento n.13/86) venivano rinviati a giudizio per rispondere del delitto di associazione sovversiva.

SIGNORELLI, FACHINI, RINANI, FIORAVANTI, MAMBRO, PICCIAFUOCO, CAVALLINI, IANNILLI, GIULIANI, RAHO e MELIOLI, dovevano rispondere del delitto di banda armata.

SIGNORELLI, FACHINI, RINANI, FIORAVANTI, MAMBRO e PICCIAFUOCO, dei delitti di strage, omicidio, e dei reati connessi.

HUBEL Klaus Friedrik, del delitto di falsa testimonianza.

GIORGI Maurizio, dei reati di detenzione e porto di una pistola cal. 7,65, con matricola abrasa.

PICCIAFUOCO, inoltre, del reato di falsa

dichiarazione sulla identità personale.

MUSUMECI, BELMONTE, PAZIENZA e GELLI, infine, venivano rinviati a giudizio per il delitto di calunnia aggravata.

 

2. Gli atti preliminari

La ordinanza-sentenza del 14 giugno 1986 disponeva, tra l'altro, la separazione degli atti relativi all'imputato PAZIENZA Francesco; il relativo procedimento prendeva il numero 181\A\86 R.G.G.I. ed allo stesso veniva acquisita una memoria difensiva dell'imputato.

Rientrato dagli Stati Uniti, il PAZIENZA rendeva il suo primo interrogatorio al G.I. il 28 giugno, respingendo le accuse, sostenendo di non essersi mai interessato alle indagini relative alla strage della stazione di Bologna, e richiamando, inoltre, quattro denunce presentate rispettivamente contro il generale LUGARESI, il prefetto PARISI, il colonnello COGLIANDRO e la signora LAZZERINI: denunce tutte archiviate.

Acquisiti ancora verbali di interrogatorio del PAZIENZA innanzi ad altre autorità

giudiziarie, il rapporto in data 16 ottobre dei Carabinieri di Bologna contenente un riepilogo delle indagini di maggior rilievo svolte sul conto dello stesso PAZIENZA anche da altre Autorità giudiziarie e dalla Commissione P2 ed altri rapporti della DIGOS, aventi il medesimo oggetto, in data 27 dicembre 1986, il g.i. depositava la ordinanza di rinvio a giudizio dell'imputato PAZIENZA.

Il 7 gennaio giungeva notizia della avvenuta estensione, da parte dell'Autorità statunitense, della estradizione del PAZIENZA anche ai delitti di associazione eversiva, e quindi, lo stesso giorno, l'imputato veniva tratto in arresto, in esecuzione del mandato di cattura del 10.12.1985.

3. Il dibattimento

Numerose erano le statuizioni della Corte in ordine a questioni preliminari ed istanze istruttorie, alcune delle quali riproposte con i

motivi di impugnazione.

Le date più importanti da ricordare, in successione cronologica, quella del 27 dicembre, allorquando il G.I. rinviava a giudizio il

 

PAZIENZA anche per il delitto di associazione eversiva; del 7 gennaio, quando il processo veniva assegnato alla Corte di Assise; del 15 gennaio 1987, quando il Presidente della Corte di Assise di primo grado, ricevuta la assegnazione del procedimento da parte del Presidente del Tribunale, emetteva il decreto di citazione a giudizio dal PAZIENZA per la udienza del 2 marzo 1987. (il procedimento n. 13/86).

Il procedimento relativo al delitto di calunnia, che vedeva imputati anche il MUSUMECI, il BELMONTE e Licio GELLI era stato, intanto, ritrasmesso al Tribunale di Bologna a seguito della sentenza della Corte di Cassazione in data 16 dicembre 1985 che, risolvendo conflitto negativo di competenza, sollevato dal Tribunale di Roma, aveva stabilito la competenza del Tribunale di Bologna.

A Bologna il procedimento relativo alla strage si trovava nella fase degli atti preliminari, in attesa della nuova fissazione del giudizio.

Il 19 gennaio aveva inizio, con la costituzione del rapporto processuale, il

giudizio relativo ai delitti di strage e banda armata (procedimento n. 12/86) e nella stessa udienza veniva fissata la data del 2 marzo per provvedere alla riunione col procedimento n.13/86, (il processo per associazione eversiva a carico del PAZIENZA).

Il 27 gennaio il Procuratore della Repubblica chiedeva al Presidente del Tribunale la restituzione del procedimento relativo alla calunnia (quello rimesso dalla Corte di cassazione) e, quindi, il successivo 4 febbraio, chiedeva al Presidente della Corte di Assise la citazione dei quattro imputati di calunnia.

Emesso decreto di citazione (il procedimento prendeva il numero 2/87), per la udienza del 2 marzo, alla successiva udienza del 9 marzo, i procedimenti 13/86 e 2/87 venivano riuniti al 12/86, per ragioni di connessione oggettiva, soggettiva e probatoria.

 

a: Questo, in estrema sintesi, il contenuto delle dichiarazioni degli imputati nel corso dei loro interrogatori dibattimentali.

 

Il FACHINI ricordava la sua iscrizione al FUAN intorno al '66 e poi al M.S.I. e la collaborazione alla stesura del giornale "Costruiamo l'azione"; nulla sapeva, invece, dei "Fogli d'ordine" .

Aveva conosciuto il CAVALLINI ma escludeva di avere mai fornito esplosivo all'ALEANDRI, ne di avere mai posseduto quel materiale e, in particolare, il T4.

Nell'ambiente del giornale "Costruiamo l'azione" aveva visto talvolta il SIGNORELLI, il CALORE e il DE FELICE.

Escludeva di avere organizzato la fuga di FREDA, di avere avuto mai rapporti con TP e con i NAR.

Rifugiatosi, nel 1973, per qualche mese in Spagna presso il DELLE CHIAIE, se ne era poi allontanato per contrasti politici ed umani.

Aveva conosciuto la COGOLLI tramite il SIGNORELLI, mentre non conosceva né il LABRUNA, né SPIAZZI, né MANGIAMELI, né VOLO.

Definiva il RAHO un buon amico addetto alla distribuzione di "Costruiamo l'azione".

 

Roberto RINANI negava le conoscenze attribuitegli e le rivelazioni, affermando di non essere depositario di segreti di sorta.

 

SERGIO PICCIAFUOCO, evaso dal carcere di Ancona nel 1970, e rimasto latitante fino al 1.4.1981, giorno della sua cattura al Valico di Tarvisio, ammetteva che dal 1971 aveva preso il falso nome di VAILATI Eraclio; aveva abitato a Modena, a Chiavenna, con frequenti spostamenti in Germania per far visita ai genitori.

Ripercorreva, quindi, le cose già dette a proposito della sua giornata del 2 agosto a Bologna e non sapeva spiegarsi come il suo nome fosse stato ritrovato sulla agenda del CAVALLINI, che diceva di avere conosciuto in carcere nel 1986.

 

GIOVANNI MELIOLI, dopo avere parlato delle sue esperienze politiche, ricordava l'amicizia col FACHINI e la collaborazione a "Costruiamo 1'azione".

Aveva incontrato una sola volta il FIORAVANTI e gli aveva manifestato la sua

riprovazione per l'episodio dell'assalto a "Radio Città Futura".

Escludeva di avere dato a Gianluigi NAPOLI i "Fogli d'ordine" e di avergli confidato che gli attentati MRP fossero ascrivibili alla destra.

Escludeva di avere conosciuto DE FELICE, RINANI, MANGIAMELI, IANNILLI, GIULIANI, CAVALLINI; conosceva, invece, il RAHO.

 

MARCELLO IANNILLI dichiarava di avere preso parte marginalmente alle iniziative di "Costruiamo 1'azione", mentre era stato fattivamente coinvolto nelle campagne di attentati del 78 e del 79, in occasione dei quali era stato utilizzato esplosivo fornito dall'ALEANDRI.

 

PAOLO SIGNORELLI ripercorreva la sua storia politica e sosteneva, tra l'altro, di avere interrotto i rapporti con ALEANDRI e SEMERARI dopo aver saputo dei contatti dell'ALEANDRI col GELLI.

 

FABIO DE FELICE escludeva di avere mai fatto

parte di AN, di ON o di Lotta di Popolo.

Raggiunto, nell'estate del 75, da mandato di cattura per la vicenda del "Golpe Borghese", era riparato in Inghilterra dove aveva incontrato qualche volta Clemente GRAZIANI.

ALEANDRI era stato suo allievo nell'anno scolastico 71-72 e da lui aveva saputo di Licio GELLI, descritto come persona influente nell'ambiente della massoneria e della D.C.

Nel '77, a casa del SEMERARI, aveva conosciuto il SIGNORELLI e, poi, anche il FACHINI ed il CALORE, ma i rapporti erano presto cessati.

 

ADRIANO TILGHER si definiva uno dei fondatori della nuova Avanguardia Nazionale, organizzazione da lui definitivamente sciolta nel 76.

Negava di avere mai conosciuto l'ALIBRANDI, il MANGIAMELI, lo SPIAZZI, il SORDI, e di

avere avuto altri contatti con estremisti di destra.

 

MARCO BALLAN ripeteva che AN, dopo il '76,

non era stata più ricostituita, anche se egli aveva mantenuto contatti col TILGHER ed altri ex appartenenti alla organizzazione.

Aveva conosciuto il FIORAVANTI, il CAVALLINI ed il FACHINI, ma non aveva alcun elemento concreto per far luce sulle stragi.

 

FRANCESCO PAZIENZA raccontava di avere vissuto a lungo all'estero venendo in contatto con realtà' politiche e finanziarie diverse.

Il generale SANTOVITO, che aveva conosciuto ad una colazione organizzata al Grand Hotel di Roma, gli aveva proposto di occuparsi della stazione del SISMI di Parigi.

Egli non aveva accettato, ma tuttavia aveva dato il suo aiuto ed aveva contribuito alla apertura di quella stazione, potendo contare su importanti conoscenze, anche in Vaticano.

Nella primavera del 1980, aveva partecipato ad alcune sedute a Forte Braschi, dove aveva conosciuto i vertici del SISMI.

Era, infine, entrato a far parte del SISMI

come consulente personale del Direttore del Servizio.

Dopo qualche tempo, lo stesso SANTOVITO gli aveva detto di far riferimento anche ad altre persone, tra le quali il generale MUSUMECI.

Nella primavera dell'81, aveva lasciato il SISMI ed era divenuto il consulente di Roberto CALVI.

Respingeva le dichiarazioni di Nara LAZZERINI circa la pregressa conoscenza di GELLI e ricordava due occasioni nelle quali egli aveva operato contro lo stesso GELLI•

Dopo aver parlato della parte avuta nel "caso CIRILLO" dichiarava di essersi affiliato "all'orecchio" e negava che tale tipo di affiliazione equivalesse alla iscrizione alla Loggia P2.

 

STEFANO DELLE CHIAIE dichiarava subito che, secondo la sua visione delle cose, lo stragismo era un fatto criminale ed infame, estraneo alla sua condotta politica e di uomo.

Ricordava e rettificava il suo percorso politico ed ideologico e precisava che i suoi

problemi avevano avuto inizio da una testimonianza che lo aveva implicato in qualche modo nei fatti di piazza Fontana.

Ripercorreva, quindi, i suoi numerosi spostamenti in vari paesi esteri e, in particolare, in quelli del Sudamerica.

I suoi rapporti politici col SIGNORELLI si erano conclusi col fallimento, nella riunione a Nizza del '75, della riunificazione tra AN e ON.

 

GIUSEPPE BELMONTE sosteneva di non avere mai saputo la vera fonte delle informazioni del SANAPO, relativamente alla vicenda del ritrovamento della valigia sul treno.

Al SANAPO aveva consegnato una busta contenente 300 milioni come compenso per la "fonte".

Dovendo continuare da solo a rispondere della fonte, quando il SANTOVITO ed il MUSUMECI avevano lasciato il SISMI, aveva chiesto al SANAPO di fornirgli un nominativo diverso, ricevendo appunto quello, falso, del MONNA.

Era stato iniziato alla Massoneria nel 1977.

PIETRO MUSUMECI iniziato anch'egli alla

Massoneria dal Gran Maestro SALVINI nel 1972, sosteneva di essere del tutto estraneo alla Loggia P2.

Aveva prestato servizio al SISMI dal 1978 a11'81 ed aveva conosciuto PAZIENZA nel 1980.

Il SANTOVITO gli aveva chiesto di sollecitare il BELMONTE per l'attivazione di una sua fonte, che egli sapeva essere il maresciallo SANAPO.

Sollecitato ancora dal SANTOVITO, l'8 gennaio, aveva accompagnato in aereo il BELMONTE a Brindisi dove avevano incontrato il SANAPO.

Il successivo 9 gennaio, all'aeroporto di Roma, in occasione del rientro del SANTOVITO da Parigi, aveva ricevuto dal BELMONTE la busta con la informativa circa la valigia.

 

b. La posizione processuale di GELLI.

Alla udienza del 22 settembre 1987, alla Corte perveniva la notizia ufficiale della detenzione di GELLI in Svizzera, a disposizione della autorità giudiziaria elvetica.

Con una prima ordinanza, la Corte disponeva

procedersi oltre nel dibattimento ed interpellarsi l'imputato circa le sue decisioni in ordine alla partecipazione al dibattimento.

II difensore del GELLI produceva, quindi, una dichiarazione dell'imputato, dalla quale, secondo la Corte, non poteva ricavarsi alcuna volontà di sottomissione alla giurisdizione italiana.

Veniva, pertanto, confermato l'ordine di procedersi nella contumacia dell'imputato.

 

c. Il ritrovamento di ordigni nel lago di Garda

Un rapporto in data 2 novembre 1987 del Nucleo Operativo dei carabinieri di Padova comunicava che erano state fatte delle immersioni in tre posti del lago di Garda, alla ricerca di quell'esplosivo che, secondo Gianluigi NAPOLI, era stato prelevato in più occasioni da esponenti della destra eversiva.

Nei punti indicati erano stati effettivamente individuati degli ordigni.

d. La perizia sul tatuaggio di PICCIAFUOCO

Questo accertamento veniva disposto

sul presupposto di fatto che il PICCIAFUOCO, fino al 1981, avesse impresso sul braccio un tatuaggio di forma diversa da quello che presentava alla Corte: i periti dovevano dire se ciò corrispondeva al vero; e, in caso di risposta affermativa, quale era la forma di quel tatuaggio preesistente e se lo stesso fosse stato cancellato o inglobato in quello successivo.

I periti, il 19 febbraio 1988 rispondevano al quesito nei seguenti termini: "è possibile, ed anzi, del tutto probabile, la esistenza sul braccio del PICCIAFUOCO di un precedente tatuaggio di forma diversa da quella attuale..."

Aggiungevano che il preesistente tatuaggio, la cui forma non era possibile identificare con certezza, era stato inglobato in quello attuale.

Le vestigia del preesistente tatuaggio apparivano compatibili con un tatuaggio composto, tra l'altro, da due lettere C, affiancanti due di

cinque puntini a croce, cosi come aveva riferito lo stesso PICCIAFUOCO.

Un ultimo episodio da segnalare, la memoria

 

indirizzata dal PAZIENZA al Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena.

In essa riferiva il PAZIENZA di avere appreso dal PICCIAFUOCO che costui, nel 1985, essendo detenuto all'Asinara, aveva potuto incontrare "tre misteriosi personaggi" che gli avevano promesso due o tre miliardi ed un passaporto per espatriare in Sudamerica, in cambio di una conferma da parte sua delle "assai improbabili teorie sviluppate dal G.I. e dal P.M. di Bologna".

Queste rivelazioni il PICCIAFUOCO le aveva fatte durante una pausa delle udienze innanzi alla Corte di Assise di Bologna.

Interpellato in merito al contenuto della lettera del PAZIENZA, il PICCIAFUOCO confermava le cose riferite, affermando: "..il discorso é talmente logico ! voleva che io collaborassi, che confermassi le accuse, non so dove volesse arrivare...".

 

Terminate le discussioni delle parti, e dopo avere deciso in ordine alla acquisizione ed alla utilizzabilità di atti e documenti, la

Corte, alla ore 12,40 del 23 giugno 1988, si ritirava in Camera di Consiglio per deliberare.

Ne usciva dopo diciotto giorni, l'11 luglio 1988.

 

 

 

 

 

Capitolo Terzo

LA SENTENZA DI PRIMO GRADO

 

1. Il delitto di strage

Dichiarati colpevoli del delitto di strage e dei reati ad esso connessi: FACHINI - FIORAVANTI - MAMBRO - PICCIAFUOCO; assolti per insufficienza di prove: SIGNORELLI - RINANI.

 

La esplosione, riconducibile ad ambienti della destra eversiva (documenti e testimonianze lo confermavano), e proveniente, inoltre, da un'organizzazione aggregante i poli romano e veneto della eversione neofascista, era stata sicuramente dolosa e non attribuibile a causa

accidentale.

 

a. i documenti

I documenti stavano a dimostrare la internità alla destra eversiva di strategie stragiste.

Del documento ritrovato, qualche giorno dopo la strage, a Bologna, in una cabina di via Irnerio, con l'annotazione "da TUTI a Mario Guido NALDI", si sottolineava la affermazione di indifferenza rispetto alla perdita di vite umane.

Il manoscritto di Carlo BATTAGLIA, sequestrato a Latina il 10.9.80 e intitolato "Linea politica", aveva esplicitamente affermato:

"bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi, i treni e le strade siano insicure, ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione".

Nella lettera inviata il 28.2.1980 da Carluccio FERRARESI a Roberto FRIGATO, quest'ultimo appartenente alla cellula veneta, si diceva delle aspettative diffuse nell'ambiente dell'eversione nel 1980 ed in quale contesto poté maturare la strage.

"Un'analisi tattica", documento sequestrato

a BONAZZI, autore Angelo IZZO, inneggiava al cecchinaggio, allo stragismo ed al terrorismo indiscriminato.

Tutti i predetti documenti delineavano con sufficiente chiarezza il contesto ideologico dell'ambiente.

 

La sentenza si soffermava, quindi, su fatti di strage anteriori al 2 agosto, come la strage di Peteano, che aveva portato alla condanna irrevocabile pronunciata dalla Corte di Assise di Venezia nei confronti del neofascista Vinciguerra; l'attentato sul treno Torino-Roma del 7.4.73, oggetto della sentenza della Corte Assise Genova, che aveva indicato tra i responsabili Nico AZZI, Mauro MARZORATI, Francesco DE MIN e Giancarlo ROGNONI, dirigenti ed attivisti della formazione di estrema destra "La Fenice"; l'episodio verificatosi a Milano, il 17.3.1973, addebitato all'anarchico Giancarlo BERTOLI, collaboratore dei servizi segreti con collegamenti con l'estrema destra; l'attentato al CSM del 20.5.1979 del quale si era dichiarato autore Marcello IANNILLI, che pure aveva

contestato l'accusa di strage, sostenendo di aver predisposto l'ordigno per uno scoppio notturno.

Il ritrovamento di un ordigno sulla tratta BO-FI il 21.4.1984 ed una strage evitata soltanto perché un congegno automatico di allarme aveva arrestato il treno.

Infine, si ricordava una recente sentenza della Corte Assise Firenze (del 15.12.87) che aveva condannato per strage i neofascisti CAUCHI, ZANI, DANELIETTI, BROGI.

Altri fatti, come la strage di Piazza Fontana, erano ancora sub iudice.

Dunque, osservava la Corte di primo grado, erano stati frequenti, dalla fine degli anni 60, gli attentati indiscriminati, specialmente contro obbiettivi ferroviari, da pane di formazioni della destra eversiva, coerentemente al retroterra ideologico e programmatico emergente dai documenti sequestrati.

 

b. Le testimonianze

Fonti rilevanti di informazioni, il Presilio VETTORE, il NALDI, Mirella ROBBIO, GIOVAGNINI , NICOLETTI.

Particolare peso indiziante assumevano le conversazioni captate nel carcere di Ferrara dall'AURORA, dal NICOLETTI, dal CAPRA, dal PAPALETTERE e dal FERRELI.

Dal complesso di quelle informazioni poteva ricavarsi che, da parte di elementi di spicco della eversione neofascista romana, che pure prendevano personalmente le distanze dalla strage, si riconosceva che quell'orrendo misfatto proveniva comunque dal loro ambiente e si manifestava stupore per il fatto che i mandati di cattura avessero prontamente falcidiato tanti camerati, mentre si affermava che non era stato voluto un massacro di quelle proporzioni, addebitandosi la enormità dell'accaduto al fatto di avere affidato la cosa a ragazzini.

In particolare, le dichiarazioni del NICOLETTI venivano giudicate credibili, considerato che, quale detenuto comune, di basso rango, non poteva conoscere le precise circostanze riferite circa il contenuto, la redazione e la diffusione della rivista Quex, né aveva la preparazione per inventarsi le citazioni e le analisi politiche attribuite al

BONAZZI, con il riferimento ai ragazzini e la indicazione del FACHINI e del SIGNORELLI quali ideatori della strage.

Ed il BONAZ2I, fonte qualificatissima, avendo avuto il ruolo di collegamento tra FREDA e TUTI, si era fatto trasferire dalla Sardegna a Rimini ed era entrato in contatto col RINANI, ottenendone informazioni che riferiva, poi, al NICOLETTI.

Anche il NALDI, redattore di Quex, aveva dato, secondo la Corte, indicazioni inizialmente precise, (anche se, in seguito aveva tentato di minimizzare).

Dopo aver ricordato di una visita del FIORE e dell'ADINOLFI, nella primavera del 1980, per la costituzione in Bologna di una sezione di TP e l'azione dei NAR a Roma, nella sede del P.C.I., col lancio di bombe a roano ed il ferimento di 25 persone, il NALDI aveva detto che gli attentatori venivano da fuori Bologna, che la strage, sicuramente di destra, era una provocazione contro Quex, ed era nata all'interno di una sorta di faida tra i vari movimenti, che SIGNORELLI, era il capo indiscusso

in Italia di O.N., organismo che usava anche le sigle di M.P.R., "Costruiamo l'azione" e Gruppi popolari di base.

Ed una conferma circa la fondatezza di tali valutazioni, era possibile ricavare da uno scritto apparso sul n. 5 della rivista Quex.

 

Di particolare significato, poi, la vicenda del Vettore PRESILIO, che, accoltellato in carcere, dopo aver reso le sue dichiarazioni, al dibattimento ritrattava.

Ritenuta valida la analisi compiuta dal g.i. circa la utilizzabilità del teste, si sottolineava come lo stesso fosse a conoscenza in anticipo dell'attentato e come la notizia gli fosse venuta da Roberto RINANI.

Rilevantissima appariva quella prima dichiarazione del 10.7.1980 al giudice di sorveglianza di Padova, con il preannuncio di un evento eccezionale, facilmente riferibile, a posteriori, alla strage della stazione di Bologna.

Si osservava ancora che il VETTORE, che per le sue mansioni, poteva venire in contatto con

tutti i detenuti e anche col RINANI, nonostante le sue condizioni di isolamento, era teste credibile quando diceva dei suoi incontri con lo stesso RINANI.

Ed anche se quest'ultimo aveva sempre negato di conoscere il VETTORE, questi, perfino in dibattimento, aveva ripetuto di avergli parlato, nel carcere di Padova.

La versione da lui fornita era, poi, rimasta ferma fino al suo accoltellamento (ed alla aggressione subita dalla moglie del RINANI) e nessuno avrebbe avuto interesse ad accoltellare l'autore di semplici farneticazioni che, se tali, sarebbero state facilmente smentite.

E del resto era stato lo stesso VETTORE a ricordare che coloro che lo avevano aggredito gli avevano detto che si trattava di una punizione per la sua "loquacità".

Il VETTORE, inoltre, era risultato in collegamento con la cellula veneta del FREDA e del FACHINI.

Conferme esterne delle dichiarazioni VETTORE provenivano dalle notizie circa un progetto di

attentato ad un magistrato e dagli stessi collegamenti fatti dal teste tra SIGNORELLI, SEMERARI e FACHINI.

Conclusivamente, secondo i primi giudici, il VETTORE aveva fatto rivelazioni di insuperabile forza probatoria proprio perché anteriori alla strage.

 

Altri elementi di giudizio venivano tratti dalle dichiarazioni di GIOVAGNINI e di Mirella ROBBIO.

Il primo, arruolato in T.P., ricordava che il FIORE gli aveva detto che il movimento a Roma era diventato molto forte, tutti i militanti erano armati ed il movimento si riprometteva azioni militari destabilizzanti per una rivoluzione di popolo.

La ROBBIO, moglie separata di Mauro MELI, ricordava che, poco prima della strage della stazione di Bologna, le si era presentato il

capitano SEGATEL per chiedere informazioni, sospettando che la destra stesse preparando qualcosa di molto grosso.

Quando, poi, vi era stata la strage alla

stazione, ricordava ancora la teste, "mi rammaricai di non aver fatto il possibile per raccogliere qualche informazione."

 

Le dichiarazioni di SPIAZZI

Nell'ambito del rapporto di collaborazione col SISDE, lo SPIAZZI era giunto a Roma il 17.7.80 al fine di raccogliere notizie sulle iniziative nell'ambiente neofascista.

Un controllo ed una conferma delle cose riferite dal teste provenivano dalle dichiarazioni del SALERNO, del BENFARI, della RACANIELLO Giulia e Anna Maria, del D'APRILE.

Il contenuto di quelle informative al SISDE poteva cosi sintetizzarsi: a Roma vi era un tentativo di riunificare in unica organizzazione i vari gruppi definiti genericamente NAR;

l'opera di riunificazione era condotta da certo Ciccio, identificato, poi, in MANGIAMELI.

Questi infatti, leggendo la intervista a SPIAZZI pubblicata sull'Espresso, doveva riconoscersi immediatamente nel "Ciccio" (vedi in proposito le dichiarazioni della vedova, Rosaria AMICO).

Quello stesso MANGIAMELI che, sempre secondo la informativa SPIAZZI, stava progettando un attentato ad un magistrato, ed aveva deplorato la strage della stazione di Bologna perché si era colpito nel mucchio.

"Alcuni volevano obiettivi indiscriminati, altri selettivi - si voleva uccidere un giudice"

Significativo, ancora, il fatto che il MANGIAMELI, prima di essere ucciso dal FIORAVANTI, aveva detto al VOLO che la strage della stazione di Bologna era opera dei servizi segreti, diretta a provocare una reazione contro la destra e che SIGNORELLI e FACHINI e AFFATIGATO erano agenti dei servizi.

Tutte notizie sovrapponibili a quelle raccolte dal VETTORE e provenienti dal RINANI.

Dunque, un controllo reciproco delle notizie.

In questo quadro, si innestavano le dichiarazioni del NICOLETTI, col riferimento ai ragazzini, già presente nelle confidenze fatte dal MANGIAMELI al VOLO e al CIAVARDINI, che aveva trovato da lui rifugio dopo la strage.

 

c. le responsabilità individuali

1. FIORAVANTI E MAMBRO

Passando all'esame delle responsabilità individuali, argomento centrale, considerato dai primi giudici, era la posizione del FACHINI e del SIGNORELLI, esponenti di un'organizzazione

terroristica dedita, tra il 1978 e il 79, ad attività dinamitarde, entrambi procacciatori di esplosivo.

La fitta trama di rapporti tra SIGNORELLI, FIORAVANTI, MAMBRO, FACHINI, CAVALLINI, si presentava come segnale indubitabile di un progetto di escalation terroristica.

In particolare, le prove a carico di FIORAVANTI e della MAMBRO venivano essenzialmente ricavate dalle dichiarazioni contraddittorie dei due in merito ai loro spostamenti; dalla telefonata di CIAVARDINI del 1.8.80; dai precedenti dinamitardi del FIORAVANTI e da un suo progetto per un'altra strage; dalla responsabilità dei due per l'omicidio del MANGIAMELI.

Altri segnali significativi venivano tratti dalla ricordata intervista di SPIAZZI all'Espresso, dalla lettera anonima inviata dal

VOLO e, soprattutto, dalla presenza alla stazione del PICCIAFUOCO, trovato poi in possesso di documenti che lo ponevano in diretto collegamento con VOLO e MANGIAMELI, nonché con gli stessi FIORAVANTI e MAMBRO.

Principale fonte testimoniale, circa la presenza a Bologna del FIORAVANTI e della MAMBRO, rimaneva lo SPARTI, controllato da DE VECCHI, la persona che aveva preparato i documenti per lo SPARTI: una patente ed una carta di identità per i primi di agosto.

Le cose dette dal FIORAVANTI allo SPARTI costituivano, se vere, una sorta di confessione stragiudiziale.

Il FIORAVANTI, negando di essere andato dallo SPARTI nei primi giorni di agosto, con quella richiesta di documenti, sosteneva che era stato il fratello a chiederne, ma non ad agosto, bensì nel mese di settembre.

Anche la MAMBRO ribadiva che i documenti non erano stati richiesti allo SPARTI per lei ed il Valerio, ma per altri, forse per ADINOLFI e sicuramente per FIORE, degni comunque di solidarietà anche se, in quel momento, avversati

dal loro gruppo.

Quanto, poi, alla rapina all'armeria, l'operazione era stata decisa per indicare alle nuove leve il tipo di lotta che si intendeva fare, dopo la strage della stazione di Bologna, dalla quale si intendeva prendere le distanze.

Dichiarazioni difensive giudicate dalla Corte come un tentativo di confondere l'episodio riferito dallo SPARTI con altro, ricordato anche dal SODERINI, allorquando il VALE si era interessato per documenti in favore del FIORE e dell'ADINOLFI, mentre doveva intendersi pienamente confermata la consegna dei documenti a Roma, dove i due erano il giorno 5 per la rapina, e menzognera la affermazione che i documenti servivano a FIORE ed ADINOLFI, dal momento che, proprio in quel periodo, il gruppo meditava di eliminare i due leaders di TP.

Sostegno probatorio della ipotesi d'accusa la sentenza ritrovava nella presenza degli imputati alla stazione il 2 agosto; nell'esplicito riferimento al botto, con le espressioni compiaciute di Valerio; nella esaltazione del

coraggio della MAMBRO; nell'asserito travestimento del FIORAVANTI, che gli dava tranquillità e nella preoccupazione, invece, per la MAMBRO, ricorsa ad una tintura dei capelli; nella stessa eccezionale urgenza di entrare in possesso dei documenti falsi; nelle minacce allo SPARTI e nelle ritorsioni contro il figlio, se non avesse mantenuto il silenzio.

Si chiedevano, ancora, i primi giudici, come avrebbe fatto lo SPARTI, se avesse voluto inventare l'intero episodio, ad indovinare la breve presenza a Roma ai primi di agosto, del FIORAVANTI e della MAMBRO provenienti dal Veneto per la consumazione della rapina di Piazza Menenio Agrippa.

La sentenza impugnata si occupava, quindi, degli alibi proposti dagli imputati.

Le ultime tracce, dei due imputati a Palermo, il 30 luglio, data di prenotazione di un volo a nome dei signori CUCCO.

La vedova di MANGIAMELI aveva detto che, dopo avere ospitati i due giovani a tre Fontane, lei ed il marito, ritenevano di doverli ospitare anche in città, ma, "... giunti all'aeroporto,

anzi nei pressi, ci chiesero di lasciarli li..."

La successiva traccia, certa, era data dalla presenza dei due a Roma il 5 agosto per la rapina in piazza Menenio Agrippa.

Le contraddizioni nelle quali i due imputati cadevano, riferendo di quei primi giorni d'agosto, erano state molteplici.

FIORAVANTI aveva sostenuto che il 1 agosto si trovavano a Treviso, e precisamente, a Fontane, in un appartamento della Flavia SBROIAVACCA, convivente del CAVALLINI, e che il 2 erano rimasti in casa senza fare nulla di rilevante; in quella casa, poi, avevano appreso dell'attentato di Bologna.

La MAMBRO ricordava, invece, con assoluta certezza che la mattina del 2 era partita con FIORAVANTI, con CAVALLINI e col CIAVARDINI in macchina per Padova, dove si erano fermati al mercatino per acquisti.

La prima notizia dello scoppio l'aveva data il CAVALLINI.

Quella stessa mattina del 2 agosto era venuta a casa la BRUNELLI, madre della Flavia a prendere la figlia ed il nipote per una

passeggiata.

Ha dalla BRUNELLI era venuta una pronta smentita: la donna ricordava, infatti, che i due giovani amici della figlia si erano visti soltanto qualche giorno dopo il parto ma non avevano dormito a casa della figlia, dopo la nascita del nipote.

Soltanto in un secondo momento il FIORAVANTI aveva cambiato versione, affermando che, in effetti, la mattina del 2 erano tutti partiti per Padova con una BMW, rientrando a Treviso verso le 13.

Altre contraddizioni la sentenza segnalava a proposito della presenza nel gruppo anche del CIAVARDINI.

E dubbi consistenti circa gli spostamenti del fratello in quell'arco di tempo aveva espresso lo stesso Cristiano, il quale, tra l'altro, aveva osservato che, conoscendo la meticolosità con la quale Valerio preparava le sue azioni, doveva presumere che il 2 agosto non fosse a Padova dal momento che il 5 aveva fatto la rapina a Roma.

La MAMBRO, inoltre, gli aveva detto che aveva per il 2 agosto un alibi che non valeva

niente, perché era nel Veneto, con Valerio e CAVALLINI; ed in realtà, il fratello non gli aveva mai detto dove si trovava quel giorno, anche se, dopo la emissione dei mandati di cattura per la strage della stazione di Bologna, Valerio gli aveva detto che con quel fatto non aveva nulla a che vedere perché il 2 era al mare.

Dunque, anche a Cristiano, i due (FIORAVANTI e la MAMBRO), avevano dato una versione diversa sul 2 agosto.

Altro elemento grandemente significativo era costituito dalla confidenza fatta al SORDI dal CAVALLINI, il quale aveva espresso tutto il suo scetticismo circa l'alibi proposto dal FIORAVANTI.

Egli, infatti, aveva detto: "che credi che veramente FIORAVANTI era a Treviso il 2, con me e la Flavia ?"

Ed anche da BBLSITO proveniva un elemento di dubbio, allorquando, trovandosi in Libano, aveva detto al SORDI che nei giorni della strage

della stazione di Bologna, FIORAVANTI non si

era visto e lo avevano incontrato solo in

occasione della rapina del 5.

DI particolare significato indiziante si caricava, secondo i primi giudici, la telefonata fatta dal CIAVARDINI agli amici per fermare la loro partenza per Venezia.

Cecilia LORETI aveva dichiarato: "la VENDITTI aveva preventivato di andare a Venezia il 1 agosto per far visita ad una cugina che aveva avuto un bambino - era la fidanzata di Roberto FIORE - ma giunse a Ladispoli, dove mi trovavo con la VENDITTI ed il PIZZARI, il padre del PIZZARI per dirci che aveva telefonato un amico, poi sapemmo essere il CIAVARDINI, per informarci di non partire più perché vi erano dei gravi prob1emi".

"Dopo il 2 agosto, io collegai le due cose e chiesi al CIAVARDINI e lui, il 4 agosto, mi disse che aveva avuto da fare per via di alcuni documenti che doveva attendere. Chiesi se c'entravano nella strage della stazione di Bologna ma dissero che queste cose non le facevano e si mostrarono indignati".

"Il 3 agosto, a Venezia, aspettammo alla stazione il CIAVARDINI, che arrivò e partì

nella stessa serata, dovendo tornare a Treviso dove dormiva presso degli amici, non mi disse

chi".

"Chiedemmo il giorno dopo al CIAVARDINI se

non vi era una relazione tra la sua telefonata e la strage della stazione di Bologna, ma il CIAVARDINI si mostrò offeso e parlò dei documenti" •

La telefonata veniva confermata anche da Elena VENDITTI, sentimentalmente legata al CIAVARDINI, anche se quella comunicazione era spostata al 2 agosto, a strage già avvenuta.

Il CIAVARDINI, da parte sua, non aveva escluso di avere telefonato agli amici per indurii a rinviare il viaggio ad una data successiva rispetto a quella programmata del 1 agosto ed aveva pure detto di non aver avuto alcun problema di documenti in quei giorni.

Ed in realtà, il 4 o 5 agosto egli aveva avuto un incidente d'auto ed aveva dovuto

esibire un falso documento, in tal modo bruciandolo: dunque, problemi di documenti, ma dopo il 3 agosto.

Poteva, pertanto, concludersi che era stato

programmato dalla VENDITTI un incontro col CIAVARDINI il 1 agosto a Venezia; la telefonata del CIAVARDINI aveva fatto rinviare il viaggio.

Ma già dal 3 o 4 agosto "i problemi", che certamente non riguardavano i documenti, erano stati superati.

E particolarmente significativa, secondo la sentenza, appariva pure l'altra circostanza riferita dalla VENDITTI la quale aveva avuto l'impressione che il gruppo ce l'avesse a morte col CIAVARDINI.

E quest'ultimo aveva ammesso di essere diventato una mina vagante e che volevano eliminarlo.

Sul punto, ricordava, ancora, la sentenza le cose dette dall'IZZO e confermate dalla FURIOZZI:

"Cristiano mi disse che Valerio gli aveva raccomandato di tenere fuori dall'omicidio AMATO il CIAVARDINI perché sapeva cose sulla strage della stazione di Bologna".

E la PURIOZZI: "è vero che Cristiano disse ad Angelo IZZO che il fratello lo aveva invitato a coprire le responsabilità del CIAVARDINI per

l'omicidio AMATO, in quanto il CIAVARDINI sapeva

cose sulla strage della stazione di Bologna".

Restava il fatto che CIAVARDINI, fino al giorno della strage era in perfetto accordo e divideva la latitanza col PIORAVANTI, la MAMBRO ed il CAVALLINI.

Poi sembrava che i percorsi all'improvviso si fossero divaricati, fino a mettere in pericolo la sua vita, certamente non a causa del banale torto di aver "bruciato" un documento, in occasione dell'incidente stradale.

Unica la spiegazione, secondo i giudici della Corte di primo grado: il coinvolgimento del FIORAVANTI nella strage della stazione.

Del resto, contestualmente all'omicidio del MANGIAMELI, erano ricercati anche il FIORE e l'ADINOLFI, persone che avrebbero potuto anch'esse far risalire alle responsabilità del FIORAVANTI.

La leggerezza del CIAVARDINI era stata quella di far sospettare, con la telefonata, persone estranee al gruppo circa i gravi problemi che potevano essere poi messi in relazione alla strage della stazione di Bologna.

Arrestato il FIORAVANTI la spedizione

punitiva contro il CIAVARDINI era fallita.

Il FIORAVANTI, allora, aveva cercato merce di scambio col CIAVARDINI, tenendolo fuori dal delitto AMATO.

 

Altro argomento di approfondita analisi da parte dei primi giudici era quello dei precedenti terroristici del FIORAVANTI e del suo gruppo.

Si era osservato che la strage della stazione di Bologna era fuori delle modalità operative e degli obiettivi del gruppo di FIORAVANTI.

Cristiano però aveva pur riferito di altri precedenti attentati: all'ACEA, alla centrale del latte di Roma, contro sezioni del PSI e del PCI, con uso di bombe ed esplosivo.

E la sentenza, a questo punto, richiamava l'elenco degli attentati NAR fatto dal giudice istruttore.

FIORAVANTI, inoltre, aveva più volte

dimostrato di non tenere in alcun conto la vita umana (vedi l'attentato a Radio città futura) e lo stesso Egidio GIULIANI aveva attribuito l'attentato a quel "folle" di FIORAVANTI.

In un tale contesto, assumevano rilievo anche le dichiarazioni del NAPOLI circa il progetto del FIORAVANTI di collocare una bomba in un bar frequentato da personale della questura.

 

L'omicidio MANGIAMELI si aggiungeva, e completava, il quadro d'accusa.

Compiuto in gran segreto, con l'occultamento del cadavere, affondato in un lago, affinché, come aveva detto lo stesso FIORAVANTI, non si compromettessero ulteriori operazioni in corso contro FIORE e ADINOLFI.

A proposito della intenzione, manifestata dal FIORAVANTI, di uccidere anche la figlia e la moglie del MANGIAMELI, Cristiano aveva detto:

"non mi spiegavo questa idea di Valerio ed allora lui mi disse che avevano ucciso un politico siciliano in cambio di favori promessi dal MANGIAMELI e relativi sempre alla evasione del CONCUTELLI, oltre ad appoggi di tipo logistico in Sicilia... per decidere l'omicidio del politico, vi era stata una riunione a casa del MANGIAMELI e vi erano anche la moglie e la figlia ed uno della regione

Sicilia che aveva dato la "dritta" per fare l'attentato; ..dunque, bisognava uccidere anche le donne che erano state presenti alla riunione."

Rivelazioni, queste di Cristiano sull'omicidio Mattarella, non confermate in

dibattimento.

Ma la verità, secondo la Corte, era

che Valerio aveva fatto ricorso ad un'altra bugia per tacere anche al fratello le proprie responsabilità nella strage della, stazione di

Bologna.

Ed infatti, la sola conoscenza da parte del

MANGIAMELI delle responsabilità del FIORAVANTI in ordine all'omicidio Mattarella, non avrebbero

potuto giustificare il suo assassinio.

E ciò tanto più se si considerava che

dalla morte di Mattarella a quella del MANGIAMELI erano passati otto mesi e che alla fine di luglio FIORAVANTI e MAMBRO erano ancora ospiti del MANGIAMELI col programma della

evasione del CONCUTELLI.

Nulla, dunque, faceva ancora presagire

l'uccisione del MANGIAMELI, quando i due si erano lasciati il 29-30 luglio; e dopo quella data vi

era stato il fatto nuovo, la strage della stazione di Bologna.

Sempre secondo la sentenza, il MANGIAMELI si era riconosciuto nel Ciccio della intervista SPIAZZI ed aveva comunicato le sue apprensioni alla moglie ed al VOLO, cominciando a lanciare pesanti accuse.

Si spiegava in tal modo la lettera anonima che intendeva sollecitare una verifica circa la estraneità del gruppo siciliano al gravissimo fatto.

Ed il MANGIAMELI, impaurito delle possibili accuse per la strage della stazione di Bologna, e diventato inaffidabile, doveva morire ed il FIORAVANTI non aveva avuto esitazioni.

Del resto, la vedova, e tutto l'ambiente, avevano subito capito chi era l'assassino ed ecco perché nel volantino di commemorazione del MANGIAMELI si parlava della 85° vittima della strage della stazione di Bologna.

Sempre il VOLO aveva, inoltre, ricordato che era convinzione del MANGIAMELI che la strage della stazione di Bologna era strage di Stato.

Tutto ciò rendeva pericoloso il MANGIAMELI

agli occhi del FIORAVANTI.

 

2. Le prove a carico del PICCIAFUOCO

Quanto alle prove a carico del PICCIAFUOCO, si considerava il suo passato di ex detenuto comune, poi politicizzato e avvicinatosi a TP; le contraddittorie dichiarazioni circa la sua presenza alla stazione di Bologna il giorno della strage e l'inserimento del suo nome in un elenco di detenuti di destra sequestrato a CAVALLINI.

La sentenza si soffermava, in particolare, sulle molte sue menzogne, osservando che, anche se, in un primo momento, egli avesse voluto tacere il motivo della sua presenza alla stazione, perché illecito, in seguito, dopo la gravissima accusa di strage, avrebbe dovuto rivelarlo.

Questa la proposizione centrale del ragionamento della Corte di primo grado.

La motivazione del viaggio a Milano per reperire documenti, appariva alla Corte poco plausibile; e del resto, il PICCIAFUOCO un documento lo aveva, la falsa patente intestata a

VAILATI Eraclio, e se ne serviva regolarmente e

senza problemi.

Davvero incredibile, poi, doveva ritenersi la circostanza asserita dall'imputato, e cioè, che i dati corrispondenti alla falsa patente erano stati da lui inventati e, soltanto per un caso, erano risultati corrispondenti a quelli della patente del VAILATI.

Il PICCIAFUOCO, inoltre, non era rimasto a dormire, la notte tra il 1 ed il 2 agosto, dal COPPARONI, che lo aveva smentito sul punto.

Altro elemento inquietante preso in considerazione dalla sentenza, era poi, quello strano, e tortuoso, percorso per raggiungere Milano la mattina del 2.

Incomprensibile la decisione di prendere un taxi per raggiungere Bologna, mentre a disposizione vi erano almeno tre treni.

Tutti i taxisti interrogati avevano escluso quel viaggio da Modena a Bologna.

Altra menzogna, quella dei soccorsi dati ai feriti, prima di sottoporsi alle cure dei" sanitari: il referto relativo alla sua presentazione al pronto soccorso (ore 11,36) era del tutto inconciliabile con quella versione e la

smentiva.

Osservava la Corte che, ferito e lacero nei vestiti, doveva assolutamente farsi medicare, perché lo avrebbero comunque fermato lungo la strada, in quella particolare giornata.

Una volta medicato e ricomposto negli abiti, egli poté lasciare Bologna indisturbato.

Quanto all'agente Celestino CARLUCCIO, corrispondente alla descrizione del PICCIAFUOCO, lo stesso aveva escluso che quell'individuo avesse collaborato con lui nel soccorrere i feriti.

Altro argomento centrale nella motivazione della Corte, la considerazione circa i collegamenti del PICCIAFUOCO con organizzazioni eversive e, in particolare, col gruppo FIORAVANTI.

Il rapporto in data 8.7.83 dei Carabinieri di Ancona riferiva di un PICCIAFUOCO politicizzato ed entrato in TP nel 1980, abilissimo nell'uso delle armi. „

Altre informazioni indicavano il PICCIAFUOCO tra gli aderenti a TP e frequentatore di una emittente radio che era stata visitata anche dal

SIGNORELLI.

La fonte dei Carabinieri era stata identificata in Leonardo GIOVAGNINI, di Osimo, località nella quale il PICCIAPUOCO era stato segnalato.

GIOVAGNINI, che aveva trovato un rifugio al CIAVARDINI in S.Benedetto del Tronto, ed aveva ammesso la conoscenza di MANGIAMELI.

Dunque, una trama di legami.

Ulteriore elemento significativo, la annotazione del nominativo del PICCIAFUOCO sulla agenda del CAVALLINI, agenda sequestrata al momento della cattura, il 12.9.1983; anche se il CAVALLINI si era sforzato di sostenere di non aver mai conosciuto il PICCIAFUOCO, ammettendo soltanto che qualcuno poteva averglielo segnalato come detenuto appartenente all'area della destra.

E poi, la questione della patente intestata a VAILATI e le strane coincidenze: VAILATI Eraclio quella del PICCIAFUOCO, VAILATI Adelfio quella del VOLO: il primo presente alla stazione, il secondo autoaccusatosi della strage.

Risultate false e menzognere tutte le

spiegazioni che il PICCIAFUOCO aveva tentato di dare a proposito dei fornitori di quei documenti, secondo i primi giudici, l'imputato non aveva potuto rivelare la provenienza del documento perché così facendo sarebbe stato evidente e palese il suo collegamento con l'organizzazione o il gruppo nel quale era maturata l'idea della strage.

Un successivo tema di approfondimento era costituito dal passaporto intestato a PIERANTONI ENRICO.

Se ne era occupato il rapporto DIGOS Bologna del 20.8.1987 e si trattava del passaporto sequestrato all'imputato, al momento del suo arresto al valico di Tarvisio.

Documento che, anche se diverso da quello rilasciato a tale Riccardo BRUGIA, portava il medesimo numero E213730.

Ed il BRUGIA, era la stessa persona che, accusato di partecipazione alla banda NAR, aveva dichiarato al P.M. di avere favorito ALIBRANDI cedendogli i propri dati anagrafici ed il numero del suo passaporto per l'espatrio in Libano.

In dibattimento, poi, aveva ammesso di avere conosciuto Cristiano FIORAVANTI, col quale aveva coabitato in una casa di Pescasseroli, casa nella quale si sarebbero ricoverati anche la MAMBRO e VALE.

Dunque, in ogni caso, collegamenti, attraverso il numero del suo passaporto, con l'ALIBRANDI e col PICCIAFUOCO; il quale aveva ancora mentito a proposito della provenienza del passaporto intestato al PIERANTONI, sostenendo di averlo avuto dal LORIA tra il 71 ed il 74, mentre egli si trovava in possesso anche di carta di identità' falsa intestata allo stesso nominativo su modulo proveniente da un quantitativo di moduli in bianco rubati al comune di Roma il 9.2.81.

Anche per questi episodi, la spiegazione era che il PICCIAFOOCO non poteva dire il vero e doveva rifugiarsi nelle menzogne.

I documenti, dunque, ricollegavano il PICCIAFUOCO al FIORAVANTI; uno attraverso il VOLO, interno al gruppo palermitano che faceva capo al MANGIAMELI; l'altro attraverso il BRUGIA, legato a Cristiano FIORAVANTI, alla MAMBRO ed a

VALE.

La valenza indiziaria derivante dal possesso dei due documenti era elevatissima.

 

3. FACHINI

Quanto al FACHINI, indicato dal VETTORE come capo di un gruppo, del quale faceva parte anche il RINANI, ed al cui interno si progettava una strage, disponeva di ingenti quantitativi di esplosivo di recupero militare, e in particolare, di quello entrato nella composizione della miscela usata per la strage della stazione di Bologna.

NAPOLI Glanluigi aveva indicato i vari punti del Lago di Garda in cui si trovava sommerso 1'esplosivo dal quale il gruppo FACHINI attingeva.

Rilevante, inoltre, si consideravano le testimonianze di Mauro ANSALDI e STROPPIANA Paolo, secondo i quali, il FACHINI, nell'imminenza della strage del 2 agosto, aveva incontrato a Bologna Giovanna COGOLLI e l'aveva invitata a lasciare la città.

La presenza operativa attraverso "Costruiamo

l'azione" e l'esperienza nella tecnica esplosivistica costituivano acquisizioni che, secondo la Corte, avevano decisivo rilievo probatorio.

All'interno di "Costruiamo l'azione", che era del 78-79, antecedente alla costituzione della banda armata, si trovavano anche il SIGNORELLI e il SEMERARI.

Provato, inoltre, il collegamento col RINANI, apparendo del tutto inaccettabile quel tentativo di escludere ogni reciproca conoscenza tra un FACHINI iscritto nel MSI a Padova, sin dal 1975 ed un RINANI iscritto nella sezione Arcella della stessa città nello stesso 1975 e segretario della sezione dal '76 al '77.

E quanto alle accuse del NAPOLI, lo stesso FACHINI aveva ammesso di conoscerlo e di avergli dato i manifesti con la colomba; quei manifesti che, secondo il CALORE, erano stati preparati per la manifestazione al cinema Hollywood di Roma, alla quale intervenne il SEMERARI ed il SIGNORELLI.

Anche l'ALEANDRI aveva detto di aver sentito fare il nome del RINANI all'interno del gruppo;

anche se, poi, le sue dichiarazioni dibattimentali erano diventate più vaghe.

Ed infine, la testimonianza, già ampiamente richiamata, di VETTORE Presilio, con l'indicazione di quella cellula veneta della quale FACHINI era il capo, con il torto, unitamente al SIGNORELLI, di essersi affidato ai "ragazzini".

Altra conferma dell'assunto accusatorio proveniva dal possesso di quantitativi di esplosivo e, in particolare, del componente T4.

Alle riserve ed osservazioni avanzate dalla difesa circa il ritrovamento di T4 alla stazione di Bologna, bersaglio, durante la guerra, di bombardamenti aerei, si ribatteva, da parte della Corte, che il T4 era stato ritrovato anche al di sotto delle carrozze e sui carrelli del treno Ancona - Basilea.

E contro l'altra osservazione critica, che il T4 non compariva tra i campioni repertati nella immediatezza della esplosione, si osservava in sentenza, che avrebbe dovuto ipotizzarsi, senza alcuna prova, che qualcuno, a distanza di tempo, avesse disseminato le carrozze di tracce di quel

componente.

Circa l'uso del T4 nella miscela esplosiva, i periti avevano proposto due ipotesi: 1) che con esso fosse stato confezionato un detonatore secondario; 2) che il T4 fosse entrato nella miscela esplosiva, frammisto al tritolo, componente principale.

In tale ultima ipotesi, il tritolo sarebbe provenuto da recupero, cioè da sconfezionamento di cariche esplosive.

Secondo la perizia, inoltre, per il suo costo, il t4, di solito non entrava a far parte di esplosivi per impieghi civili.

Entrambe le alternative riconducevano al FACHINI.

Aveva detto, in proposito, il CALORE che l'unico esplosivo T4 da lui conosciuto proveniva dal Veneto, e cioè da FACHINI; "quello... era di tipo militare ..FACHINI riferiva che questo proveniva da recuperi fatti da materiale bellico in un laghetto veneto".

Ed ALEANDRI: "mi ero messo in contatto con quelli di Padova, FACHINI e RAHO, che avevano esplosivi… RAHO mi portò una borsa con

una decina di chili di esplosivo cristallino compatto, parte aventi l'aspetto di forme di parmigiano e parte in forme circolari...1'esplosivo di FACHINI comprendeva oltre quello a forma di parmigiano, l'ANFO e delle pizzette di t4 da usare come innesco per gli esplosivi più sordi".

"FACHINI diceva che questo esplosivo veniva recuperato in un lago da uno chiamato il "sub" ed era di provenienza bellica: bombe disattivate, dalle quali veniva estratto 1' esplosivo.

Ed il NAPOLI; " il MELIOLI accennava di aver sentito, dal FACHINI, che avvenivano recuperi di esplosivo da un laghetto. Ma non sono sicuro che MELIOLI mi abbia detto di avere saputo questa cosa direttamente dal FACHINI o che piuttosto era una voce che circolava nell'ambiente di destra".

Marcello IANNILLI, nell'attentato al carcere di Regina Coeli, aveva utilizzato pizzette di t4.

La perizia disposta dal G.I. di Treviso che procedeva contro FACHINI per l'attentato a Tina

Anselmi, aveva concluso affermando che il materiale usato in quella circostanza era di provenienza militare e si era ricorsi alla tecnica del preinnesco.

Si e' detto, poi, che erano stati individuati i luoghi, nel Lago di Garda, ove giaceva quel materiale e che i periti avevano giudicato possibile, anche se estremamente difficile, il recupero di quegli ordigni.

La sentenza utilizzava, infine, l'episodio dell'avvertimento di FACHINI alla COGOLLI, come riferito da Mauro ANSALDI e Paolo STROPPIANA.

Un amichevole avvertimento ad allontanarsi per tempo per evitare di rimanere coinvolta negli arresti degli estremisti di destra, dopo la strage della stazione di Bologna.

ANSALDI e STROPPIANA, del resto, non erano animati da intenti accusatori contro FACHINI, non avevano calcata la mano, non si erano offerti come sospetti testi.

I due erano i referenti torinesi del FIORE e dell'ADINOLFI ed avevano provveduto al rimpatrio dello ZANI e della COGOLLI dalla Francia.

Ne poteva pensarsi che la COGOLLI avesse voluto danneggiare, con quelle rivelazioni, il FACHINI.

La donna, infatti, proprio per conto del FACHINI, aveva provveduto a diffondere il giornale "Costruiamo l'azione", dopo essere stata presentata dal SIGNORELLI, secondo quanto aveva affermato lo stesso FACHINI al dibattimento.

La prova che l'avvertimento c'era stato la si ricavava, del resto, dal fatto, incontroverso, che la COGOLLI aveva lasciato effettivamente e precipitosamente Bologna poco prima della strage della stazione.

In proposito, si richiamavano anche le dichiarazioni del NALDI: (p.848): "mio fratello partì con la COGOLLI sabato mattina, 2 agosto, all'alba".

FACHINI era stato al campeggio Riviera in Ugento, con la famiglia, dal 26 luglio al

7 agosto: dunque, l'incontro con la ragazza e l'avvertimento, si poteva collocare al 26 luglio o ad una data prossima, lungo il percorso tra Padova ed Ugento.

Ricordava, ancora, la sentenza, le cose dette dal NICOLETTI e dallo stesso MANGIAMELI circa la strumentalizzazione di giovanissimi ed il fatto che il FIORAVANTI, la MAMBRO, il CIAVARDINI erano stati ospiti del MANGIAMELI.

Anche i sospetti da quest'ultimo esternati al VOLO circa le trame occulte del SIGNORELLI e del FACHINI certamente derivavano da una sua diretta conoscenza di fatti ed ambienti ed erano state immediati.

Sovrapponibili, dunque, le indicazioni provenienti dal MANGIAMELI, attraverso il VOLO, a quelle del BONAZZI, attraverso il NICOLETTI.

La strage della stazione di Bologna in termini militari rappresentava, secondo la Corte, la massima e, politicamente, più impegnativa strategia della banda armata.

In tale struttura armata, il FACHINI aveva occupato un posto di primissimo piano e la strage della stazione di Bologna era stata realizzata per dare esecuzione al programma della banda armata.

Strategia della banda che era quella di ricompattamento del frastagliato arcipelago della

eversione di destra, di riunificazione delle componenti vecchie e nuove: e l'attentato era tra i molteplici strumenti tattici.

 

4. La assoluzione del SIGNORELLI

L'imputato aveva occupato, secondo la Corte di primo grado, posizione di primissimo piano nella banda armata, come ideologo, ispiratore politico, ma anche come procacciatore di esplosivo.

All'interno della banda armata, il SIGNORELLI si era trovato in diretto contatto col FIORAVANTI ed il FACHINI, mantenendo contatti stretti e perduranti anche nella estate 1980.

La casta dei togati, indicata come obiettivo da colpire e VETTORE Presilio aveva parlato di un prossimo attentato ad altro giudice, programmato dal gruppo FACHINI.

Vi era, in conclusione, tutto un vissuto indiziario, nel quale andavano ad innestarsi le dichiarazioni NICOLETTI.

Ma se la decisione relativa alla strage della stazione di Bologna aveva impegnati gli alti livelli decisionali della banda armata,

non necessariamente doveva aver coinvolto anche il SIGNORELLI, per il solo fatto di avere egli avuto posizione di vertice all'interno della organizzazione.

L'addebito mosso dal BONAZZI al FACHINI ed al SIGNORELLI, di essersi affidati a ragazzini, poteva avere accomunato la responsabilità operativa del FACHINI a quella soltanto politica del SIGNORELLI, colpevole di avere elaborato una strategia in ossequio alla quale ragazzini a lui legati avevano fatto una strage di tale gravità.

 

5. La assoluzione di ROBERTO RINANI

Questi gli elementi considerati a suo carico:

era a conoscenza del progetto tanto da poterne anticipare la prossima esecuzione al VETTORE;

parlandone con quest'ultimo aveva tradito anche la sua adesione alla operazione.

D'altra parte, veniva considerato il fatto che egli non aveva avuto compiti esecutivi, ne

erano emersi elementi sufficienti per potergli attribuire un ruolo determinato all'interno della banda armata.

Neppure poteva parlarsi di un suo concorso

morale, dal momento che, considerato il suo ruolo gregario all'interno della organizzazione, sembrava difficile affermare che la sua adesione al progetto avesse potuto incidere sulla concreta determinazione di coloro che quel progetto avevano ideato.

Anche il RINANI, pertanto, veniva assolto con la formula del dubbio dal delitto di strage e da quelli connessi.

Quanto al reato di danneggiamento, se ne dichiarava la estinzione per avvenuta prescrizione.

 

2. Il delitto di banda armata

La Corte introduceva l'esame dei dati acquisiti con considerazioni d'ordine generale circa la collocazione da dare e la valenza da riconoscere alle dichiarazioni di imputati in procedimenti connessi.

Gli elementi provenienti da quelle

dichiarazioni non potevano essere considerati alla stregua di meri indizi, ne di semplici notitiae criminis.

Quelle dichiarazioni stesse dovevano farsi

rientrare nel sottoinsieme delle testimonianze, meno affidabili della testimonianza perché provenienti da un soggetto non terzo; prive, quindi, della stessa presunzione di credibilità, con la conseguente necessità di ricorrere a criteri di valutazione più rigorosi ed a controlli estrinseci; anche se questi ultimi non dovevano essere confusi con prove autonome.

Si osservava, inoltre, che se un fatto era stato riferito da due o più persone in termini sovrapponibili allora:

a) o i soggetti avevano realmente percepito quel fatto;

b) o si erano accordati per enunciare la stessa bugia.

Dovevano, invece, ritenersi nulle le probabilità di una convergenza casuale tra più dichiaranti e in ordine a fatti altamente specifici.

Dopo la enunciazione degli elementi costitutivi un banda armata (una pluralità di persone, una struttura organizzativa permanente, una dotazione di armi adeguata, uno scopo comune), la sentenza delineava i momenti iniziali

della struttura ed 11 suo inserimento strategico.

Entrata in crisi la esperienza della rivista ""Costruiamo l'azione" e del gruppo che vi faceva riferimento, nonché quella del gruppo NAR, si registrava un grave sbandamento anche in TP, ma il patrimonio di esperienze, di capacità militari, di legami intersoggettivi del gruppo di "Costruiamo l'azione" diventava il substrato essenziale della banda armata."

Tanto i Nar, quanto il gruppo coagulatosi intorno a Costruiamo l'azione, erano ricorsi frequentemente ad attentati con ordigni esplosivi.

Negli anni 78-79, il tiro era stato alzato, gli episodi si erano fatti gravi, con la scelta di bersagli simbolo del potere istituzionale.

Di quegli episodi criminosi avevano parlato diffusamente l'ALEANDRI ed il CALORE, che avevano indicato nel FACHINI la persona che riforniva il gruppo romano di armi ed esplosivi.

E la sentenza passava, a questo punto, ad esaminare, con valutazioni critiche che sono state spesso contrastate ed attaccate dalle

posizioni di difesa, la credibilità dei singoli soggetti dichiaranti e la attendibilità dei contributi forniti, ampiamente, dai vari CALORE, ALEANDRI, SORDI, IANNILLI, IZZO, NAPOLI, TISEI.

Si tratta del copioso materiale, sinteticamente richiamato nella prima parte di questa esposizione, che la Corte di primo grado sottoponeva a nuovo esame.

Il tema che ne scaturiva era quello dei rapporti intersoggettivi che avevano cementato l'intesa banditesca.

Poteva parlarsi di una vera e propria cooptazione del FIORAVANTI nel gruppo di CALORE, (i due si erano conosciuti nel 1979 nel carcere di Rebibbia) costituito dagli operativi dell'ambiente di "Costruiamo l'azione", che aveva stretto legami col gruppo di Egidio GIULIANI.

Lo stesso CALORE aveva ricordato gli inizi dell'alleanza: "qualche giorno dopo la mia

scarcerazione, venne a casa SIGNORELLI con tutta la famiglia; alcuni giorni dopo rividi FIORAVANTI, scarcerato alla fine di ottobre; al mio invito ad entrare nel mio gruppo, mi disse

che per il momento preferiva restare nel suo ambiente del FUAN di Roma"

Ma poco dopo, il FIORAVANTI decideva di passare in quel gruppo, anche per la sottrazione di armi che aveva subito ad opera di DIMITRI.

Continuava il CALORE nel suo racconto: "dal 6-7- dicembre entra nel mio gruppo e partecipa ad una rapina ad una oreficeria, conoscendo, in tale occasione, il CAVALLINI".

Sei giorni più tardi, il FIORAVANTI partecipava all'omicidio Arcangeli- Leandri.

Stretto pure il collegamento CAVALLINI-GIULIANI, con il primo che faceva la spola con FACHINI per riciclare oro proveniente da rapine fatte dal secondo.

Quindi, circa le origini della banda armata, conclusivamente, i giudici ritenevano che, sulle ceneri di "Costruiamo l'azione", si era venuto formando, verso la fine del 1979, un nuovo

gruppo, il cui retroterra politico andava ricercato nella precedente esperienza terroristica-eversiva.

In tale gruppo avevano operato, oltre ai

superstiti di "Costruiamo l'azione", Egidio GIULIANI, in grado di assicurare un formidabile apporto logistico; lo "spontaneista" FIORAVANTI, entrato subito in contatto operativo col CAVALLINI (e questo micidiale binomio diventerà l'asse portante della banda), a sua volta, "creatura" del FACHINI, (e sul punto, le testimonianze erano numerose); il FIORAVANTI, infine, era in stretto collegamento col SIGNORELLI.

CALORE aveva riferito, per averlo appreso da Mario ROSSI, di due appuntamenti tra il FIORAVANTI ed il FACHINI a Roma nel quartiere africano, nella metà del 1980.

Vi erano, poi, dichiarazioni dello stesso FIORAVANTI circa incontri col FACHINI nella casa di Padova dove il CAVALLINI si appoggiava, pur senza alcun collegamento operativo.

Ha in proposito, osservavano i primi giudici, non poteva ritenersi credibile che FIORAVANTI se ne stesse in disparte, pur sapendo chi era FACHINI e da chi venivano le armi.

Lo stesso FIORAVAMTI avrebbe ammesso che agli inizi del 1980 il FACHINI aveva cercato di

contattarlo tramite il SIGNORELLI.

Quanto ai legami FACHINI-SIGNORELLI, i due avevano partecipato alla riunione di Albano nel settembre 1975 per la fusione tra ON e AN.

Fallito il tentativo, si erano trovati nella vicenda di "Costruiamo l'azione", al centro delle campagne di attentati del 78 e del 79.

Dunque, avevano proseguito sulla stessa strada anche dopo la crisi di "Costruiamo l'azione", nel periodo al quale si riferiva la banda armata, mantenendo contatti, il SIGNORELLI col FIORAVANTI ed il FACHINI col CAVALLINI e lo stesso FIORAVANTI.

Vi era, inoltre, la prova di un contatto diretto anche in epoca successiva alla strage della stazione di Bologna: nella seconda decade di agosto, il FACHINI, tornando dalla villeggiatura con la famiglia, era stato ospite del SIGNORELLI presso la sua villa a Marta, sul Lago di Bolsena.

Insonnia, la posizione di un imputato richiamava costantemente quella dell'altro.

 

a. I fatti criminosi riferibili alla banda armata

Un crescendo di azioni selettive contro obiettivi simbolici delle istituzioni o di atti indiscriminati.

Secondo Stefano SODERINI, intento di Valerio e del suo gruppo era di restare occulti anche a coloro che facevano parte dell'ambiente, allo scopo di creare difficoltà di indagine per le difficoltà di riferibilità personale dei fatti criminosi.

In quell'arco di tempo si erano consumati gli omicidi Arnesano - Evangesta - AMATO: tutte azioni tese a creare insicurezza e preoccupazione nella gente e a condizionare le scelte politiche.

Ed ancora, l'altro progetto di attentato ad un giudice veneto, per mettere a segno il quale gli attentatori avrebbero dovuto vestirsi da carabiniere.

Il VETTORE lo aveva saputo da RINANI; ed infatti, ALEANDRI aveva dichiarato di avere ricevuto dal FACHINI e dal RAHO richieste di

divisa da carabiniere.

Lo stesso FACHINI aveva detto ad ALEANDRI che

era suo radicato proposito...fare un attentato ad

un giudice veneto.

Anche SPIAZZI aveva avuto la stessa

informazione.

E Marco GUERRA: "MARIANI mi disse che FACHINI

e CAVALLINI stavano progettando un attentato

contro PAIS".

La sentenza ripercorreva, quindi, tutte le

acquisizioni e le valutazioni riguardanti 1'esplosivo e la disponibilità che ne aveva il

FACHINI e tutto il gruppo.

Altra vicenda di grande significato,

l'attentato a palazzo MARINO.

L'azione era stata ideata a Roma e da

persona detta il capro, certamente di Roma; era stata utilizzata un'auto rubata ad Anzio, vicino alla residenza di ALLATTA, ed il fatto era stato rivendicato dai "Gruppi armati per il contropotere territoriale"; sigla non dissimile da quella di "Gruppi comunisti per il contropotere territoriale", utilizzata per rivendicare un simulato attentato al SIGNORELLI.

Erano seguiti gli attentati al CSM e alla libreria Feltrinelli di Padova il 25.7.80.

Quindi, il progetto per liberare CONCUTELLI, al quale aveva partecipato il FIORAVANTI ed il CAVALLINI, creatura del FACHINI.

Il teatro della azione, da Milano, a Palermo e Taranto, dove CONCUTELLI doveva essere tradotto per un processo.

Era stato preso in affitto un appartamento a Gandoli di Leporano: il covo di Taranto, base operativa, era rimasto nella disponibilità del FIORAVANTI, e della MAMBRO, di CAVALLINI, SODERINI, VALE, BELSITO.

Al progetto aveva partecipato anche il CAVALLINI, creatura del FACHINI ed anche questa operazione si presentava come espressione di una strategia unificante.

Tutti strumenti tattici ben diversificati, all'interno di una strategia unitaria, intesa come programma politico.

La banda disponeva di un gran numero di armi.

Secondo la testimonianza del FRATINI, ai primi di giugno SIGNORELLI cercava persone

disposte a conservargli armi e in via Prenestina vi era un arsenale con le armi del GIULIANI.

L'attentato a Palazzo Marino, infatti, era stato eseguito con esplosivo del GIULIANI.

Altro materiale proveniva sicuramente dal furto di esplosi vi commesso dal FI GRAVANTI durante il suo servizio militare.

In conclusione si trattava, dunque, di una superbanda nella quale erano confluite persone di estrazione eterogenea.

Asse portante FIORAVANTI-WAHBRO-CAVALLINI;

alle spalle FACHINI e SIGNORELLI; supporto logistico fornito dal GIULIANI; tra i gregari, RINANI e PICCIAFUOCO.

Nello scopo sociale, tre componenti del programma :

1) attentato selettivo

2) attentato indiscriminato

3) azione militare eclatante

 

La Corte perveniva, pertanto, alla condanna, in ordine al delitto di banda armata, del FACHINI, del SIGNORELLI, del FIORAVANTI, della

MAMBRO, dal GIULIANI, del RINANI e del PICCIAFUOCO.

Assolveva, invece, il RAHO, il MELIOLI e lo IANNILLI.

Il primo, perché dopo il '79 aveva rotto col FACHINI e si era mantenuto in contatto col solo CAVALLINI, tenendogli un deposito di armi:

quindi, assoluzione dubitativa.

Il MELIOLI, perché, rilevava la Corte, mentre da un lato era rimasta accertata la sua collocazione nell'ambiente della ultradestra veneta, vicino a personali di indiscusso rilievo eversivo, tuttavia, non altrettanto certa poteva dirsi la sua internità rispetto alla banda armata.

Il fatto di avere consegnato al NAPOLI i "Fogli d'ordine", di essere stato al corrente del progetto di attentato ad un magistrato veneto ed averne parlato col FIORAVANTI, il suo contrasto con quest'ultimo a proposito della idea di collocare una bomba in un bar frequentato da personale della Questura di Roma, la conoscenza che egli aveva degli aspetti operativo-militari della attività' della cellula

veneta; erano tutti elementi che non potevano comunque, condurre con certezza, e necessariamente, il MELIOLI all'interno della banda armata considerata.

Quanto, infine, allo IANNILLI, la sua assoluzione era con formula piena.

Questo imputato aveva gravitato nell'ambiente di Costruiamo l'azione ed era stato al centro della campagna di attentati del 1979, siglati MRP.

La prova del sicuro passaggio dall'ambiente di "Costruiamo l'azione" a quello, più ristretto, della banda armata in esame, secondo la Corte, non poteva dirsi raggiunto.

L'ultimo episodio che lo aveva visto collegato operativamente al CAVALLINI ed al FIORAVANTI era stata la rapina alla oreficeria D'AMORE.

Ne quella frase, raccolta nel carcere di Ferrara ed attribuita allo IANNILLI: "ma come "hanno fatto a prenderci tutti..." poteva essere interpretata, inequivocabilmente, come sintomo di appartenenza a quella più ristretta cerchia di persone che avevano dato vita alla

banda armata (e non, piuttosto, come semplice appartenenza ad una determinata area eversiva).

 

3. Il delitto di calunnia

Affermava la sentenza che l'operazione terrore sui treni era un capitolo delle molteplici manovre poste in essere da spezzoni deviati degli apparati di sicurezza a copertura dei reali autori dell'attentato del 2 agosto.

Era risultato evidente che ai magistrati era stato fornito materiale probatorio inquinato.

Diverse le attività inquinanti, riconducibili tutte ad un unico schema: quello della pista internazionale.

A cominciare dalla cosiddetta pista libanese.

L'appunto del 30.1.1981 "accertamenti condotti dal SISMI", era evidente frutto di manipolazione.

Le notizie erano già in possesso del servizio dal 1 novembre 1980 ed il ritardo con il quale erano state trasmesse era stato spiegato con la necessità di effettuare ulteriori accertamenti: ma non si era mai detto

quali.

In realtà, le dichiarazioni di ABU AYAD si riferivano ad undici mesi prima, ma i fatti riferiti al luglio 80, erano stati posticipati per collocarli in epoca prossima alla strage della stazione di Bologna.

I giudici, con le proprie indagini in Italia, avevano accertato la presenza di vari neofascisti italiani, ricercati che avevano trovato rifugio in Libano, mentre il SISMI, con propri informatori a Beirut, non era riuscito ad avere notizie in merito.

E nonostante il colonnello Stefano GIOVANNONE conoscesse certamente i nomi delle persone alle quali si riferiva la intervista di ABU AYAD, la loro identità era stata taciuta per impedire di risalire alle fonti; ed anche se lo stesso GIOVANNONE aveva detto di aver subito capito che i palestinesi stavano imbastendo una manovra propagandistica, nel rapporto del SISMI non vi era alcun accenno a tale sospetto o ipotesi.

E il SANTOVITO, ritornato in servizio per riordinare le carte, aveva riassunta l'intera vicenda smentendo la notizia che le autorità

italiane sarebbero state avvertite dallo stesso ABU AYAD di un progetto criminoso e riferendo che le ricerche nei campi di addestramento avevano portato a raccogliere notizie provenienti da due tedeschi concernenti sei-otto italiani provenienti da Palermo, Bologna, Milano, il cui capo, certo Alfredo, forse bolognese, avrebbe detto di voler tradurre in pratica gli insegnamenti ricevuti nel campo, magari a Bologna, città rossa.

Era questa, secondo la Corte, la classica tecnica piduista e mistificatoria: fornire una massa di informazioni difficilmente verificabili e orchestrare campagne di stampa, confondendo fatti veri e falsi.

Corrispondeva al vero che in Libano si addestravano neofascisti italiani e tedeschi del gruppo Hoffmann; era, però falso che italiani e tedeschi si addestrassero nello stesso campo; era, poi, falso il collegamento tra questo dato e la strage della stazione di Bologna.

Il tedesco BEHELE presente in Libano e catturato dai falangisti, figurava indicato tra

i responsabili della strage della stazione di Bologna, anche nell'appunto MUSUMECI del gennaio 81, e ciò stava a dimostrare la utilizzazione volutamente depistante delle informazioni provenienti da Beirut, e quindi, dal GIOVANNONE e 1'assecondamento, ad opera del SISMI deviato, della manovra propagandistica di ABU AYAD, subito percepita come tale dal GIOVANNONE.

La articolata manovra si era andata sviluppando attraverso successive tappe: il rapporto SANTOVITO del 14.10.80; l'appunto MUSUMECI del 2.11.80; i rapporti SANSOVITO del 24.2 e 7.8 1981; le informative relative alla operazione "terrore sui treni".

Nel primo rapporto (quello SANTOVITO del 14.10.80), si contenevano informazioni del tutto vaghe ed incerte: il NALDI veniva citato perché non se ne poteva fare a meno essendosi questi presentato, già dal 21.8.80, al p.m. affermando di essere stato in contatto con un agente

segreto.

Ma il SISMI non avrebbe approfondito la pista indicata dal NALDI ed, anzi, era stata cura di MUSUMECI e soci tentare di smentirla

e di proporre quella internazionale.

L'appunto MUSUMECI trattava di notizie provenienti dall'ufficio controllo e sicurezza, dello stesso MUSUMECI e del BELMONTE.

La pista internazionale, quella suggerita dal GELLI, riceveva un lancio clamoroso con la indicazione di terroristi italiani collegati con terroristi delle più varie nazionalità, dalla FANE all'ETA, a capo dei quali tale William APIKIAN, nato in Iraq.; l'attentato a Bologna sarebbe stato affidato a Maurizio BRACAGLIA.

Nel gennaio '81 altro appunto MUSUMECI dato al g.i., più corposo del precedente: si coinvolgeva Pino RAUTI, si attribuiva ruolo operativo al gruppo HOFFMANN, si affermava che con i tedeschi era venuto a Bologna in camper un giovane francese che avrebbe deposto la valigia, mentre la esplosione si sarebbe verificata per un errore del timer.

Solita tecnica, osservavano i giudici:

utillizzare qualche dato vero (la presenza di DURAND in Italia, i nomi di alcuni del gruppo HOFFMANN) e frammischiarli ad altre menzogne.

Quanto, poi, alla questione dei quesiti

proposti dal P.M. SISTI al MUSUMECI, la fonte delle informazioni non esisteva, le notizie erano state confezionate a tavolino e la operazione terrore sui treni organizzata dagli stessi imputati del depistaggio e delle false informative, e cioè dai vertici dell'ufficio controllo e sicurezza del SISMI.

Nella valigia ritrovata sul treno Milano-Taranto erano stati collocati due passamontagna, due guanti di gomma, una copia del giornale Franco Soir ed una del Figaro con date 10 e 11 gennaio.

I biglietti aerei risultavano acquistati presso l'agenzia di viaggi MORFINI di Bari.

L'addetto di quell'agenzia aveva riferito che verso le 11 del 12 gennaio si era presentato un giovane di 25 anni, a chiedere una prenotazione per i voli Linate-Monaco e Linate-Parigi, ai nomi di DIMITRIEF Martin e LEGRAND Raphael.

Dalle risposta ai quesiti formulati dalla divisione del generale NOTARNICOLA, si ricavava che il corriere che avrebbe collocato la valigia sul treno non doveva identificarsi con

l'acquirente dei biglietti a Bari.

Questi sembrava essere tale Giorgio VALE, che avrebbe avuto anche il compito di tenere i contatti tra TP-FANE ed il gruppo tedesco HOFFMANN.

Il VALE avrebbe dovuto procedere alla seconda fase dell'operazione terroristica, consistente nel ricatto allo Stato, mentre il DIMITRIS e il LEGRAND sembra avessero richiesto due armi automatiche e due biglietti di aereo..il corriere sembrava essere di Cosenza, vicino agli ambienti della mafia calabrese.

Ed ancora, si riferiva che fonte straniera attendibile aveva comunicato che il VALE avrebbe commissionato un grosso quantitativo di esplosivo per attentati non precisati in Italia.

Gli esecutori materiali dovevano provenire dalla Germania con un camper.

Ma già il 30 giugno la Digos di Bologna poteva riferire dell'esito negativo degli accertamenti circa la presenza del VALE e l'acquisto dei biglietti a Bari.

Dopo il rinvenimento della valigia, i giudici

avevano incessantemente chiesto di conoscere la fonte delle informazioni.

E la fonte veniva confezionata dal BELMONTE, tramite il SANAPO, con l'indicazione di un comodo delinquente comune, (certo MONNA), regolarmente deceduto.

Sul punto la ricostruzione degli eventi, che avevano visti protagonisti il BELMONTE ed il SANAPO, si presentava completa ed esauriente.

Da segnalare, il cedimento del SANAPO, il quale ammetteva che il BELMONTE gli aveva detto:

"... io non mi sono iscritto alla P2 anche se MUSUMECI mi ha chiesto di farlo e pertanto sono rimasto al SISMI e sostituivo il MUSUMECI, essendo vice-comandante dell'ufficio.

"Abbiamo mandato un rapporto ai giudici di Bologna che non è fatto bene e MUSUMECI ha caricato su di me la responsabilità.. dobbiamo trovare una fonte alla quale attribuire le notizie".

MUSUMECI, da parte sua, dichiarava di aver saputo che SANAPO era la fonte, che allo stesso erano stati consegnati 300 milioni, che del fatto era a conoscenza anche il SANTOVITO.

La responsabilità del MUSUMECI e del BELMONTE appariva evidente alla Corte che riteneva il SANAPO attendibile.

Questi aveva ricevuto pressioni dal suo comandante per fornire la prima versione, circa l'incontro a Brindisi, il confidente, la ricompensa pagata, avendogli il BELMONTE fatto capire che dietro il MUSUMECI c'era gente molto potente.

Neppure II NOTARNICOLA era riuscito ad avere dal BELHONTE indicazioni precise circa la fonte che avrebbe dovuto incontrare a San Severo.

Si era rivolto, allora, ai CC del posto per cercare di sapere con chi si incontrava il BELMONTE ma i CC avevano riferito che il BELMONTE non si era proprio visto a San Severo.

Il teste Bruno di MURRO amministratore del SISMI, aveva detto che il SANTOVITO gli aveva chiesto di mettere a disposizione del MUSUMECI tutto il danaro che avesse chiesto.

La scansione degli eventi dalle 17,22 dell'8 gennaio alle 2,55 del 13 era stata ricostruita dalla Corte di Assise di Roma e la precisione delle informazioni, in presa diretta,

diceva della artata composizione di un progetto

criminoso e non delle informative di una ignota

fonte.

Preoccupazione costante del duo MUSUMECI-BELMONTE, era stata quella di tenere segreta la fonte delle pretese informazioni per l'ottimo motivo che questa non esisteva e che le informative erano state create nell'ufficio di MUSUMECI e BELMONTE e con la connivenza del SANTOVITO.

In conclusione, mentre erano iniziate le prime indagini, anche sulla base del rapporto del SISDE, con le notizie captate in carcere dal CIOPPA, era partita la contromossa dei servizi deviati, e cioè del SISMI.

PAZIENZA e SANTOVITO avevano chiamato il giornalista BARBERI e gli avevano fatto sapere che stavano facendo un buon lavoro per le indagini sulla strage della stazione di Bologna, mostrando di avere notizie provenienti da piste internazionali, a riconferma dell'opinione del PAZIENZA che diceva di credere soltanto al terrorismo di sinistra.

In pochi giorni era stato preparato un

voluminoso dossier sull'estremismo in Italia, con informazioni di archivio.

Il 19.9.1980 compariva l'intervista ad ABU AYAD e nasceva la pista libanese.

Nell'ottobre '80, nell'ufficio controllo e sicurezza aveva inizio il collage di notizie relative alla strage ed ai Carabinieri veniva trasmessa la prima informativa contrabbandata dal MUSUMECI e dal BELMONTE come proveniente dal SANAPO.

Nel novembre 1980, grazie a SISTI, autore dei quesiti, si sviluppava il rapporto di collaborazione col MUSUMECI, con la consegna, nel gennaio 1981 e nell'ambito di tale collaborazione diretta, dell'"appunto" di risposta.

L'8 gennaio 81, MUSUMECI e BELMONTE andavano a Brindisi: l'operazione terroristica era imminente.

Il 9 gennaio rientravano dalla Francia il SANTOVITO ed il PAZIENZA ed il NOTARNICOLA veniva convocato all'aeroporto dove riceveva la informativa.

Il 10 gennaio, le notizie diventavano

sempre più precise e dettagliate fino alla Informativa che partiva dal Sismi, diretta al Comando Generale dei Carabinieri e all'Ucigos con la notizia dell'esplosivo trasportato in treno da 4-6 persone.

Il 13 gennaio, il BELMONTE telefonava alla sede del Sismi e comunicava ora, treno e vagone.

Ore 9,26, del 13, il treno arrivava alla stazione di Bologna, e si trovava la valigia.

La sentenza sottolineava pure la patente violazione delle competenze interne del servizio: l'ufficio del MUSUMECI aveva, infatti, compiti di vigilanza interna sulla regolarità dello svolgimento delle attività del servizio, mentre vi era stata una esautorazione della Divisione comandata dal NOTARNICOLA, ricorrendo alla prassi della collaborazione diretta per stabilire con il titolare dell'indagine un contatto senza mediazioni, al di fuori dei canali ufficiali.

L'antera operazione della valigia, con il suo contenuto di esplosivo simile a quello adoperato a Bologna, giungeva, inoltre, tempestiva.

Ed infatti, osservava la Corte, alcuni

imputati eccellenti in carcere avevano cominciato a dare segni di cedimento ed il SEMERARI, in particolare, lanciava segnali allarmanti.

Ecco, quindi, trovato lo scopo più immediato di quel depistaggio; non certo quello di lucrare compensi, ne ragioni di rivalità rispetto al SISDE.

Passando all'esame delle posizioni individuali di ciascun imputato, la Corte di Assise di Bologna riteneva di poter riconoscere la responsabilità del MUSUMECI sulla base della considerazione del suo stretto legame con GELLI e SANTOVITO; della fattiva collaborazione col PAZIENZA; degli stretti contatti con gli inquirenti, ai quali consegnava informative e responsi della "fonte"; del suo volo a Brindisi, 1'8 gennaio 1981, col fido BELMONTE, per incontrare misteriosi personaggi.

Il MUSUMECI veniva indicato, pertanto, come lo strumento principe attraverso il quale, il SISMI deviato, aveva lanciato la sua offensiva contro le indagini in corso per l'attentato del 2 agosto.

Il BELMONTE, braccio operativo del MUSUMECI,

aveva provveduto a contattare il SANAPO per precostituirsi un rapporto fiduciario da utilizzare al momento opportuno, recandosi anche lui a Brindisi col MUSUMECI per incontrare ignoti complici.

Iniziato, come il MUSUHECI, all"orecchio del Gran Maestro", e "attivo" nella Loggia riservata di Roma, con decreto del 20.11.1980, era stato promosso dal 3° al 18° grado della gerarchia massonica ed incluso nel Capitolo nazionale.

 

Quanto all'imputato PAZIENZA, secondo i giudici della Corte di primo grado, aveva ricoperto un fondamentale ruolo di regista della manovra di intossicazione delle indagini.

Per dare attuazione alle indicazioni del Gran Maestro circa la "pista internazionale",

forniva le notizie al giornalista BARBERI di

Panorama e manteneva un atteggiamento di "superiore" nei confronti del SANTOVITO e lo stesso ufficio del MUSUMECI era diventato il "suo" ufficio.

Una simile, folgorante ascesa del PAZIENZA

non sarebbe stata possibile senza l'avallo del GELLI, vero dominus dei servizi di quegli anni.

La Corte richiamava, poi, la testimonianza del SANAPO, il quale, il 22.11.84, al P.M., aveva detto che lo stesso BELMONTE gli aveva confidato di far parte di una rete spionistica mondiale che faceva capo ad un personaggio importantissimo, concludendo: "...solo dopo i vari scandali, ho ritenuto che BELMONTE avesse inteso far riferimento al PAZIENZA ed alla rete spionistica che faceva capo a lui".

 

Questi, in rapida sintesi, gli elementi posti a base del convincimento dei giudici in ordine alla responsabilità del GELLI per il delitto di calunnia.

Egli, servendosi dello strumento costituito dal suo incondizionato potere all'interno della P2, si era servito degli apparati di sicurezza per realizzare attività deviate di favoreggiamento di esponenti dell'estremismo nero e di intossicazione delle indagini relative a gravissimi delitti.

In tale quadro andavano collocati i

depistaggi relativi alla strage della stazione di Bologna.

GELLI, inoltre, aveva finanziato la banda armata di Augusto CAUCHI, era stato in contatto col SEMERARI, aveva avuto cointeressenze processuali col FIORAVANTI, aveva dato, tempestivamente, 1'"input" per la pista internazionale.

 

La consapevolezza, negli imputati, della innocenza degli incolpati era, secondo la Corte, di tutta evidenza, essendo stata, quella accusa, freddamente costruita a tavolino.

Erano, inoltre, riconoscibili tutte le aggravanti contestate: la finalizzazione dell'intera manovra depistante e l'ulteriore aggravante di cui alla legge n.15 del 1980, tenuto conto della natura eversiva dell'intento di assicurare impunità a pericolosi terroristi.

4. II delitto di associazione eversiva

Dopo una premessa avente ad oggetto la astratta possibilità di ascrivere la ipotesi accusatoria alla fattispecie di cui all'art. 270

 

bis del c.p., la Corte si proponeva di esaminare e verificare se fosse rimasto adeguatamente provato che i militari ed i civili, indicati nel capo di imputazione della associazione eversiva, fossero risultati stabilmente vincolati da un accordo in base al quale, ciascuno operando nel proprio settore di influenza, si fossero impegnati a promuovere attività terroristiche e ad assicurare le necessarie coperture e garanzie di impunità agli autori dei singoli attentati;

e se tutto ciò avesse avuto come fine ultimo la eversione dell'ordinamento costituzionale.

Anche per tale oggetto di esame, la Corte faceva riferimento al quadro probatorio complessivamente emerso dalla istruttoria scritta e da quella dibattimentale, con i riferimenti alle acquisizioni documentali e testimoniali.

L'assunto era quello della esistenza di una alleanza tra militari e civili, volta al condizionamento defili equilibri politici ed al consolidamento di forze ostili alla democrazia, anche attraverso la gestione della violenza armata neofascista.

GELLI, utilizzando il suo potere parallelo, avrebbe coordinato, da dietro le quinte, questo processo di progressiva infiltrazione nelle istituzioni, divenendo l'effettivo "dominus" degli apparati di sicurezza, preoccupati di dare le necessarie coperture a determinati ambienti del terrorismo nero; e, in alcuni casi, entrando in diretto contatto con esponenti di quegli ambienti terroristici.

La Corte andava, quindi, alla ricerca degli elementi probatori da porre a conferma e verifica di siffatta ricostruzione del personaggio e della sua strategia.

Veniva richiamato, innanzitutto, il documento prodotto dal professor Ferdinando ACCORNERO, "massone democratico", relativo ad un verbale di riunione del raggruppamento GELLI-P2 del 5.3.1971.

In quella riunione si era trattato della situazione politica ed economica in Italia, della minaccia del P.C.I., in accordo col clericalismo, della carenza di potere delle Forze dell'Ordine, della mancanza di una classe

dirigente capace, del dilagare del malcostume, della posizione da assumere in caso di ascesa al potere dei clerico-comunisti, dei rapporti con lo Stato italiano.

Il 4 luglio 1981, all'aeroporto di Fiumicino, alla figlia del GELLI veniva sequestrato un documento intitolato "Piano di rinascita democratica", risalente agli anni '75-'7ó.

Si trattava di una elaborata e sistematica esposizione della linea politica riferibile al gruppo di comando della Loggia P2.

Tra gli obbiettivi primari della operazione, che prevedeva anche ritocchi della Costituzione, la costituzione di un club ove fossero rappresentati, ai migliori livelli, operatori imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati, ed infine, pochissimi e selezionati uomini politici.

Tutto finalizzato ad un pieno controllo, in tutte le direzioni della vita pubblica.

Per la costituzione di un tale

complesso operativo, occorreva selezionare gli uomini e affidare ad essi eli strumenti finanziari sufficienti.

Ai giornalisti, il compito di simpatizzare per gli esponenti politici prescelti.

Anche il settore della stampa avrebbe dovuto essere controllato per le finalità generali: sarebbe stato necessario, ad esempio, coordinare tutta la stampa provinciale attraverso una agenzia centralizzata, coordinare molte tv via cavo, dissolvere la Rai-tv in nome della libertà di antenna.

Altra parte del documento si occupava di programmi più' specifici ed urgenti.

La responsabilità civile, per colpa, dei magistrati, gli esami psico-attitudinali per l'accesso in carriera degli stessi, un nuovo ordinamento del Governo e del Parlamento.

In quella stessa occasione era stato sequestrato anche un altro documento, il "memorandum sulla situazione politica in Italia", nel quale, alla fine, si affermava la necessita' di inserirsi nell'attuale sistema di tesseramento della DC per "acquistare" il

partito, individuando, nel contempo, nella unità sindacale la peggiore nemica della democrazia sostanziale che si voleva restaurare.

Dunque, la logica del controllo contrapposta alla logica del governo.

 

I giudici si chiedevano, a questo punto, se ed in quale misura, simili strategie avessero trovato pratica attuazione.

Richiamando anche il complesso lavoro svolto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2, si evidenziava il fatto che, dalla seconda metà degli anni settanta, GELLI aveva raggiunto il controllo completo della Loggia propaganda 2, essendo riuscito nella impresa di convogliare, sotto il comune denominatore massonico, le spinte provenienti da ambienti militari e dei servizi di sicurezza; di utilizzare adeguatamente il sentimento di anticomunismo; di controllare, con trame ardite, le carriere militari; di estendere, attraverso il vincolo della solidarietà massonica, le ramificazioni del proprio potere all'interno della pubblica amministrazione, della

magistratura, del mondo finanziario e politico;

di avere, infine, notevole potere ricattatorio derivante dal possesso dei fascicoli del S.I.F.A.R., sopravvissuti alla distruzione.

Sintomatica la notizia di una riunione tenuta nel 1973 a villa Manda, domicilio aretino del GELLI, riunione alla quale avevano preso parte il generale PALUMBO, comandante la divisione Pastrengo di Milano, il generale PICCHIOTTI, Comandante la divisione carabinieri di Roma, il generale BITTONI, comandante la brigata carabinieri di Firenze, il colonnello MUSUMECI, il procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, Carmelo SPAGNUOLO.

In quella occasione GELLI aveva esortato i presenti ad operare per appoggiare un governo di centro.

Ma quella riunione, ciò che più conta, dimostrava la forza ed il potere di GELLI, il quale, poteva convocare nella sua villa generali della Repubblica ed alti magistrati, alla stregua di un Capo di stato maggiore ombra.

Del resto, numerose testimonianze riferivano

delle "udienze" tenute da GELLI, all'Hotel Excelsior di Roma, a personaggi come il generale MICELI o Umberto ORTOLANI.

E nelle liste degli affiliati, rinvenute a Castiglion Fibocchi, si ritrovano generali dei carabinieri, ammiragli, generali dell'esercito e della Guardia di Finanza, tutti con incarichi centrali nella amministrazione dello Stato.

E, quanto al mondo imprenditoriale ed industriale, i nomi di BERLUSCONI, GENGHINI, RIZZOLI, vari presidenti di istituti di credito, tra i quali, SINDONA e CALVI i nomi di maggior spicco.

Ma il potere più inquietante, secondo i giudici della Corte di primo grado, GELLI lo aveva raggiunto attraverso il controllo di fatto degli apparati di sicurezza.

Nel 1978, sotto la gestione SANTOVITO, il SISMI preparava una relazione per il ministro della difesa, sollecitato da una interrogazione dell'onorevole NATTA.

In quel documento si affermava che la massoneria, nell'ambito delle forze armate, aveva una influenza modesta e non certo tale da

riuscire a distorcere le leggi che regolano la progressione delle carriere e la assegnazione

degli incarichi.

In proposito la Commissione di inchiesta parlamentare aveva detto che il documento costituiva un esempio di disinformazione mirata.

Dopo la scoperta degli elenchi di Castiglion Fibocchi, i vertici dei servizi deviati, avevano tentato di accreditare la figura di GELLI, al di fuori del servizio, agente dei paesi dell'Est Europa.

Dopo la strage del 2 agosto, CIOPPA il quale già aveva raccolte le confidenze del FARINA, all'interno del carcere, ottenendo informazioni convergenti con quelle del rapporto LAZZERINI e relative alla pista della eversione interna neofascista, riceveva dal GELLI il suggerimento della pista internazionale.

E già il 25 settembre, il dottor CIOPPA, in qualità di capo del centro SISDE Roma 2, ufficio al quale era pervenuta la informativa SPIAZZI, trasmetteva alla Direzione del servizio un appunto nel quale si comunicava che gli accertamenti svolti in merito alle

informazioni SPIAZZI si erano risolti negativamente.

Dunque, la pista segnalata dalle dichiarazioni FARINA e dal rapporto LAZZERINI era stata abbandonata per avviarsi nella direzione "internazionale", indicata da GELLI; di quello stesso GELLI, proseguiva la sentenza impugnata, che aveva ammesso (dichiarazioni al giudice VIGNA), di essersi interessato per la nomina del generale MICELI a capo del SID.

Puiduisti dovevano essere il direttore del SISDE, generale GRASSINI, il Direttore del SISMI, generale SANTOVITO, il capo del Cesis, con compiti di coordinamento tra i due servizi, prefetto PELOSI; piduista il Capo dell'Ufficio Controllo e Sicurezza e Segreteria Generale del SISMI, gen. Pietro MUSUMECI, ed infine, il dottor Elio CIOPPA, Capo del Centro Roma 2 del SISDE.

Un ultimo capitolo veniva dedicato, nella sentenza, ai pregressi rapporti di GELLI con la eversione.

Fonte di informazioni, anche in tale

settore di indagine, l'ALEANDRI, il quale aveva affermato di avere appreso da Fabio DE FELICE che il di lui fratello, Alfredo, aveva incontrato GELLI negli anni del golpe BORGHESE, quando Alfredo tentava di stabilire un contatto con ufficiali dell'Arma dei Carabinieri.

Per golpe BORGHESE, l'ALEANDRI intendeva il complesso dei tentativi eversivi succedutisi negli anni dal 1970 al 1975.

Sempre il DE FELICE aveva poi confidato all'ALEANDRI che proprio da Licio GELLI era venuto il "contrordine" del golpe del dicembre 1970, il "golpe Borghese n.1".

La Corte di primo grado richiamava, inoltre, le conclusioni alle quali era pervenuta la sentenza relativa alla strage del treno Italicus, con la ricostruzione dei rapporti di frequentazione tra GELLI ed eversori neofascisti toscani e dei finanziamenti accordati dallo stesso GELLI all'estremista aretino Augusto CAUCHI.

Questi ultimi rapporti di finanziamento erano stati ulteriormente approfonditi, ed accertati, dalla Corte di Assise di Firenze

che, con sentenza del 15.12.1987, aveva condannato il GELLI alla pena di anni otto di reclusione.

Osservavano, in proposito, i giudici della Corte di Firenze: "...il GELLI non poteva non rendersi conto che dare la disponibilità (non di volantini pubblicitari o di opuscoli ideologici) ma di armi e, soprattutto, di esplosivo a ragazzi a dir poco spregiudicati, come CAUCHI, equivaleva a consentire che gli stessi, garante o non garante, si dessero alla commissione di azioni terroristiche con lo scopo di suscitare nella popolazione richiesta d'ordine e favorire un governo forte di destra... già con la consegna di danaro a CAUCHI per l'acquisto di armi e di esplosivo, GELLI ha accettato che di questi potesse farsene uso per attentare alla sicurezza dello Stato e mettere in pericolo la incolumità altrui.

Ritornando alla sentenza dei giudici della Corte di Bologna, occorre sommariamente ricordare della individuazione delle ulteriori componenti della associazione sovversiva.

La componente "ordinovista", con il

SIGNORELLI, il FACHINI, il DE FELICE; quella "avanguardista", con il DELLE CHIAIE, il BALLAN, il TILGHER, GIORGI: e quella degli apparati di sicurezza, con PAZIENZA, MUSUMECI, BELMONTE.

Tuttavia, la Corte, pur muovendo da una simile ricostruzione degli eventi e dei personaggi, riteneva di non aver raggiunto condizioni di certezza a proposito del momento costitutivo di una associazione, dell'incontro consapevole delle volontà dei vari soggetti.

Venivano, pertanto, assolti dal delitto di associazione eversiva ex art.270 bis c.p.:

GELLI, PAZIENZA, MUSUMECI, BELMONTE, SIGNORELLI, FACHINI, DELLE CHIAIE, BALLAN e TILGHER, per insufficienza di prove.

Il primo degli elementi costitutivi della fattispecie contestata, e cioè, della associazione sovversiva, da sottoporre a verifica, si presentava l'accordo, ovverossia, quel vincolo stabile tra i consociati diretto alla realizzazione di un programma comune.

Osservava la Corte di primo grado che siffatto elemento non poteva essere confuso con la semplice convergenza di interessi di

più soggetti, anche se per la sua riconoscibilità non si richiedeva certo una solennità di forme, esteriormente percepibili.

Secondo la Corte, la disamina del copioso materiale probatorio evidenziava una situazione che non poteva dirsi di semplice convergenza di interessi politici, ma piuttosto, di contiguità tra ambienti deviati di apparati statuali gravitanti attorno a Licio GELLI ed esponenti di vertice delle tradizionali formazioni neofasciste.

Quello che non poteva ritenersi un dato certo era che una siffatta contiguità avesse poi trovato una stabile espressione organizzativa.

Da un lato, quindi, poteva dirsi provato che GELLI si era posto al centro di una strategia di controllo, col proposito di svuotare la Costituzione dei suoi contenuti sostanziali mediante un accorto processo di infiltrazioni nei gangli vitali delle istituzioni, servendosi come strumento per il raggiungimento di tale obiettivo, della loggia P2, oggetto privilegiato di infiltrazione, gli apparati militari e i

servizi di sicurezza.

Egli si era mosso, con ruolo eminente, negli ambienti golpistici dei primi anni 70, trovandosi, poi, trovato a finanziare, nella primavera del 1974, la banda neofascista del CAUCHI, e ad avere contatti con lo stesso Valerio FIORAVANTI.

In quegli stessi ambienti degli apparati di sicurezza, inoltre, si erano andate sviluppando condotte di favoreggiamento di esponenti dell'estremismo nero e di sviamento delle indagini.

Doveva ritenersi pure accertato che altri personaggi avevano concretamente agito in sintonia col GELLI.

Cosi, Paolo SIGNORELLI, da epoca remota in rapporti di collaborazione con ambienti dell'Arma e con apparati di sicurezza.

Massimiliano FACHINI, a sua volta in contatto con ambienti del SID, con Guido GIANNETTINI, col capitano LABRUNA e col generale MALETTI, iscritto nelle liste della P2.

Fabio DE FELICE, in rapporto di collaborazione col GELLI, tramite l'ALEANDRI.

Aldo SEMERARI, all'incrocio tra formazioni della eversione di destra, ambienti della criminalità organizzata e frange degli apparati di sicurezza, era anche lui entrato direttamente in contatto con GELLI.

DELLE CHIAIE, da prima con Junio Valerio BORGHESE, poi in Spagna, quindi al centro del tentativo di riunificazione di AN e ON, coordinatore delle attività dei vari TILGHER, BALLAN, MANGIAMELI, collegato ai servizi segreti, non soltanto a quelli italiani, dopo il colpo di stato in Bolivia, con una carica ufficiale presso lo Stato maggiore dell'esercito, in contatto telefonico col GELLI.

Il TILGHER ed il BALLAN, legati a filo doppio col DELLE CHIAIE.

Francesco PAZIENZA, occulto direttore di fatto del SISMI di SANTOVITO ed orchestratore principale, col MUSUMECI, della macchinazione che portava alla fantomatica pista internazionale.

Pietro MUSUMECI, legato personalmente al GELLI, in combutta col PAZIENZA.

BELMONTE, legato al MUSUMECI, ed anch'egli a

conoscenza del ruolo e delle trame del PAZIENZA.

Un simile quadro suggeriva alla Corte di primo grado considerazioni in senso accusatorio.

In particolare, le deviazioni dei servizi, provate attraverso le complesse macchinazioni depistanti, assumevano, secondo la Corte, il ruolo di prova principe del delitto in esame, attraverso la alleanza tra servizi deviati gelliani e vertici della eversione neofascista.

Tuttavia, secondo la Corte, non poteva parlarsi di certezze: restava pur sempre possibile che la contiguità, pure ampiamente dimostrata, tra le due principali componenti della associazione contestata, non si fosse spinta fino a forme di aggregazione penalmente apprezzabili.

Poteva ipotizzarsi, in altri termini, che sia le attività militari della banda armata, che le attività di intossicazione della inchiesta, fossero state poste in essere al di fuori di un previo accordo.

Proprio la presenza di gruppi differenziati richiedeva una prova di maggiore

incidenza in ordine al momento, imprescindibile per la fattispecie considerata, dell'accordo.

Né un segnale di siffatto elemento costitutivo della associazione poteva essere ricercato nei numerosi scritti e documenti programmatici, alcuni anche risalenti nel tempo.

Assoluzione per insufficienza di prove, dunque, perché la esistenza di una alleanza riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 270 bis c.p., non era l'unica possibile chiave di lettura di quel complesso quadro, mancando più specifici e diretti elementi di prova idonei ad attribuire univocità al tessuto logico-indiziario delineatosi.

Quanto, infine, .alla cosiddetta "pista CIOLINI", anche nell'originario nucleo di quelle rivelazioni, si era innestata, secondo i primi giudici, una manovra volta a coprire quegli stessi ambienti che risultavano raggiunti dalle false informazioni.

 

5. le altre questioni esaminate

II reato di falsa testimonianza, ascritto

all'imputato HUBEL, veniva dichiarato estinto per effetto della amnistia del 1986.

In proposito, osservava la Corte che, se nel merito, l'imputato doveva essere dichiarato non punibile, dal momento che non avrebbe potuto essere sentito in qualità di testimone versando in una situazione di potenziale imputabilità, tuttavia, poiché l'art. 152 del c.p.p., tra le formule che debbono prevalere sulla declaratoria di estinzione per amnistia, non ricomprendeva anche quella della non punibilità, doveva restare ferma, secondo la Corte, la declaratoria di estinzione per effetto di amnistia.

La Corte affermava, poi, la penale responsabilità del GIORGI in ordine ai delitti concernenti la pistola, sulla base delle dichiarazioni di PALLADINO Carmine, amico fraterno dell'imputato.

Dichiarazioni accusatorie che avevano trovato conferma nel PINTUS Emanuele.

Quanto, infine, al delitto di false dichiarazioni circa la propria identità, contestato al PICCIAFUOCO, l'imputato era

confesso ed essendo stato dichiarato delinquente abituale non poteva beneficiare di provvedimenti di clemenza.

Peraltro, alla data del 2 febbraio 1988, il reato si era estinto per l'avvenuto decorso del termine massimo di prescrizione.

La sentenza, dopo essersi occupata del trattamento sanzionatorio, delle pene principali e di quelle accessorie, si soffermava sulla questione della procedibilità nei confronti dell'imputato Licio GELLI.

Richiamandosi alle norme pattizie, e specificatamente, all'art. 14 della Convenzione Europea, la Corte affermava che il divieto della disponibilità fisica dell'imputato per i reati anteriori alla consegna e non compresi nel provvedimento di estradizione non significava anche improcedibilità per tali reati.

Il secondo comma del citato art. 14, infatti, autorizzava, per i reati diversi da quelli che hanno dato luogo alla estradizione, a "prendere le misure necessarie, ivi compreso il ricorso ad un procedimento contumaciale".

Una diversa interpretazione della norma

sarebbe stata in contrasto, secondo la Corte, con fli artt. 3, 24 e 112 della Carta Costituzionale.

L'imputato estradato per alcuni reati e non per altri, si sarebbe venuto a trovare, infatti, in una sorta di immunità rispetto a tali ultimi reati, diversamente dall'imputato residente all'estero, o dal rifugiato, al quale fosse stata negata la estradizione in relazione ad ogni sua imputazione.

La eccezione di improcedibilità veniva, quindi, disattesa.

Venivano, poi respinte altre eccezioni sollevate dai difensori, alcune delle quali saranno riproposte con i motivi di impugnazione.

Ed infine, veniva affermato l'obbligo dei colpevoli di risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati, anche con riferimento ai responsabili del delitto di banda armata, che era ritenuto anch'esso causa, sia pure indiretta, del danno.

 

Capitolo Quarto

LE IMPUGNAZIONI

 

1. Avvocatura dello Stato

La impugnazione proposta dalla Avvocatura dello Stato, nell'interesse delle parti civili costituite:

- Presidenza del Consiglio dei Ministri

- Ministero degli Interni

- Ministero di Grazia e Giustizia

- Ente Ferrovie dello Stato

La impugnazione riguardava la assoluzione con formula dubitativa del SIGNORELLI e del RINANI dal reato di strage; la assoluzione del MELIOLI, dello IANNILLI e del RAHO dal reato di banda armata; la assoluzione degli imputati del reato di associazione eversiva.

Nei confronti dell'imputato SIGNORELLI, si osservava, la stessa sentenza aveva individuato numerosi elementi a suo carico, ai quali aveva opposto elementi di dubbio puramente concettuali.

Non sembrava rilevante l'argomento desunto dal carattere non gerarchico-piramidale della banda armata per arrivare a dubitare della parte

avuta dal SIGNORELLI nella ideazione e programmazione della strage.

Al contrario, si osservava che la strategia elaborata non costituiva una predicazione generica ma rappresentava lo scopo sociale della banda ed i "ragazzini" altro non erano che i sodali, raggiunti da prove di reità diretta per il delitto di strage.

Le dichiarazioni del NICOLETTI avevano evidenziato un apporto concorsuale del SIGNORELLI, quanto meno sotto la forma della determinazione e del rafforzamento dell'altrui volontà.

 

La assoluzione del RINANI

Gli elementi considerati a carico del RINANI erano stati i seguenti:

- la partecipazione alla banda armata;

- lo stretto legame col FACHINI;

- il suo stesso percorso politico;

- la previa, dettagliata conoscenza del compimento di un attentato al giudice Stiz, riferita al VETTORE;

- la indicazione, al medesimo VETTORE, di

altro attentato di eccezionale gravità.

La considerazione di tutti i suddetti elementi, non consentiva la assoluzione dell'imputato, sia pure con la formula dubitativa.

 

Quanto al proscioglimento di MELIOLI, IANNILLI e RAHO dal delitto di banda armata, a carico del primo imputato, risultava la partecipazione ad una fitta trama di rapporti nell'ambiente della destra eversiva; la esperienza in "Costruiamo l'azione"; le intese col FACHINI, col FREDA, col RAHO, col FRIGATO ed altri; la cessione al NAPOLI dei Fogli d'ordine, la sua conoscenza circa il progetto di un attentato ad un magistrato; l'incontro a Rovigo col FIORAVANTI; il sequestro di un bigliettino, nel quale era scritto: "ho parlato con un emissario G.C. (Gilberto CAVALLINI), devo vedere non so quando MELIOLI o un suo amico o Roberto", incontro finalizzato allo scambio di armi e detonatori.

Tutti gli elementi indicati, certi, precisi e concordanti, imponevano la affermazione di

responsabilità del MELIOLI.

Per lo IAMNILLI, si doveva riconoscere il suo inserimento nell'ambiente di "Costruiamo l'azione" e la sua partecipazione alla campagna di attentati del 1979, siglati M.R.P.

Era stato, inoltre, autore dell'attentato al CSM ed aveva partecipato a numerose rapine di autofinanziamento.

A tali elementi andava aggiunta la deposizione di GUERRA, il quale aveva detto che, dopo l'arresto di MARIANI e CALORE e l'allontanamento di ALEANDRI, GIULIANI aveva mantenuto i rapporti con lo IANNILLI; e l'episodio del carcere di Ferrara, nel quale l'imputato aveva dimostrato una conoscenza, non altrimenti giustificabili e, della progettualità e degli autori materiali della strage della stazione.

Quanto, infine, al RAHO, erano stati accertati i suoi rapporti col FACHINI ed il CAVALLINI, ed i suoi compiti di depositario di armi "murate", di esperto e fornitore di esplosivi utilizzati dal gruppo fino a tutto il 1980.

Tutti elementi che dimostravano la permanenza del RAHO nella organizzazione armata nel 1980.

 

La assoluzione degli imputati dal

reato di associazione eversiva

Secondo il difensore di parte civile, il materiale probatorio al riguardo era imponente.

GELLI e tutti gli altri imputati di associazione, erano stati raggiunti da elementi di prova che dovevano portare a conclusioni di certezza.

La attenta ricostruzione dei percorsi individuali di tutti gli imputati, era stata poi vanificata dal dubbio della Corte di primo grado in ordine al pactum sceleris.

Ma, si osservava in contrario, i primi giudici avevano omesso di valutare la gestione preventiva degli effetti che dalla strage della stazione il gruppo si prefiggeva di raggiungere.

Soltanto un preciso accordo poteva portare alle azioni di favoreggiamento e al depistaggio.

Tutti i settori dei servizi segreti erano stati coinvolti e mobilitati.

Il SISMI di MUSUMECI e PAZIENZA, il SISDE di GRASSINI e CIOPPA avevano gestito le operazioni di depistarlo con lucida consapevolezza.

Un preciso ruolo di personaggi-cerniera avevano ricoperto il SIQNORELLI, il SEMERARI e il DE FELICE.

Per quest'ultimo, in particolare, vi era prova sufficiente di un suo costante impegno e di una sua attiva partecipazione, all'interno del progetto gelliano, mentre niente poteva far pensare ad un suo ritiro dall'impegno in quel settore.

Della sua opera, dei rapporti con GELLI e dello stesso significato della sua figura, avevano parlato ampiamente il CALORE, l'ALEANDRI e L'AFFATIGATO, tanto che il DE FELICE poteva ritenersi la cerniera più importante tra i versanti terroristico e piduista della associazione.

La medesima cosa poteva dirsi per il SIGNORELLI.

Il SORDI aveva riferito delle cose dettegli dal CAVALLINI e, in particolare, del legame del SIGNORELLI con la Loggia P2 e della

organizzazione di attentati stragisti.

Molti, poi, avevano riferito degli stretti legami tra il SIGNORELLI ed il FIORAVANTI.

SEMERARI, infine, era stato il personaggio di collegamento con gli ambienti della malavita.

La conclusione di dubbio, alla quale era pervenuta la Corte di primo grado, era da considerarsi contraria alle risultanze processuali ed alla stessa logica comune: non semplice contiguità tra ambienti diversi, ma piuttosto, lucido progetto politico-eversivo.

 

2. i motivi di impugnazione del Procuratore

della Repubblica di Bologna

 

Si richiedeva affermazione della penale responsabilità degli imputati SIGNORELLI e RINANI in relazione al delitto di strage;

dell'imputato MELIOLI, per il delitto di partecipazione a banda armata; di GELLI, MUSUMECI, BELMONTE, FACHINI, DELLE CHIAIE, TILGHER, BALLAN, GIORGI e DE FELICE, in relazione al delitto di associazione eversiva.

Si chiedeva, inoltre, la revoca del beneficio

dell'indulto, erroneamente concesso agli imputati condannati per reati commessi con finalità di eversione.

Si avanzava, infine, richiesta di parziale rinnovazione del dibattimento per acquisire atti ed escutere testi, secondo le indicazioni contenute nella esposizione dei motivi stessi.

 

La Associazione Eversiva

Secondo l'orfano appellante, doveva riconoscersi la "..provenienza naturale della strage dagli ambienti del neofascismo italiano come mezzo di lotta politica" ed individuarsi la necessaria complicità all'interno degli apparati politico-militari.

Il ricorso a tale perverso strumento di lotta si era ripetuto tutte le volte che si era reso necessario fronteggiare la ascesa di forze progressiste.

Dalle ceneri dell'orrendo attentato di piazza Fontana, era nata la strategia golpista del BORGHESE e dei suoi accoliti.

Il convegno dell'Istituto POLLIO aveva segnato la strada seguita negli anni del

terrore, dal 1969 al 1974, con la messa a punto della trama di tutte le forze eversive (neofascisti ed apparati dello Stato), mobilitate per la lotta al nemico .comunista.

Erano seguite, su quella traccia iniziale, numerose, lucide teorizzazioni per una azione politica diretta alla distruzione del sistema.

Ed in tale opera ideologica, molti si erano segnalati, e tra essi sicuramente il FREDA ed il DELLE CHIAIE.

L'autore della strage di Peteano, il VINCIGUERRA, poteva affermare: "la linea stragista non è stata seguita da nessuna formazione di estrema destra in quanto tale, ma soltanto da elementi mimetizzati, in realtà appartenenti ad apparati di sicurezza o comunque legati a questi da rapporti di collaborazione...tutte le stragi che hanno insanguinato l'Italia a partire dal 1969 appartengono ad un'unica matrice organizzativa... tale struttura obbedisce ad una logica secondo cui le direttive partono da apparati inseriti nelle istituzioni".

 

3. I motivi di appello degli imputati

 

MARCO BALLAN

Col primo motivo di impugnazione si denunciava la violazione dell'art. 376 c.p.p. e si sosteneva che il BALLAN era stato rinviato a giudizio per un fatto diverso da quello originariamente a lui contestato: la prima imputazione di associazione, in concorso con Maurizio GIORGI e Adriano TILGHER, era stata trasfusa in altro capo di imputazione, relativo ad una associazione riferita a fatti e personaggi diversi.

Un secondo motivo richiedeva la assoluzione con formula piena, contestandosi che gli elementi emersi potessero giustificare una assoluzione con la formula dubitativa, (la partecipazione del BALLAN, ancora adolescente, ad una riunione dell'Istituto Pollio e le generiche dichiarazioni di Izzo e CALORE).

 

GIUSEPPE BELMONTE

Dichiarato responsabile del delitto di calunnia pluriaggravata e condannato alla pena

di anni dieci di reclusione, il BELMONTE, con un primo motivo, chiedeva di essere assolto, perché il fatto non costituisce reato o, quanto meno, per insufficienza di prove in ordine all'elemento psicologico.

Con un secondo motivo, chiedeva la esclusione della aggravante di avere agito per finalità di terrorismo, quanto al delitto di calunnia, e la assoluzione con formula piena dal reato di associazione eversiva.

Con un terzo motivo richiedeva il riconoscimento del vincolo della continuazione tra il reato di calunnia ed i reati giudicati con sentenza irrevocabile della Corte di Assise di Appello di Roma del 14.3.1986.

Un quarto motivo riguardava la concessione delle attenuanti generiche, da ritenere prevalenti o, quanto meno, equivalenti alle aggravanti contestate.

Con un quinto motivo, infine, si eccepiva la nullità della sentenza relativa alla pronuncia avente ad oggetto il reato di calunnia, perché quel procedimento era stato erroneamente ed illegittimamente riunito a

quello della strage.

Queste, sinteticamente, le ragioni poste a sostegno della impugnazione.

Il movente che aveva determinato l'imputato alla commissione del delitto di cui all'art. 368, secondo i giudici di Roma, era stato quello di lucro e non già del depistaggio eversivo.

Inoltre, contro la stessa configurabilità del delitto di calunnia, andava considerato il fatto che il SISMI non è organismo in rapporto di dipendenza con l'Autorità giudiziaria ed i suoi componenti non hanno l'obbligo di fare rapporto della notitia criminis; e, comunque, non vi era stata alcuna volontà di fuorviare i magistrati di Bologna che indagavano sulla strage del 2 agosto.

Di conseguenza, doveva in ogni caso escludersi la contestata aggravante di aver agito per finalità di eversione e di terrorismo.

 

CAVALLINI GILBERTO

Condannato ad anni tredici di reclusione

per il delitto di banda armata, la difesa chiedeva innanzitutto, che si dichiarasse la inammissibilità della costituzione di tutte le parti civile private, della Regione Emilia Romagna, della Provincia e del Comune di Bologna, con riferimento al delitto di strage.

Il ragionamento che aveva portato la Corte a ritenere la ammissibilità di quelle parti, avrebbe dovuto far ritenere la banda armata un antecedente, sul piano causale, del delitto di strage: cosa che, invece, nemmeno la sentenza aveva mai affermato.

Nei confronti del CAVALLINI, inoltre, doveva essere dichiarata la improcedibilità della azione penale perché 1'imputato era già stato condannato, dalla Corte di Assise di Roma, con sentenza divenuta definitiva, in ordine ai medesimi fatti, (banda armata).

Nel merito, si chiedeva una sentenza di completa assoluzione.

Il CAVALLINI, si sosteneva, non aveva avuto alcuna parte nei numerosi fatti criminosi nei quali si sarebbe espressa e

manifestata la attività della banda e si era

mostrato sempre contrario ad ogni attività di tipo stragista.

 

STEFANO DELLE CHIAIE

Si deduceva, innanzitutto, la nullità della sentenza per violazione dell'art. 412 c.p.p., anche in relazione all'art. 6, 3° comma, lettera A della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle 1ibertà fondamentali.

Il capo di imputazione non specificava né ruoli né funzioni dei diversi coimputati; e neppure indicava attraverso quali specifiche condotte l'imputato avesse perseguito il controllo e la gestione politica degli attentati.

Veniva richiesta, poi, rinnovazione del dibattimento (con riferimento ad una lista testimoniale già indicata), allo scopo di valutare testimonianze e documentazioni, (in particolare, la sentenza di assoluzione del DELLE CHIAIE dalla strage di Piazza Fontana e la sentenza della Corte di Assise di Roma relativa alla pretesa

unificazione tra A.N. ed O.N.), completamente pretermesse dalla Corte di primo grado e, quindi, assoluzione con la più ampia formula, ritenuta la completa irrilevanza di tutta la documentazione "ideologica", riferita all'imputato e la incongruenza della ipotesi di un depistaggio contro il DELLE CHIAIE posto in essere proprio dai suoi presunti sodali.

 

MASSIMILIANO FACHINI

Chiedeva 1'imputato la assoluzione dai delitti di strage e di omicidio plurimo aggravato, nonché dai connessi reati, per non aver commesso il fatto o, quanto meno, per insufficienza di prove.

Dal delitto di associazione eversiva, chiedeva di essere assolto con le formule "perché il fatto non sussiste" o "per non aver commesso il fatto".

Dal delitto di banda armata, infine,

chiedeva la assoluzione perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto o,

quanto meno, per insufficienza di prove.

In via di estremo subordine, si chiedeva

la continuazione con reati associativi dello stesso tipo, la derubricazione della imputazione a semplice partecipazione a banda armata, con attenuanti generi che e la diminuente dell'art. 311 cp.

Numerose le eccezioni preliminari. Innanzitutto, quella di violazione dei diritti di difesa per non esservi stata la concreta possibilità di ribattere adeguatamente alle affermazioni della sentenza nel tempo limitato concesso al difensore; tenuto conto della imponente mole di atti e documenti da consultare e valutare, e soprattutto, a causa delle perquisizioni eseguite presso lo studio dello stesso difensore, con conseguente sequestro di appunti e carteggi utili alla difesa, (art.185 c.p.p.).

Si sosteneva, poi, che le trascrizioni del verbali del dibattimento di primo grado dovevano considerarsi irrituali, non essendo state predisposte da personale tecnico autorizzato, né dal cancelliere di udienza, che si era limitato a sottoscrivere quei fogli,

qualificandoli come verbali di dibattimento.

Si trattava, pertanto, di atti inficiati da nullità.

Le medesime considerazioni riguardavano le registrazioni magnetofoniche, e l'uso del computer per la predisposizione degli atti dibattimentali: le registrazioni, in particolare, affidate a personale di una ditta privata, nemmeno investito della qualifica di personale ausiliario.

Altri motivi di nullità' venivano indicati nel fatto che la ordinanza di rinvio a giudizio era stata deliberata da due giudici istruttori e nella interruzione della Camera di Consiglio, (art. 472 c.p.p.) determinata dalla necessità di uno dei giudici di ricorrere a cure mediche.

Si passava, quindi, alla rinnovazione delle istanze istruttorie, con la richiesta di acquisizione della sentenza della Corte di Assise di Catanzaro, che aveva assolto il FACHINI con formula piena dalla accusa di concorso nella strage di Piazza Fontana e della sentenza della Corte di Assise di appello

di Broscia nel procedimento a carico di Cesare FERRI.

Nuova audizione di Mario Guido NALDI, da sentirè a norma dell'art. 450 cpp.

La presentazione, nel rinnovato dibattimento, degli autori delle relazioni tecniche eseguite in Germania, nel Centro di Wiesbaden: relazioni delle quali i periti di ufficio non avevano tenuto conto.

Rinnovato esame peritale, sulla base anche delle relazioni del Centro di Wiesbaden.

Audizione in qualità' di teste del colonnello CICCOTTI, autore di una relazione del SISDE, allo scopo di accertare quali erano state le fonti delle sue informazioni, con particolare riferimento all'esplosivo T4 ed alla "ipotesi araba".

Audizione, per mezzo di rogatoria internazionale, di ABU AYAD.

La esposizione dei motivi di impugnazione passava, quindi, ad analizzare, e contestare, nel merito le argomentazioni accusatorie.

La pista di destra non sembrava essere

stata inquinata dalle informazioni dei servizi segreti che, al contrario, avevano continuato a dare indicazioni proprio in quella direzione.

Le "voci" e le "chiacchiere" dei pentiti, definite dal difensore "prove labiali", erano, poi, da considerarsi poco affidabili.

La esposizione analitica delle critiche formulate in relazione alle numerosissime dichiarazioni testimoniali prenderebbe troppo tempo in questa sede e sarà oggetto della discussione e delle argomentazioni orali della difesa.

Deve, qui, ricordarsi una ulteriore richiesta della difesa a proposito della acquisizione delle precise posizioni giuridiche e carcerarie dei cosiddetti "pentiti", nonché di copia di tutte le sentenze pronunciate nei loro confronti, sia precedenti che susseguenti il "pentimento".

In particolare, per capire il personaggio VETTORE Presilio, si chiedeva la acquisizione della registrazione del suo interrogatorio ad opera del P.M. dottor

NUNZIATA.

Altra richiesta riguardava la questione del rinvenimento nel lago di Garda di esplosivi e proiettili.

Si chiedeva la escussione dei carabinieri che avevano condotto quella operazione di ripescaggio, contestandosi la utilizzabilità degli accertamenti tecnici eseguiti dall'autorità giudiziaria di Treviso, relativi ad altro procedimento, conclusosi, peraltro, con la decisione di non doversi promuovere la azione penale nei confronti del FACHINI.

 

MAMBRO FRANCESCA E FIORAVANTI VALERIO

Con la presentazione di motivi di appello comuni, i due imputati chiedevano rinnovazione del dibattimento diretta ad accertare risultanze testimoniali e documentali travisate dalla sentenza impugnata; e chiedevano, altresì, la assoluzione per non aver commesso il fatto, o in subordine, quanto al delitto associativo, con la formula "perché il fatto non costituisce reato".

In via subordinata, la assoluzione da tutti i reati con la formula del dubbio.

Nelle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di impugnazione si sottolineava come l'intera motivazione della sentenza si sostenesse sulla parola dello SPARTI.

Sul piano logico, diventava impossibile capire per chi e perché i due imputati avrebbero commesso la strage, una volta assolti i mandanti.

L'analisi dalle dichiarazioni del teste d'accusa, lo SPARTI appunto, evidenziava incongruenze e contraddizioni, e l'esame dell'alibi, e delle testimonianze che vi si riferivano, dovevano portare a conseguenze affatto diverse da quelle raggiunte dalla Corte di primo grado.

 

LICIO GELLI

Veniva innanzitutto riproposta la eccezione di improcedibilità della azione penale per il fatto che il GELLI era stato estradato in Italia per reati diversi da quelli oggetto del presente giudizio.

Nel merito, si chiedeva la assoluzione dell'imputato da tutti i reati a lui contestati, perché il fatto non sussiste.

Contrastando la ricostruzione accusatoria, si osservava che le informative del SISMI, che avrebbero dovuto essere depistanti, avevano invece subito indicato personaggi come FIORE e ADINOLFI, ed in seguito, lo stesso Vale, ricollegato all'eccidio di due carabinieri verificatosi a Padova il 5 febbraio 1981, episodio nel corso del quale era rimasto ferito, e poco dopo, catturato, Valerio FIORAVANTI.

D'altra parte, la iniziale pista FARINA si era ben presto inaridita ed esaurita e, quindi, non vi era alcun reale bisogno di depistare proprio perché non vi era alcuna valida pista.

Quanto, poi, ai motivi del depistaggio, la Corte di Assise di Roma li aveva individuati con certezza nel peculato, e cioè, nell'appropriazione di danaro pubblico.

Le perizie comparative sull'esplosivo utilizzato alla stazione di Bologna e su quello ritrovato nella valigia non avevano, comunque,

portato a conclusioni di certezza.

Ed anzi, il "compound B", si diceva nella perizia, "ha natura completamente diversa rispetto alla composizione chimica complessiva dell'esplosivo utilizzato nell'attentato del 2 agosto...nondimeno una piccola quantità di Compound B..potrebbe essere entrata nella composizione della carica esplosiva impiegata per la strage del 2 agosto 1980".

Dunque, i supposti calunniatori non avrebbero potuto aspettarsi alcun effetto sicuro dalla orchestrazione di quella operazione.

Quello che poteva essere visto soltanto come un parere del GELLI al dottor CIOPPA, circa le ipotesi da seguire per la ricerca dei responsabili della strage, era diventato, per la sentenza, un messaggio di GELLI a chi di competenza.

Del tutto inesistente era, poi, il preteso collegamento del GELLI col DE FELICE, col DELLE CHIAIE e col PAZIENZA.

E cosi pure le notizie circa cointeressenze processuali tra GELLI e FIORAVANTI, provenienti da una fonte

inattendibile come l'IZZO.

Inesistente, infine, pure il movente.

Nessun vantaggio sarebbe potuto derivare

al GELLI dalla strumentalizzazione della strage

del 2 agosto.

 

MAURIZIO GIORGI

Con il primo motivo di appello, si chiedeva la assoluzione dell'imputato con formula piena o, in subordine, per insufficienza di prove.

Con altri motivi di appello, veniva richiesta una riduzione della pena, ritenuta eccessiva e si lamentava la mancata concessione delle attenuanti generiche.

Sosteneva il difensore che i testi di accusa, PALLADINO e PINTUS non erano affidabili.

Il primo, in particolare, accusato di reati più gravi, aveva tutto l'interesse a respingere la ipotesi del possesso dell'arma.

 

EGIDIO GIULIANI

Condannato ad anni dieci di reclusione per il delitto di banda armata, la difesa, con un

primo motivo di appello, ne chiedeva la assoluzione con le formule "perché il fatto non sussiste" o "perché 1'imputato non lo ha commesso".

Con motivi subordinati, si chiedeva ritenersi la ipotesi di semplice partecipazione alla banda, di cui al II comma dell'art. 306 c.p., la concessione delle attenuanti generiche ed una congrua riduzione della pena.

Anche se fosse rimasto provato il rapporto di fornitura di documenti e targhe false al gruppo FIORAVANTI-CAVALLINI, ciò non avrebbe potuto significare necessariamente coinvolgimento del GIULIANI nella banda armata, alle cui finalità' l'imputato era stato sempre del tutto estraneo.

 

MELIOLI GIOVANNI

Assolto per insufficienza di prove dal delitto di banda armata, con unico motivo di impugnazione, chiedeva di essere assolto con formula pienamente liberatoria.

Secondo il difensore, i primi giudici non avevano tenuto conto delle convincenti

spiegazioni fornite dall'imputato, sia in istruttoria che al dibattimento, mentre avevano dato corpo a mere ipotesi.

 

PIETRO MUSUMECI

II primo motivo di appello attiene al rito con la richiesta di annullamento della decisione di primo grado per avere la Corte di Assise giudicato di un reato, la calunnia, di competenza del Tribunale, dopo avere il Presidente di quella stessa Corte, irritualmente emesso, su richiesta del P.M.. il relativo decreto di citazione;

richiesta illegittima perché non indirizzata al Presidente del Tribunale di Bologna, competente per materia ed anche per territorio, a seguito della decisione della Corte di Cassazione che in tal senso aveva risolto il conflitto negativo di competenza sollevato dal Tribunale di Roma.

Con motivi subordinati, si chiedeva la assoluzione del MUSUMECI con le formule "perché il fatto non sussiste", "per non avere l'imputato commesso il fatto", o "perché il fatto non costituiva reato".

Dopo amplissima trattazione dei motivi di diritto posti a sostegno della richiesta principale, di annullamento della decisione nei confronti dell'imputato, nel merito si osservava che unica fonte di accusa era stata individuata nelle dichiarazioni del maresciallo SANAPO; il quale, però, era stato in stretto ed esclusivo contatto col BELMONTE e per esso MUSUMECI, le cose che riferiva il BELMONTE apparivano valide e attendibili.

 

SERGIO PICCIAFUOCO

Veniva innanzitutto proposta la questione del tatuaggio e richiamata la deposizione del dottor Lo Mastro, al quale il PICCIAFUOCO, il 15.5.1981, aveva mostrato il tatuaggio originale.

Il personaggio PICCIAFUOCO, inoltre, non era stato ricollegato, attraverso prove solide, ad altri imputati, né era emerso il necessario accordo sottostante tra l'esecutore materiale ed i suoi ipotetici mandanti.

La motivazione della sentenza si era soffermata unicamente sulla spiegazione,

ritenuta insoddisfacente, data dall'imputato circa la sua presenza alla stazione il 2 agosto, e sulla asserita poiiticizzazione del PICCIAFUOCO.

 

RINANI ROBERTO

Richiesta la assoluzione con formula piena dal delitto di strage e dai reati connessi.

Del tutto inattendibili dovevano ritenersi le dichiarazioni del Vettore Presilio ed al riconoscimento del RINANI, fatto dallo stesso VETTORE in maniera del tutto irrituale, non poteva attribuirsi alcun valore.

Il VETTORE, inoltre, era in possesso di notizie riguardanti un progettato attentato al giudice STIZ, prima ancora di incontrare il RINANI, e comunque, prima dell'omicidio del giudice AMATO, del 23 giugno 1980.

Si richiamava, poi, la testimonianza di certo BERGONZONI (alla Digos di Bologna il 25 novembre 1983), secondo il quale 1'accoltellamento del VETTORE in carcere non era affatto riconducibile alle sue pretese rivelazioni, ma piuttosto, dal rancore di

qualcuno per il suo comportamento durante una rapina.

Si chiedeva, poi, assoluzione dal delitto di banda armata, con formula ampia o, in subordine, applicarsi la causa di improcedibilità dell'art. 90 c.p.p., sussistendo identità del reato contestato con quello "analogo", relativo al procedimento inviato al g.i. di Roma con sentenza di incompetenza 30.4.1981 del g.i. di Bologna, procedimento conclusosi con sentenza istruttoria di proscioglimento.

In via di estremo subordine, contenersi la pena entro i minimi edittali, con la concessione delle attenuanti generiche.

I riferimenti al RINANI di testi come il GHEDINI, il CONTIN, il NAPOLI, l'ALEANDRI erano stati del tutto vaghi ed incerti e non tali da poter costituire la base di una affermazione di responsabilità.

 

PAOLO SIGNORELLI

Queste le richieste formulate al termine della esposizione dei motivi di impugnazione:

assoluzione con ampia formula da tutti i reati;

in via subordinata, assoluzione per insufficienza di prove dal delitto di banda armata e, in estremo subordine, attenuanti generiche, prevalenti, e massima riduzione della pena.

Esclusione della condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.

Molto sinteticamente, questi gli argomenti e le osservazioni critiche proposte.

Il ruolo del "cattivo maestro", assegnato al SIGNORELLI, non poteva dirsi confermato dai testi che avevano riferito circostanze di scarso rilievo.

Cosi' il SODERINI, il cui "battesimo di fuoco" era consistito nella esplosione di un paio di colpi di pistola in aria allo scoccare della mezzanotte del 1978.

Ed il Piso, il quale, in dibattimento, aveva smentito la tabulazione del Latini che lo voleva minacciato dal SIGNORELLI perché entrasse in TP.

Infine, il Fratini, che da prima aveva detto che il SIGNORELLI gli aveva chiesto di nascondere armi e documenti, e poi, che non

era più ritornato sull'argomento, che non sapeva, che comunque non ricordava.

Restava, invece, il fatto certo che nemmeno uno delle centinaia di allievi, seguiti dalla cattedra del liceo, era stato, nel corso degli anni, condannato o semplicemente imputato per reati di terrorismo.

Si contestava, poi, la veridicità dell'episodio riferito dall'ALEANDRI circa le indicazioni date dal SIGNORELLI per reperire esplosivo.

ALEANDRI, il quale aveva a portata di mano il fornitore principale di esplosivo, e cioè, il FACHINI.

La attività della banda armata, inoltre, veniva riferita dalla fine del 1979 all'agosto 1980.

In tale arco di tempo, il SIGNORELLI era rimasto del tutto estraneo alle imprese terroristiche, come quelle del FIORAVANTI.

Del tutto inesistenti dovevano poi ritenersi i rapporti con GELLI, dei quali non aveva parlato nemmeno l'ALEANDRI

L'ammiraglio MARTINI ed il generale

NOTARNICOLA avevano escluso qualsiasi contatto del SIGNORELLI con la organizzazione.

 

ADRIANO TILGHER

Col primo motivo veniva dedotta la violazione dell'art. 376 c.p.p. perché all'imputato era stata inizialmente contestata una imputazione di associazione eversiva, in concorso con BALLAN e GIORGI, del tutto diversa da quella per la quale era stato poi rinviato a giudizio, che lo vedeva associato a GELLI, MUSUMECI, PAZIENZA, SIGNORELLI ed altri.

Il secondo motivo riguardava la asserita violazione dell'art. 372 c.p.p. non avendo potuto la difesa dell'imputato consultare, nel brevissimo termine del deposito, la enorme mole degli atti della istruttoria.

Nel merito, si contestava che a carico del TILGHER fossero emersi elementi di accusa e si chiedeva, pertanto, che la formula di assoluzione fosse quella pienamente liberatoria.

 

FRANCESCO PAZIENZA

Assoluzione dalla calunnia aggravata

perché il fatto non sussiste o perché egli non lo ha commesso.

Nessuna motivazione la Corte aveva posto a sostegno della sua decisione, mentre era stata utilizzata la sentenza, passata in giudicato, a carico del MUSUMECI e del BELMONTE, condannati per la appropriazione di un miliardo e duecento milioni.

Quella sentenza aveva ritenuto i due responsabili della appropriazione del danaro ed indicato in tale illecito, e non già nell'intento depistante e calunniatore, il vero movente della loro condotta.

Attraverso l'espediente, (così veniva definito), della riunione dei procedimenti, era stata mutata la stessa qualificazione giuridica di quell'originario reato, per il quale il MUSUMECI ed il BELMONTE avevano riportato condanna, aggiungendosi la aggravante del fine di eversione dell'ordine costituzionale e coinvolgendo anche il PAZIENZA.

PAZIENZA che, collaboratore esterno del Sismi, dal giugno 1980 al maggio 1981, era rimasto al di fuori d elle indagini condotte sulla

strage della stazione di Bologna.

L'imputato doveva, poi, essere assolto dal reato di associazione eversiva perché il fatto non sussiste e non per insufficienza di prove, formula non motivata, ed anzi, contraddetta dalla stessa affermazione dei primi giudici in ordine alla inesistenza di un accordo preventivo.

Con altro motivo di impugnazione, si richiedeva la parziale rinnovazione del dibattimento per contrastare la affermazione contenuta in sentenza circa la conoscenza del PAZIENZA col GELLI e la sua appartenenza alla Loggia P2.

In particolare, si chiedeva nuova escussione della teste LAZZERINI, da porre a confronto col teste Ezio GIUNCHIGLIA.

Quanto al depistaggio, si deduceva che erano state completamente ignorate testimonianze (come quella del giornalista BARBERI e del generale NOTARNICOLA) e documenti, come ad esempio, il rapporto inviato dal Sismi nel 1983 alla Commissione Parlamentare Moro, nel quale si riferiva dei collegamenti stretti e

costanti tra il terrorismo italiano e quello internazionale.

Si chiedeva, quindi, la escussione in aula del NOTARNICOLA, del generale LUGANESI e del Direttore del CESIS.

Altra contraddizione della sentenza veniva individuata nel fatto che il PAZIENZA, secondo il capo di imputazione, avrebbe fatto parte di una associazione eversiva alla quale partecipava anche il DELLE CHIAIE: DELLE CHIAIE che, poi, sarebbe stato falsamente accusato, dallo stesso PAZIENZA, e cioè da un socio, come uno degli organizzatori della strage della stazione di Bologna.

La verità era che il MUSUMECI ed il BELMONTE avevano agito soltanto a fine di lucro personale e non già allo scopo di depistare e coprire i responsabili della strage.

In via subordinata, la riduzione della pena ai minimi edittali, con esclusione di tutte le aggravanti e concessione delle attenuanti generiche.

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Capitolo Quinto

IL DIBATTIMENTO DI APPELLO

II 25 Ottobre 1989 ha avuto inizio il giudizio di appello, il cui svolgimento si è protratto fino al 18 luglio 1991, data in cui la Corte dopo una permanenza in camera di consiglio decentrata a partire dal 3 luglio, ha pronunziato la sentenza.

Nei preliminari e nel corso del giudizio sono state risolte varie questioni come da apposite ordinanze che qui si hanno per riprodotte. Il dibattimento ha subito una forzata sospensione per malattia di un componente togato del collegio con regolare comunicazione anche agli imputati assenti e ai difensori delle date dei rinvii.

Il giudizio si è svolto in ottanta giorni di udienza, in contumacia del BELMONTE, del DE FELICE, del GELLI, del GIORGI, del MUSUMECI, del RAHO e in assenza, per rinuncia, del GIULIANI e del CAVALLINI, il quale, peraltro si è presentato a rendere l'interrogatorio.

Per l'imputato BALLAN originariamente contumace, è stata revocata l'ordinanza allorché si è presentato per rendere l'interrogatorio.

Gli imputati nei loro interrogatori hanno

ribadito la loro innocenza.

Numerose sono state le richieste di rinnovazione parziale del dibattimento formulate con i motivi di impugnazione di vari appellanti e nel corso del giudizio.

Larga parte di esse è stata accolta; del mancato accoglimento delle altre è stata fornita motivazione nelle ordinanze, di volta in volta, pronunciate.

Motivazione fondamentalmente consistente nella mancanza del requisito dell'indispensabilità del postulato atto rinnovativo ai fini del decidere la regiudicanda di pertinenza. Questi caratteri di superfluità, sovrabbondanza e non necessarietà risultano per implicito ancora più evidenti nella trattazione dei vari punti di decisione e dalla esposizione delle ragioni del decidere.

La rinnovazione parziale del dibattimento si è estrinsecata precipuamente nell'acquisizione di copie di atti relativi ad altri procedimenti penali al fine di aggiornare il materiale documentale già acquisito nel corso del presente processo in relazione allo stato di quei

procedimenti; nel riesame di fonti di accusa ritenuto indispensabile per un vaglio diretto della loro effettiva portata; nell'espletamento di nuova perizia esplosivistica, resasi necessaria per verificare dati già' acquisiti ed integrarli alla luce di nuove emergenze costituite da accertamenti peritali compiuti in altro procedimento penale pendente presso il giudice istruttore del Tribunale di Venezia a seguito di reperimento di ordigni esplosivi nel Lago di Garda, accertamenti intervenuti mentre era in corso la discussione nel dibattimento del primo grado del presente giudizio e successivamente sviluppati, e che inducevano l'esigenza di stabilire se i nuovi reperti fossero, quanto alla loro composizione, assimilabili al materiale impiegato per l'esplosione alla stazione ferroviaria di Bologna e a quello rinvenuto nella valigia collocata sul treno Taranto-Milano.

All'esito del dibattimento il P.G., i difensori delle parti civili e i difensori degli imputati hanno concluso come da processo verbale.

 

PARTE SECONDA

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M O T I V I D E L L A

D E C I S I O N E

 

Capitolo Primo

LE INAMMISSIBILITÀ

 

Preliminarmente occorre procedere alla declaratoria d'inammissibilità di alcune impugnazioni proposte avverso la sentenza della Corte di assise di Bologna.

 

1) Le parti civili SECCI Torquato, DALL'OLIO Raffaella, GALLON Giorgio, GANBERINI Marina proponevano impugnazione per gli interessi civili ma omettevano di far notificare la relativa dichiarazione alle altre parti del processo (P.M. e imputati), secondo quanto prescrive l'art.202 c.p.p./1930 a pena di decadenza, né facevano seguire alla dichiarazione l'enunciazione dei motivi, di tal che l'impugnazione va dichiarata inammissibile ai sensi degli artt. 207 e 209 c.p.p., con conseguente condanna dei predetti alle spese cui hanno dato causa, a norma dell'art.214 c.p.p.

 

2) L'imputato RAHO ROBERTO è stato destinatario degli appelli proposti dal

Procuratore della Repubblica e dal Procuratore Generale, ma il primo ha espresso formale rinuncia, il secondo non ha enunciato i motivi, di tal che le due impugnazioni vanno dichiarate inammissibili per la rispettiva causa sopra menzionata.

Il RAHO è anch'agli appellante, ma ha omesso di presentare i motivi, onde anche l'impugnazione da lui proposta va dichiarata inammissibile per detta causa, con conseguente relativa condanna del medesimo alle spese.

 

3) L'appello proposto dal Procuratore Generale nei confronti di GIORGI MAURIZIO è inammissibile per mancata presentazione dei motivi.

 

4) II difensore dell'imputato HUBEL KLAUS FRIEDRIK propose appello avverso la sentenza, ma nè l'appellante, ne il suo assistito presentarono motivi.

Nei motivi di appello (f.40) presentati dall'avv. Marcantonio Bezicheri "nell'interesse di FACHINI MASSIMILIANO e PICCIAFUOCO SERGIO"

viene trattata anche la posizione dello HUBEL, del quale si chiede l'assoluzione con formula piena, ma ciò non vale a sanare l'inammissibilità veriticatasi per la mancata enunciazione di appositi motivi relativi all'impugnazione proposta a favore di detto imputato;

inammissibilità che va dichiarata, con conseguente condanna dello HUBEL al pagamento delle spese cui ha dato causa.

Capitolo Secondo

QUESTIONI DI NULLITÀ

Preliminare alla trattazione del merito delle censure proposte dagli appellanti avverso la impugnata sentenza o la disamina di quelle concernenti la validità di essa, contestata in tutto o in parte sotto vari profili di ordine generale e particolare, con deduzioni talora ad effetto estensivo.

 

a. Il profilo più radicale è quello che investe la stessa giuridica esistenza dell'atto, sull'assunto, già respinto "in limine" da questa Corte con l'ordinanza del 25.10.1989, del difetto d'imparzialità del giudice di primo grado per

l'asserita inframmettenza, nella conduzione del processo, di forze politiche esterne, che avrebbero collateralmente con i magistrati del processo influenzato la decisione, si da denaturarla ad entità meramente fittizia.

Orbene, a prescindere dal carattere affatto assertorio del vizio dedotto, è di tutta evidenza che la parzialità del giudice quand'anche risultasse dimostrata non produce l'effetto di privare il medesimo della "potetas iudicandi" che gli è attribuita quale organo della giurisdizione allorché formalmente sia costituito come tale nel rispetto delle norme che ne regolano la costituzione abilitandolo all'esercizio del potere giurisdizionale, né ha l'effetto di degradare l'atto di esercizio di tale potere ad espressione di volontà privatistica dei soggetti legalmente investiti del medesimo, di tal che non è configurabile il presupposto per la declaratoria d'inesistenza della sentenza, come di recente delineato dalla pronuncia a sezioni unite della Corte di cassazione (26/4/1989 ric.Goria in Giust.pen.1989, pag.741 parte terza), secondo cui

i provvedimenti inesistenti sono solo quelli in ordine ai quali è da escludersi la provenienza da un organo investito del potere giurisdizionale ovvero quelli pronunciati in condizioni di mancanza di un rapporto processuale.

 

b. Escluso che la causa dedotta possa già in astratto essere produttiva d'inesistenza della sentenza, ne deriva la irrilevanza giuridica dei sollecitati accertamenti in via di parziale rinnovazione del dibattimento a costituire la prova della medesima, nonché l'insussistenza di questioni, pregiudiziali, - penale e amministrativa, - ex art.18 e 20 c.p.p. pur profilate in relazione alla pendenza presso la Procura della Repubblica di Firenze di un procedimento penale riguardante vicende collaterali o successive allo svolgimento del giudizio di primo grado, nonché in relazione all'intervento del Consiglio Superiore della Magistratura diretto a far chiarezza sul comportamento di alcuni magistrati con riferimento a detto giudizio.

E' appena il caso di notare, come già si è

fatto con l'ordinanza di questa Corte in data 26.10.1989, che esula dalla cognizione del giudice di appello l'accertamento e la valutazione dei fatti non riguardanti l'oggetto del giudizio e cioè la conformità a giustizia delle statuizioni della sentenza impugnata, ma presunti atteggiamenti e condizionamenti psicologici dei giudici decidenti.

 

c. E' stata inoltre eccepita la nullità del processo per violazione dell'art.185 n.3 c.p.p. in relazione agli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali resa esecutiva con legge 4/8/1955 n.848 sul riflesso delle limitazioni del diritto di difesa personale e tecnica derivata dalle notevoli dimensioni della procedura e dall'elefantiasi degli atti e documenti processuali, che avevano determinato di fatto limitazioni alla conoscenza e all'utilizzazione di essi per difficoltà di accesso e per costi economici insopportabili, con conseguente disparità di posizione tra imputati non abbienti e altre parti processuali, in particolare

rispetto al P.M. che si era potuto avvalere dell'apparato di informatizzazione dei dati.

L'eccezione va respinta giacché, a prescindere dal rilievo che non tutta la massa degli atti compiuti e dei documenti acquisiti, spesso su istanza o produzioni degli stessi interessati, riguarda le posizioni dei singoli imputati sufficientemente determinate attraverso le relative contestazioni nel corso delle attività processuali; e dall'ulteriore rilievo della genericità della doglianza espressa in termini di generalizzazione critica delle disfunzioni legate al fenomeno dei cosiddetti maxiprocessi sul piano della integrità ed efficienza del contraddittorio processuale, senza la indicazione in concreto di quale parte rilevante del materiale di causa sia rimasto inaccessibile all'imputato e al difensore sì da ostacolare l'esercizio della difesa, occorre considerare che la tutela apprestata dall'art.185 n.3 c.p.p. all'intervento e all'assistenza difensiva dell'imputato non ha carattere incondizionato, ma è delimitata testualmente e tassativamente, ai casi ed alle forme che la

legge stabilisce, di tal che essa non può essere estesa a situazioni puramente fattuali (quali l'imponenza delle acquisizioni processuali, la laboriosità del compito defensionale, il costo economico per l'efficace disbrigo di esso) dalla legge non previste e che peraltro non hanno effetto di precludere, bensì semmai e soltanto di rendere maggiormente impegnativo l'esercizio della difesa, senza dire poi che nella specie nonostante la non agevolezza, sia gli imputati che i loro difensori (in particolare quelli del FACHINI e del PICCIAFUOCO, da cui proviene l'eccezione), come si evince dai loro interventi specie nel dibattimento di primo grado, hanno mostrato di avere piena padronanza conoscitiva delle risultanze processuali.

Il principio cosiddetto di parità delle armi non è espressamente sancito dalla citata convenzione europea il cui art.5 contiene norme sul diritto di ogni persona alla libertà e alla sicurezza, che non incidono per il tramite dell'art.185 n.3 c.p.p. sulla risoluzione della dedotta questione di nullità del processo, mentre l'art.6 nel dettare norme sul diritto di ogni

persona ad un giusto processo, per quanto riguarda le garanzie dell'imputato (terzo comma) si limita ad enunciare tra le altre (qui non pertinenti) quella relativa alla disponibilità del tempo e della possibilità necessari a preparare la difesa, di tal che una violazione dell'art.185 n,3 c.p.p. è configurabile soltanto se la difesa personale e tecnica non abbia avuto tempo e modo apprezzabili per dispiegarsi, senza alcun riferimento comparativo con la contrapposta posizione dell'accusa, quanto a dotazione di supporti strumentali ed economici, anche se la parificazione delle opportunità tra ufficio dell'accusa e ufficio della difesa costituisce meta direzionale evolutiva dell'organizzazione del giusto processo sulla strada già in parte percorsa (con l'avvento del nuovo codice di procedura penale) delle riforme ordinamentali.

Peraltro l'ambito dell'eccezione di nullità, cosi' come profilata, investe anche in via specifica la violazione del diritto di difesa con riferimento alla criticata incongruità del termine stabilito dalla vigente normativa (art. c.p.p. 201/1930, come modificato dall'art. 1

della L. 21.12.1988 n. 535) per la motivazione dell'impugnativa proposta avverso sentenze pronunziate In procedimenti di particolare complessità, normativa in ordine alla quale viene elevato sospetto d'illegittimità costituzionale con riferimento alla norma di cui all'art.24 Costituzione.

Il sospetto, a prescindere dalla rilevanza di esso, in quanto nella specie il giudizio non verte sull'ammissibilità di un'impugnazione per la quale siano stati presentati motivi oltre il termine prescritto, è manifestamente infondato giacché appartiene alla sfera della discrezionalità legislativa la determinazione di un ragionevole spazio temporale per la enunciazione delle censure mosse dalla parte ad un provvedimento giurisdizionale impugnato ed il termine di giorni quaranta dalla notifica dell'avviso di deposito della sentenza in procedimento complesso, stabilito con le disposizioni di legge di cui trattasi, non è palesemente irragionevole consentendo un adeguato studio della sentenza nelle parti afferenti la posizione del singolo impugnante, e la succinta

esposizione delle ragioni di censura eventualmente seguita da memorie illustrative, soprattutto quando, come nella specie l'ufficio di difesa, sia rimasto soggettivamente immutato e perciò già in possesso della necessaria informazione processuale.

Ovviamente, la ragionevolezza del termine non può commisurarsi alle esigenze del singolo processo in relazione alle dimensioni assunte dal medesimo, ne la determinazione della congrua durata di esso può avvenire mediante sentenza costituzionale additiva, giacché, secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, l'intervento in tale direzione del giudice delle leggi è ammissibile solo in caso di statuizioni costituzionalmente imposte.

 

d. Nullità del processo di primo grado e della sentenza sono state eccepite dalla difesa del FACHINI e del PICCIAFUOCO sotto vari profili attinenti la documentazione dell'attività dibattimentale per essere stati i relativi processi verbali stesi dal cancelliere dapprima in forma riassuntiva manoscritta asseritamente

illeggibile, successivamente in forma meccanica attinta dalla registrazione magnetofonica integrale degli atti mediante trascrizioni arbitrariamente compiute dallo stesso cancelliere o con l'ausilio di personale tecnico non investito all'uopo di formale incarico peritale;

registrazione anch'essa, a sua volta, compiuta da personale ausiliario non regolarmente autorizzato, tutto ciò in violazione degli artt.492 e segg. c.p.p.

La dedotta nullità non sussiste giacché:

1) la duplicità della verbalizzazione (in forma riassuntiva manoscritta ed in forma integrata meccanografica) ad opera del cancelliere non è causa di nullità secondo la previsione dell'art.492 primo comma c.p.p., che riguarda l'omissione della compilazione del processo verbale del dibattimento, vale a dire, la situazione in cui l'attività dibattimentale sia stata compiuta senza la prescritta documentazione, non quando questa sia stata effettuata in modo per cosi dire potenziato, mirante a fornire la possibilità di una conoscenza più precisa ed estesa della realtà

documentata, nonché di un raffronto tra il testo manoscritto del processo verbale e quello meccanografico derivato dalla trascrizione di supporto magnetofonico, raffronto valevole al limite per la interpretazione e la migliore intelligenza del segno grafico manuale in ipotesi di laboriosa lettura.

2) Altro è il problema dell'efficacia documentativa del processo verbale formato dal cancelliere, in aggiunta a quello manoscritto riassuntivo, con la mediazione delle registrazioni magnetofoniche, nelle parti chiarificative e integrative del contenuto del primo; ma si tratta manifestamente di problema la cui soluzione travalica l'ambito della dedotta questione di nullità del dibattimento e della sentenza, la validità dell'uno e dell'altra restando ferma anche se in ipotesi l'operazione mediata aggiuntiva compiuta dal cancelliere come organo istituzionale di documentazione dell'attività dibattimentale dovesse per qualche verso essere riconosciuta irregolare.

3) Ma cosi non è, posto che l'art.496 bis c.p.p. 1930, nel regolare l'uso dei registratori

quali strumenti di riproduzione sonora di attività dibattimentali, non fa divieto al cancelliere facoltizzato a farsi assistere da personale ausiliario per il funzionamento dei necessari apparecchi, di effettuare la trascrizione delle dichiarazioni e deposizioni registrate, né impone per detta operazione la nomina di un perito o esperto, ma si limita a stabilire l'indefettibilità della verbalizzazione ordinaria nei modi di cui all'art.495 c.p.p. e il valore probatorio di essa in caso di imperfetta registrazione; con la quale ultima disposizione implicitamente assegnando valore documentativo alle registrazioni perfettamente ed intellegibilmente eseguite.

4) Il verbale riassuntivo e il verbale riproduttivo delle dichiarazioni registrate provenendo entrambi dalla stessa fonte

legittimata alla verbalizzazione, non necessariamente contestuale, dell'attività dibattimentale non si annullano reciprocamente, ma si integrano, per lo meno nelle parti non contenutisticamente divergenti; rispetto a quelle aggiuntive è data sempre al giudice ed alle parti

la possibilità di controllarne la fedeltà mediante l'ascolto delle registrazioni debitamente custodite.

5} L'uso dai registratori disciplinato dall'art.496 bis c.p.p., come implica 1'utilizzabllità della registrazione da parte del giudice quale mezzo per una più estesa e perfetta conoscenza dalla realtà processuale ai fini del giudizio, cosi comporta la facoltà per il cancelliere di avvalersene per la formazione del processo verbale dibattimentale ad integrazione e chiarificazione di quello riassuntivo, rendendosi egli garante della corrispondenza dell'elaborato scritto al tenore delle dichiarazioni registrate, fino ad impugnativa di falso circa tale corrispondenza, impugnativa che deve perciò riguardare singoli e determinati punti di divergenza e non la totalità del processo verbale per il mero fatto della compilazione di esso, sull'assunto, per la verità specioso (come quello prospettato dal deducente), dell'impossibilità per il cancelliere di dare atto immediatamente ed esattamente di quanto da lui percepito.

Assunto che non tiene conto dell'apporto

ricognitivo dei dati registrati e trasfusi nel testo scritto e che conduce il deducente alla paradossale conclusione della falsità ideologica del processo verbale... per essere le relative attestazioni inverosimilmente puntuali.

6) Anche se non è rinvenibile un atto formale presidenziale circa l'uso dell'apparato di registrazione come mezzo di documentazione integrativa dell'attività dibattimentale e un atto formale del cancelliere circa l'attribuzione a personale ausiliario del compito di attendere al funzionamento dell'apparato stesso, non v'è dubbio che nella specie l'espletamento del servizio di registrazione sia avvenuto per disposizione oralmente impartita dal presidente ed eseguito da personale richiesto dal cancelliere; ed è del tutto ininfluente, al fine della validità del risultato del servizio stesso, che questo sia stato prestato senza previo giuramento degli operatori, atto non previsto dal l'art.496 c.p.p.

 

e. Ancora palesemente infondata è l'eccezione di nullità degli atti processuali a causa

dell'uso del computer.

Valgono al riguardo le considerazioni già espresse dalla sentenza impugnata che ha posto in evidenza l'equivoco su cui si sorregge l'eccezione (il confondere l'uso dell'apparato computeristico per la stampa meccanografica di atti processuali, come tale, equivalente alla confezione dattilografica di essi, con l'uso dell'apparato stesso come mezzo di elaborazione dati), equivoco nel quale il deducente mostra di perseverare nella motivazione della censura.

Altro è invero utilizzare il mezzo informatico (ove peraltro ciò fosse possibile) in funzione sostitutiva dell'attività dalla legge richiesta per la formazione dell'atto processuale, altro è utilizzare l'apparecchiatura computeristica unicamente per memorizzare l'atto processuale già formato o nel corso della formazione di esso e per ottenerne la stampa immediata, come nella specie è avvenuto ad opera del cancelliere.

Questi infatti si è soltanto servito di dette apparecchiature, che consentono una scritturazione assistita da schermo visivo con la

possibilità di immediata e rapida emendazione di eventuali errori ed omissioni prima della stampa definitiva e ripetibile del testo, anziché servirsi di una comune macchina da scrivere.

Si è osservato che il mezzo utilizzato per la stesura dei processi verbali aggiuntivi non è previsto dalla legge che, eccezionalmente prevede e regola (art.496) l'uso della stenografia.

Ma l'argomento prova troppo giacché, da un lato, la disciplina di detto uso è in funzione della natura di esso come mezzo sostitutivo ed esclusivo della verbalizzazione ordinaria, che comporta necessariamente la traduzione del segno stenografico, incomprensibile dagli inesperti, in un segno grafico comunemente comprensibile, dall'altro lato, la legge, quanto alla verbalizzazione ordinaria, non prescrive a pena di nullità la scrittura manuale e nulla perciò osta all'impiego di scrittura a macchina o meccanizzata.

 

f. E' stata impugnata di nullità ex art.185 n.1 c.p.p. l'ordinanza di rinvio a giudizio, con effetto invalidativo conseguenziale del giudizio

e della sentenza, essendo l'atto terminativo dell'istruttoria stato sottoscritto da due giudici istruttori, in violazione della regola di monocraticità dell'atto, con illegittima formazione collegiale dell'organo decidente in spregio della naturale unicità del giudice istruttore e della individuale capacità decisoria ad esso attribuita.

La deduzione è infondata.

Il fatto che l'ordinanza di cui trattasi sia stata sottoscritta da entrambi i giudici istruttori che avevano partecipato all'istruzione del processo, non significa che la decisione adottata sia la risultante di una deliberazione collegiale, ma soltanto che essa era condivisa da entrambi i sottoscrittori dell'atto, ciascuno dei quali era naturalmente fornito di per sé della capacità generica e specifica di giudicare; di tal che non ricorre l'ipotesi configurata di nullità né per difetto di capacità del singolo giudice decidente, né per la congiuntività della decisione, riferibile indifferentemente all'uno o all'altro degli istruttori e perciò tale da realizzare il requisito sufficiente per la sua

validità intrinseca ed estrinseca, anche se la stesura della motivazione di essa possa essere avvenuta concorsualmente.

 

g. Traendosi spunto dal fatto che durante la permanenza in camera di consiglio della Corte d'assise, durata più giorni, il giudice "a latore" era stato costretto a ricorrere a cure ospedaliere a causa di un infortunio, assentandosi per qualche giorno, previa ordinanza presidenziale di sospensione dei lavori, è stata dedotta nullità della sentenza ex art.472 e 185 n.1 c.p.p., sul riflesso che nella specie, in luogo dell'interruzione della camera di consiglio, quand'anche questa si dovesse considerare legittima (laddove la legge prevederebbe secondo il deducente soltanto la possibilità di interruzione intermedia tra chiusura della discussione dibattimentale e ritiro del giudice in camera di consiglio), si era avuta di fatto una prosecuzione dei lavori da parte del collegio privato di una sua unità deliberante.

L'eccezione è priva di fondamento.

Intanto non è condivisibile l'assunto giuridico che l'art.472 c.p.p., stabilendo che "la sentenza è deliberata dagli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento senza interruzione, salvi i casi di assoluta impossibilità", precluda, in detti casi, l'interruzione dell'attività deliberativa camerale.

L'impossibilità cui fa riferimento senza, indicazioni casistiche, la formula normativa può determinarsi sia nella sequenza tra discussione dibattimentale e ritiro del giudice in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza, sia nel corso delle attività per tale incombenza necessarie ai sensi del l'ari.473 c.p.p.

Peraltro la norma, scritta in epoca in cui al legislatore era sconosciuto il fenomeno cosiddetto dei maxiprocessi e della conseguente protrazione della camera di consiglio per tempi lunghi, si presta, proprio per l'indeterminatezza del suo dettato, a contemplare la necessaria discontinuità dell'attività deliberativa indotta dalla sua lunga durata e dalla inevitabilità di pause dovute ad esigenze fisiologiche dei giudici

(assunzione di pasti, riposo notturno, intervalli distensivi ed anche ad evenienze patologiche transeunti).

Da notare, comunque, che la regola di continuità ininterrotta non è assistita da sanzione specifica di nullità e perciò tale sanzione può attingersi soltanto dall'art.185 n.1 c.p.p. ove sia dimostrato che la deliberazione della sentenza sia avvenuta in assenza di un componente del collegio deliberante.

E questa non è di sicuro la situazione configurata dal deducente, il quale lamenta che l'attività deliberativa sia proseguita di fatto anche durante il tempo in cui un giudice si era dovuto forzatamente allontanare dalla camera di consiglio, laddove l'ordine di sospensione dei lavori, impartito formalmente dal presidente nell'esercizio del potere di direzione dell'attività deliberativa, sta a dimostrare il contrario.

Né era necessario, come suggerisce il ricorrente, per analogia con quanto è prescritto dall'art.4ó9 in tema di interruzione della discussione, che il provvedimento di sospensione

dovesse essere reso ostensibile alle parti,

mediante rientro nell'aula di udienza e lettura del medesimo, perché, a prescindere dal rilievo che la disciplina della discussione e la interruzione di tale attività dibattimentale per l'assunzione di nuove prove ubbidisce ad esigenze particolari dissimili da quelle che stanno alla base della regola di continuità dell'attività deliberativa (e dunque non è ammissibile analogia interpretativa ed applicativa), la legge non contempla la necessità che della causa interruttiva di tale attività sia data immediata conoscenza in forma pubblica e, d'altronde, se ciò dovesse ammettersi, ne dovrebbe conseguire non la ripresa di essa, cessata la causa dell'interruzione, bensì il rinvio del processo a nuovo ruolo, essendo inconcepibile, che uscito dalla camera di consiglio, il collegio vi faccia ritorno pur non potendo ulteriormente deliberare, senza dire che la stessa ordinanza interruttiva sarebbe nulla perché adottata o pronunziata da collegio imperfetto.

 

h. Una nullità parziale della sentenza è

stata dedotta dalla difesa del FACHINI e del PICCIAFUOCO (f.39 motivi principali d'appello) per essere stati utilizzati, ai fini del decidere, atti della commissione parlamentare d'inchiesta sulla P.2 all'uopo ammessi, acquisiti e dichiarati utilizzabili senza il consenso delle parti.

La dedotta nullità non sussiste.

Gli atti di cui trattasi facevano parte del materiale documentario già acquisito durante l'istruttoria formale ed integrato da produzioni dibattimentali regolarmente ammesse.

La declaratoria di utilizzabilità e l'utilizzazione di essi non urta contro alcuna delle disposizioni di divieto e delle relative fattispecie d'invalidazione contenute negli artt.462 e segg.c.p.p., mentre trae legittimazione dall'art.466 ultimo comma, che permette la lettura di ogni documento non espressamente vietato.

E' poi appena il caso di notare che non va fatta confusione tra validità dell'uso processuale del documento acquisito e valore probatorio del medesimo, il cui difetto è

destinato semmai ad influire negativamente sulla motivazione della sentenza che se ne sia avvalso e perciò sull'"intrinseco" della decisione (controllabile nel giudizio di appello) e non già sulla validità formale di essa.

 

i. Di altre eccezioni di nullità della sentenza, proposte dalla difesa del FACHINI e del PICCIAFUOCO (f.2 e segg. e 55 e segg. motivi aggiunti) per violazione degli artt.185 n.1 e 185 n.3 c.p.p., è manifesta l'infondatezza giacché:

1) vicende successive alla pronuncia della sentenza quale quella, per cui il difensore eleva vibrata protesta, della perquisizione effettuata nel proprio studio professionale e nella propria abitazione l'11.11.1988 che, per il subbuglio determinato nella conservazione di carte e documenti relativi al compito difensivo, avrebbe reso difficoltoso tale compito, anche al fine della preparazione dei motivi di impugnazione, non presentano alcun nesso causale con l'andamento del processo e con la sentenza di esso conclusiva, né possono, data la loro posteriorità ed extraprocessualità, inficiare

l'uno e l'altra con una sorta di efficacia retroattiva.

2) l'opinione del difensore di essere stato nel corso del dibattimento soggetto ad illegali intercettazioni telefoniche è frutto di un mero sospetto e, quand'anche questo avesse un minimo fondamento, non si vede come il fatto lamentato (l'essere il presidente del collegio stato avvertito attraverso intercettazione telefonica del proposito del difensore di ricusarlo), possa aver menomato l'attività difensiva ed invalidato il corso del giudizio.

3) il principio secondo cui "lata sententia iudex esse desinit" (emessa la sentenza il giudice non è più tale), destituisce di ogni rilevanza nel processo il censurato apporto di alcuni giudici popolari, (anche se in ipotesi esso si sia verificato), all'opera di cancelleria relativa alla formazione di copie della sentenza;

4) comportamenti tenuti da componenti il collegio giudicante implicitamente rivelatori di

assenso prestato alle statuizioni adottate e dichiarazioni in ipotesi dai medesimi fatte ad organi di stampa circa lo svolgimento dei lavori

della camera di consiglio, anche se possano acquistare rilevanza penale ex art.326 c.p., costituiscono fatti extraprocessuali privi di efficacia invalidatrice della sentenza.

 

1. I difensori del TILGHER e del BALLAN hanno eccepito violazione dell'art.376 c.p.p. come causa di nullità dell'ordinanza di rinvio a giudizio e della sentenza, assumendo che i medesimi non erano stati interrogati in ordine al reato loro ascritto con l'ordinanza (costituzione di associazione sovversiva ex art.270 bis c.p. in concorso con il GELLI, il MUSUMECI, il BELMONTE, il PAZIENZA, il DE FELICE, il SIGNORELLI, il FACHINI e il DELLE CHIAIE) bensì in ordine ad un fatto, pur integrante il medesimo titolo di reato, ma di più limitato contenuto e di più ristretta portata (associazione sovversiva in concorso tra loro e con il GIORGI.

L'eccezione va disattesa giacché è pur vero che l'imputazione contenuta nell'ordinanza di

rinvio a giudizio rispetto a quella oggetto dei mandati emessi nel corso dell'istruttoria presenta più ampi elementi descrittivi del fatto

con essi attribuito agli imputati e la menzione di altri concorrenti nell'associazione eversiva, nei confronti dei quali si era proceduto separatamente (proc. n.12/86), ma risulta altresì che gli imputati furono interrogati (vol. int.B, 8 e 9) in ordine alle circostanze dalle quali secondo l'accusa era desumibile l'accordo associativo eversivo, particolarmente con riguardo ai rapporti intrattenuti dagli imputati tra loro e con il DELLE CHIAIE, il SIGNORELLI ed il FACHINI, che della più ampia associazione erano ritenuti esponenti nell'atto di rinvio a giudizio.

Né ha rilievo che essi non siano stati interrogati sui rapporti intrattenuti col GELLI, col PAZIENZA, col MUSUMECI e col BELMONTE, pure ritenuti esponenti della stessa associazione, posto che il rinvio a giudizio non era motivato da questi ultimi rapporti, ma dalla posizione di rilievo che il TILGHER, il BALLAN ed il GIORGI avevano assunto nell'area eversiva di destra dominata dalle figure del DELLE CHIAIE, del SIGNORELLI e del FACHINI, a loro volta ritenuti collegati con gli esponenti della P.2 e dei

servizi deviati.

 

m. Come si è indicato in narrativa, la Corte d'assise con la sentenza impugnata ha giudicato, per connessione di reati e riunione di procedimenti, anche del delitto di calunnia aggravato ascritto al GELLI, al PAZIENZA, al MUSUMECI e al BELMONTE.

Il difensore del MUSUMECI, con effetto ovviamente estensibile anche agli altri imputati, ha eccepito la nullità "in parte qua" della sentenza per vari profili, afferenti le vicende processuali che ne avevano determinato la pronunzia, vicende che possono sintetizzarsi come segue.

Per il reato di cui trattasi, a seguito di istruttoria sommaria, il Procuratore della Repubblica di Bologna richiedeva l'emissione di decreto di citazione a giudizio.

Il Tribunale, investito del giudizio, declinava la propria competenza per territorio e disponeva la trasmissione degli atti al competente Tribunale di Roma, che però sollevava vittoriosamente conflitto di competenza, con la

conseguenza che gli atti venivano nuovamente trasmessi dalla Corte di Cassazione al Tribunale di Bologna.

Mentre erano quivi giacenti per il nuovo giudizio, il Procuratore della Repubblica di Bologna ne chiedeva e otteneva la restituzione;

dopo di che faceva richiesta al Presidente della Corte d'assise, presso la quale pendeva il giudizio relativo ai connessi reati di strage e associazione sovversiva, di citazione a giudizio.

Questi aderiva alla richiesta dopo di che in sede predibattimentale veniva disposta la riunione dei procedimenti.

Tanto premesso, la invalidità del processo e della sentenza è stata dedotta.

a) per violazione dell'art.185 n.2 c.p.p., 74, I comma c.p.p. in relazione all'art.396 o.p.p. in quanto, contravvenendo al divieto di retrocessione del processo dal giudice alla fase istruttoria, il P.M. aveva violato le regole relative al promovimento e all'esercizio dell'azione penale, questa esercitando due volte, con la duplice richiesta di citazione a giudizio davanti al Tribunale e davanti alla Corte

d'assise, la seconda delle quali dovrebbe perciò considerarsi nulla o inesistente;

b) violazione degli artt.74, 396, 29, 30, 405 e 406 C.P.P./1930, essendo la seconda richiesta di citazione a giudizio stata effettuata a organo incompetente per materia;

c) violazione dell'art.185 n.1 c.p.p., stante la incompetenza funzionale del Presidente della Corte di assise ad emettere decreto di citazione a giudizio, questo competendo al Presidente del Tribunale cui la Corte di Cassazione aveva trasmesso gli atti: la violazione delle regole sulla competenza funzionale aveva determinato nella specie esercizio di giurisdizione da parte di "chi non aveva veste per attuarla";

d) violazione delle disposizioni regolatrici della competenza per materia, giacché non poteva il Presidente della Corte d'assise emettere decreto di citazione a giudizio esclusivamente per un reato di competenza del Tribunale, non essendo intervenuto previamente, nei tempi e

nelle fasi omogenee previste dalla legge, un provvedimento di riunione.

Per vero la Corte di assise si è già fatta

carico delle suddette eccezioni di nullità e le ha respinte sul riflesso che la richiesta al Presidente del Tribunale di emissione del decreto di citazione a giudizio è atto revocabile dal P.M. richiedente fino a che l'emissione non si sia verificata e che la successiva richiesta di emissione al Presidente della Corte d'assise dello stesso decreto determinava per quest'ultimo obbligo a provvedere.

Le proposte eccezioni di nullità vanno respinte.

Con la prima il deducente, rendendosi conto che l'art.396 c.p.p. nel dettare la disciplina della richiesta di citazione a giudizio, non fa divieto della revoca di essa, né commina nullità alcuna nel caso che il P.M. formuli nuova richiesta ad organo diverso dal precedente, addita la sanzione di nullità del processo nella previsione generale dell'art.185 n.2, configurando la duplice richiesta come violazione del potere di iniziativa spettante al P.M. nell'esercizio dell'azione penale.

Celesta configurazione rappresenta una palese forzatura del disposto della norma, che è

chiaramente inteso ad invalidare il processo non attivato dal P.M. (ne procedat iudex ex officio) a garanzia della potestà esclusiva ad esso riservata di dare inizio all'azione penale e di esercitarla nel processo.

Ciò è tanto vero se si considera che, a fronte della pluralità di esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto, l'ordinamento appresta rimedi specifici tipicizzati (improcedibilità dell'azione penale ex art.90 2° comma c.p.p./1930, annullamento ex art.579 c.p.p. da parte della Corte di Cassazione delle sentenze più gravose per il condannato), con ciò implicitamente escludendo il rimedio sanzionatorio generale di cui ali'art.185 n.2 c.p.p., ipotizzato dal deducente, ma anche privando di sostegno logico sistematico la tesi, pure adombrata dal medesimo, dell'inesistenza della sentenza emessa a seguito di viziato esercizio dell'azione penale davanti a giudice materialmente incompetente, che non può qualificarsi come fatto abnorme (cioè del tutto estraneo alle previsioni ordinamentali), volta che lo stesso ordinamento assume quel fatto come

produttivo di nullità a determinate condizioni, (art.34 c.p.p. secondo cui la nullità non ha luogo quando il giudice di competenza superiore ha giudicato di un reato attribuito ad un giudice di competenza inferiore senza che sia stata chiesta la dichiarazione di incompetenza).

Palesemente erroneo è poi l'assunto che l'emissione del decreto di citazione a giudizio da parte del Presidente della Corte di Assise per reato appartenente alla competenza del Tribunale costituisca violazione dell'art.185 n.1 c.p.p. in quanto atto di esercizio della giurisdizione ad opera di soggetto processuale privo della relativa legittimazione, essendo evidente che altro è il difetto di capacità generica del giudice ad operare come tale secondo le regole d'investitura stabilite dall'ordinamento giudiziario, altro è il difetto di competenza del giudice in ordine ad atti di esercizio della giurisdizione esulanti dalla sfera delle attribuzioni stabilite dall'ordinamento

processuale.

Mentre il difetto di capacità trova sanzione nella generale fattispecie invalidativa

dell'art.185 n.1 c.p.p., il difetto di competenza può attingerla colo da specifiche previsioni di nullità.

E' pertanto soltanto su quest'ultimo terreno che vanno correttamente analizzate le deduzioni dell'appellante.

Orbene, in primo luogo va notato che in tema di richiesta di citazione a giudizio (art.396 c.p.p.) l'unica nullità prevista attiene alla omissione del previo interrogatorio dell'imputato o all'emissione infruttuosa del provvedimento inteso all'esecuzione di detto incombente istruttorio.

Non è prevista la nullità ipotizzata dal deducente per essere stata la richiesta rivolta ad organo incompetente.

Al contrario, come si è già notato, è lo stesso ordinamento, con la previsione dell'art.34 cpv. c.p.p., ad ammettere la possibilità che, se non sia stata chiesta la dichiarazione d'incompetenza del giudice superiore adito dal

P.M. per reato di competenza del giudice inferiore, quello possa validamente giudicare di tale reato.

E che la Corte d'assise sia da considerarsi giudice superiore rispetto al Tribunale è testualmente disposto (art.38 L. 10/4/1951 N.287).

Peraltro, poiché nella specie nel giudizio di primo grado la richiesta di dichiarazione d'incompetenza della Corte d'assise fu avanzata, occorre stabilire se tale incompetenza realmente sussista.

Or non è dubbio che tra il reato di calunnia appartenente alla competenza del Tribunale e gli altri già sottoposti validamente al giudizio della Corte d'assise corra un evidente nesso di connessione soggettiva, oggettiva e probatoria, come si può desumere dal contenuto delle imputazioni concorrenti.

Altro elemento di rilievo è che il decreto di citazione a giudizio per il reato di calunnia fu dal Presidente della Corte d'assise emesso allorché il procedimento sopravvenuto era riunibile a quello già in corso davanti alla Corte d'assise, essendosi la sopravvenienza verificata durante i preliminari del giudizio relativo a quest'ultimo procedimento, e pertanto,

la riunione fu legittimamente effettuata, non ostandovi il diverso stato dei procedimenti connessi.

Ciò premesso, occorre considerare che l'art.46 primo comma c.p.p. 1930, nel disciplinare gli effetti della connessione sulla competenza per materia, attribuisce alla competenza della Corte d'assise anche i procedimenti connessi appartenenti alla competenza del Tribunale.

La portata della norma è quella di derogare al criterio in base al quale quest'ultima competenza è fissata, per i casi in cui non sussiste connessione, dall'art.30.

In altri termini, la connessione costituisce, già a livello normativo, titolo di attribuzione alla cognizione del giudice superiore del reato connesso, di competenza di quello inferiore, sì che il primo deve considerarsi giudice naturale di tale reato.

Ne consegue che, sia la richiesta del P.M. di

emissione del decreto di citazione a giudizio in ordine al reato connesso, al Presidente della Corte d'assise, sia il decreto da questi emesso,

sfuggono alla sanzione di nullità comminata dall'art.34 primo comma per il caso d'inosservanza delle norme sulla competenza per materia, dovendosi tale disposizione intendere alla luce di quella sopra menzionata dell'art.46 e cioè valevole per il caso in cui la competenza per materia non subisca variazioni per effetto della connessione.

Non sembra in proposito sostenibile la tesi che cotesta variazione spieghi la sua efficacia solo con riguardo ai procedimenti connessi che si trovino in fase istruttoria, prima di tutto perché tale limitazione è estranea al dettato normativo, in secondo luogo perché, quand'anche essa sia giustificata da ragioni sistematiche, non può giungere fino al punto di impedire che la competenza connessionale operi fino ad un momento processuale in cui i procedimenti separati in ordine ai reati connessi siano suscettibili di unificazione (condizione che, come si è già rilevato, nella specie sussisteva).

Nulla impedisce infatti che, sussistendo tale possibilità, 11 giudice competente per il reato connesso si spogli di tale competenza in

attuazione degli effetti della connessione stabiliti dall'art.46 e trasmetta gli atti al giudice che tale norma indica come competente, il quale non può declinarla se lo stato del procedimento davanti a lui pendente consenta la riunione.

 

n. Sono infine da respingere le eccezioni di nullità da alcuni difensori prospettate anche in corso di discussione per l'asserita indeterminatezza dell'accusa relativa al delitto di cui ali'art.270 bis.

Al riguardo è stato rilevato che il testo dell'imputazione è descrittivamente congegnato in modo elefantiaco scarsamente intellegibile, ma a prescindere dalla fondatezza sul piano formale del rilievo, non può affermarsi che il fatto incriminato sia contrassegnato da assoluta incertezza, produttiva della nullità specifica di cui all'art.412 c.p.p. e di quella generale di cui all'art.185 n.3 c.p.p.

Sono invero delineati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa dedotta in accusa, e cioè la condotta promozionale

costitutiva, organizzativa e direzionale dell'entità associativa che si assume venuta ad esistenza, il programma, concordato e stabilmente perseguito, del compimento di attività violenta, la finalizzazione di tale attività all'eversione dell'ordine democratico; di tal che ciascuno degli imputati è stato posto in grado di difendersi in ordine al fatto attribuitogli, anche se la formulazione dell'imputazione abbia risentito "sul piano descrittivo" dello sforzo degli inquirenti di far risultare i nessi strutturali e funzionali, interni ed esterni, tra i comportamenti degli associati (esponenti di poteri occulti, dei servizi segreti e di aree eversive) nell'ambito dell'unitaria realtà associati va.

 

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Capitolo Terzo

SULLA PROCEDIBILITÀ DELL'AZIONE PENALE NEI CONFRONTI DI LICIO GELLI

 

La improcedibilità dell'azione penale nei confronti del GELLI in virtù della regola di specialità dell'estradizione stabilita dall'art.14 della Convenzione europea di estradizione 13.12.1957 ratificata e resa esecutiva con legge 30/1/1963 n.300, già eccepita in primo grado e nuovamente dedotta con l'impugnazione della sentenza (p.1742 e segg.) relativa dell'eccezione, non sussiste.

Vero è che l'interpretazione riduttiva data dal primo giudice alla regola di specialità - nel senso che essa non consente l'esercizio della giurisdizione nei confronti di soggetto estradato per reato diverso da quello per il quale si proceda (com'è nel caso del GELLI, la cui estradizione riguarda un procedimento diverso pendente davanti ad altra autorità giudiziaria), soltanto se quell'esercizio avvenga attraverso atti comportanti la disponibilità fisica dell'imputato o restrittivi della sua libertà

personale - non o conforme all'interpretazione fornitane dalla Corte di cassazione con la sentenza 19/5/1984 (ric. P.M. e Carboni) pronunziata a sezioni unite (peraltro divergente dalla interpretazione prevalente nella giurisprudenza delle singole sezioni), nel senso che la regola di specialità costituisce causa di sospensione dell'esercizio della giurisdizione in tutte le fasi processuali (istruttoria, giudizio ed esecuzione), con l'eccezione dei soli casi stabiliti al numero due dell'art.14 della convenzione (pericolo di allontamento dell'estradato dal territorio o di prescrizione), ma la sentenza impugnata ha anche, in via assorbente, riferito la legittimità del procedere proprio al pericolo di prescrizione, con argomentazione che questa Corte condivide e che peraltro l'appellante non ha espressamente contestato e contrastato con diversa argomentazione.

Il pericolo di prescrizione va commisurato infatti non solo ai reati per cui si procede (e quindi ai termini prescrizionali per essi stabiliti), ma anche alla prevedibile durata del

procedimento diretto all'accertamento degli stessi, specie quando tale procedimento riguardi anche complesse regiudicande connesse ed anche il procedimento relativo ai reati per i quali sia stata concessa l'estradizione sia di prevedibile lunga durata.

E non è dubitabile che nella specie tali condizioni, come la sentenza impugnata ha ritenuto, ricorrano, data l'epoca remota dei reati attribuiti al GELLI, e la complessità degli accertamenti processuali, sia nel presente procedimento che in quello avente ad oggetto presso altra autorità giudiziaria i reati in ordine ai quali è stata concessa l'estradizione (attinenti le vicende del Banco Ambrosiano).

La sollevata questione d'improcedibilità dell'azione penale, fino alla conclusione del giudizio definitivo relativamente ai reati per i

quali è stata concessa estradizione, nella specie

deve, peraltro, considerarsi superata ed assorbita dalla conclusione assolutoria del presente giudizio di appello sotto il profilo che, come deciso dalla stessa Corte di cassazione a sezioni unite con sentenza del 28/2/1989

(ric.Nigro), la regola di specialità, siccome informata ad un principio di garanzia dell'imputato, non osta all'esercizio della giurisdizione, ma delimita il potere giurisdizionale, non impedendo al medesimo, tra l'altro, di prosciogliere l'inquisito nei casi di cui al comma primo dell'art.152 c.p.p./1930

 

Capitolo Quarto

CONSIDERAZIONI GENERALI

 

La sentenza impugnata ha provveduto ad una ampia risalente e minuziosa ricostruzione del quadro storico politico istituzionale in cui, a partire dalla metà defili anni sessanta, si dispiegò l'attività della cosiddetta destra extraparlamentare, dapprima in forme movimentista palesi (Ordine Nuovo, Avanguardia nazionale), poi in forme eversive latenti o coperte (comunità organiche di popolo, lotta di popolo, costruiamo l'azione, terza posizione) fiancheggiate e sviluppate da gruppi giovanili (movimento rivoluzionario popolare, NAR) in espressioni di lotta armata contro forze antagoniste di sinistra e contro le pubbliche istituzioni.

Detta ricostruzione si o avvalsa di risultanze documentali, di acquisizioni compiute da organi di polizia e di dichiarazioni rese nel presente ed in altri processi penali da persone che ebbero parte più o meno rilevante in attività eversive e che successivamente se ne sono dissociate.

La credibilità di tali persone in ordine alla sussistenza e consistenza del fenomeno eversivo di cui furono partecipi non può essere ragionevolmente disconosciuta e del resto nemmeno gli imputati appellanti al riguardo muovono contestazioni, le loro critiche essendo rivolte al credito dato in sentenza a fatti e circostanze da quelle persone asseverati e che la sentenza ha valorizzato al fini delle statuizioni di condanna o assolutorie con la formula del dubbio.

All'opposto le critiche dell'accusa pubblica e privata si appuntano sostanzialmente sul non avere la sentenza tratto le dovute conseguenze dal quadro ricostruttivo delle attività eversive anteriori e posteriori all'evento centrale stragistico, sia in ordine alla responsabilità per esso di alcuni imputati assolti (SIGNORELLI, RINANI ed altri), sia più in generale in ordine alla sussistenza di un rapporto associativo di base, ma anche di apice, tra coloro che in vario modo anche se per scopi diversi, sono accusati di aver tenuto le fila, né in forma immanente, di quella eversione.

Ciò stante, questa Corte può esimersi

dall'esporre le linee del quadro ricostruttivo del fenomeno eversivo sviluppatosi nel Paese nel periodo storico considerato, riportandosi in generale all'esposizione fattane esaurientemente nella sentenza impugnata, salvi i ritocchi imposti dalla valutazione di apposite censure;

mentre al di la di inutili ripetizioni e, conformemente alla natura critica del giudizio di appello, appare conveniente procedere singolarmente in ordine agli oggetti controversi, all'esame delle motivazioni fornite dal primo giudice e di quelle contrapposte degli appellanti, dando quindi motivata ragione della conferma ed eventualmente integrazione delle prime o dell'accoglimento delle seconde.

La disamina avverrà partitamente con riferimento ad ognuno dei reati che formano oggetto del giudizio e ad ognuno degli imputati, avendo riguardo alle questioni profilate sulla ravvisabilità dei primi e sulla responsabilità dei secondi nonché sul trattamento punitivo.

Va anche sottolineato che il giudizio di questa Corte dovrà attenersi alle regole fissate dall'art.192 del nuovo codice di procedura

penale, entrato in vigore prima della celebrazione del processo di appello, e ciò in virtù della norma transitoria di cui all'art.245 n.2 lett.B del D.Leg. 28 luglio 1989 n.271.

Le nuove regole di giudizio da osservare acquistano nella specie particolare rilievo giacché la sentenza impugnata per le sue determinazioni si è avvalsa ampiamente di elementi indiziari e di dichiarazioni rese da imputati di reati connessi e collegati, di tal che, nella valutazione delle risultanze processuali, la Corte è tenuta ad esercitare un vigile controllo sulla gravità, precisione e concordanza degli indizi valorizzati o da valorizzare per affermare la sussistenza di un fatto, e sulla presenza di elementi probatori di riscontro confermativi dell'attendibilità di quelle dichiarazioni.

E' infine, appena il caso di ricordare che non è compito di questa Corte procedere al vaglio di consistenza di ipotesi alternative a quella dedotta in accusa circa l'origine e la paternità dell'accadimento stragistico di cui è processo, ipotesi pure prospettate nel corso della

discussione (strage di stato o di criminalità organizzata comune o di terrorismo estero e di servizi segreti stranieri), ma come astratte eventualità, prive di ogni supporto di risultanze processuali e costituenti oggetto di meri opinamenti derivati, essenzialmente, da analisi politiche o da personali convincimenti.

Conformemente al compito istituzionale e ai limiti devolutivi del giudizio di appello, questa Corte dovrà soltanto valutare e decidere se le statuizioni in fatto e diritto della sentenza impugnata resistano alle censure provenienti dagli appellanti o debbano essere riformate.

La prospettazione delle ipotesi sopra cennate potrà valere soltanto come stimolo ad un giudizio particolarmente avveduto e circospetto, nell'ambito predetto.

 

Capitolo Quinto

LE LINEE DEL QUADRO PROBATORIO PER IL DELITTO

DI STRAGE

a. premessa

II metodo di trattazione della complessa materia sottoposta all'esame della Corte può utilmente seguire le linee del quadro probatorio tracciato dalla sentenza impugnata e svolgere le argomentazioni utilizzate nei successivi passaggi della motivazione, tenendo conto delle osservazioni critiche alla stessa mosse.

Di conseguenza, come già è stato detto, non sarà necessario riesaminare partitamente l'analisi che del vasto materiale probatorio i primi giudici hanno compiuto, ma soltanto soffermarsi sui passaggi che, secondo il giudizio

di questa Corte di appello, non resistano al

vaglio critico, tenendo fermi, con implicito

richiamo alla prima decisione, tutti gli altri dati, che possono considerarsi acquisiti.

 

II riconoscimento e l'affermazione della penale responsabilità di alcuni degli imputati in ordine al delitto di strage, sono preceduti, e

preparati, nella sentenza impugnata, da valutazioni ed analisi che hanno avuto ad oggetto una complessa e variegata serie di dati ed informazioni provenienti da fonti disparate, riferite ad un arco temporale esteso, che la sentenza stessa si è sforzata di ridurre ad unità, ricorrendo ad una lettura che, secondo questo giudice, risulta, in molte parti, influenzata dallo stesso assunto da dimostrare.

Non deve dimenticarsi che fatti, avvenimenti e personaggi, cuciti in unico tessuto accusatorio, possono delineare plausibili o, forse, soltanto suggestivi, percorsi probatori, ma la incertezza circa la legittima reciproca ricollegabilità e connessione tra eventi diversi resta spesso insuperabile e rende ancora più fragile ed insicuro un tale metodo di ricostruzione dei fatti.

In quegli anni, inoltre, tanto grande è stato il numero degli eventi criminosi, sovente consumati nella sfera di velleitarie strategie

eversive o rivoluzionarie, e l'intreccio di opinioni, considerazioni e supposizioni personali, spesso, ed incautamente, utilizzate

come notizie certa, che l'opera di discernimento e di analisi, tra la molteplicità degli eventi, alla ricerca di una linea di connessione tra fatti diversi, rischia, ad ogni passo, di essere arbitraria e, comunque, non è controllabile e verificabile con il normale mezzo processuale che, pure, è l'unico che deve essere utilizzato per giungere alla individuazione delle precise è personali responsabilità di carattere penale.

Osserva ancora questa Corte che quegli stessi fatti sottoposti all'analisi del giudice potrebbero non esaurire il quadro delle vicende significative, in un determinato arco di tempo, e sottrarre, in tal modo, alla considerazione conclusiva, momenti determinanti, in senso positivo o negativo, per la ipotesi di accusa.

Ed invero, l'incombente pericolo in un simile metodo di ricerca della verità, nell'ambito del processo penale, sta proprio nel fatto di voler sottoporre ad analisi non singoli, circoscritti episodi o comportamenti, ma più ampi, ed indistinti, movimenti e sommovimenti, sociali o politici, più spesso effetto di libere interpretazioni piuttosto che di precisi

accertamenti, e di utilizzare poi quei pretesi dati, del tutto insicuri, ed incompleti, per successivi passaci nell'iter probatorio.

E', come si vede, un sistema che non può dare affidamento e tranquillità nel risultato.

 

b. Gli argomenti della motivazione

Si è detto, nella esposizione dei fatti e delle vicende processuali, che la decisione della sentenza di primo grado si snoda attraverso i seguenti passaggi:

a) la sicura natura dolosa della esplosione del 2 agosto alla stazione di Bologna;

b) la riconducibilità della strage ad ambienti della destra eversiva;

c) la più diretta paternità della strage da ascrivere ad una "organizzazione con comunione di mezzi e di obiettivi, i poli romano e veneto dell'eversione neofascista".

La soluzione critica dei predetti punti di analisi, ha avvicinato, poi, i primi giudici alla individuazione delle responsabilità personali di soggetti che in quel mondo, cosi come ricostruito e delineato, si muovevano con ruoli diversi.

Questa Corte seguirà il medesimo percorso della motivazione data dai primi giudici alla loro decisione per la analisi critica alla quale è chiamata.

 

1. Esplosione dolosa - le perizie

Oggetto di accertamento consolidato deve ritenersi quello relativo alla dolosità della esplosione, volontariamente provocata con un sistema di azionamento della miscela che, peraltro, è rimasto nell'ambito di più ipotesi tecnicamente possibili.

Lo scoppio accidentale di un micidiale bagaglio in transito per la stazione di Bologna, e con diversa destinazione, avrebbe sicuramente coinvolto l'incauto trasportatore che, per uscire indenne dall'immane rovina avrebbe dovuto, inspiegabilmente, abbandonare la valigia che, invece, proprio seguendo una simile ipotesi, egli non avrebbe mancato di custodire attentamente per

tutto il tempo del suo trasferimento.

L'esito della perizia disposta nel presente grado di giudizio è in gran parte sovrapponibile

 

a quello degli accertamenti tecnici compiuti nelle precedenti fasi, di istruttoria e di primo grado.

 

 

2. La strage proviene dagli ambienti della

destra

La sentenza ha analizzato documenti e testimonianze provenienti dal mondo della destra extraparlamentare ed eversiva.

Quanto ai primi, il manoscritto "da TUTI a Mario Guido NALDI", ritrovato in una cabina telefonica di via Irnerio, a Bologna, il manoscritto sequestrato a Carlo BATTAGLIA, la lettera di Carluccio FERRARESI inviata il 28 febbraio 1980 a Roberto FRIGATO, il documento "un'analisi tattica", autore Angelo IZZO, sequestrato ad Edgardo BONAZZI, i "fogli d'ordini" di Ordine Nuovo, sono tutti documenti che la sentenza impugnata ha attentamente

esaminati ed alla stessa occorre fare rinvio quanto al loro contenuto.

La considerazione conclusiva è senz'altro

 

accettabile: alcuni militanti di destra, in quegli anni oscuri, farneticavano di sanguinosi attentati terroristici come strumento di rinnovati, quanto imprecisati, assetti politici e sociali.

Non è dato, però, attribuire la paternità di quelle farneticazioni ad un gruppo, o ad organismi, ben individuati e strutturati, ma piuttosto, alle considerazioni ed elaborazioni di singoli, senza che sia stato possibile, sul piano probatorio, riconoscere concrete e specifiche programmazioni e piani di azione.

Del pari, non può ricavarsi altro dato significativo dalla fredda, ma spaventosa, elencazione di fatti stragistici (vedi pagine della sentenza impugnata), consumati negli anni precedenti, che non sia quello utilizzabile per la ricostruzione di un periodo oscuro della storia del nostro Paese; periodo che, peraltro, non ha avuto ancora completa e soddisfacente chiarificazione, e non soltanto sul piano delle responsabilità individuali.

In particolare, questa Corte deve sottolineare il fatto che, la riferibilità di

stragi ed attentati ad un'unica ed esclusiva matrice di destra non può avere i caratteri della certezza in quanto anche nei procedimenti penali relativi ad altri avvenimenti stragistici, tale certezza non si è, allo stato, raggiunta.

Di conseguenza, anche all'unica conclusione possibile che, dalla sommaria rassegna degli avvenimenti che hanno preceduto la strage del 2 agosto, la sentenza ha voluto trarre, e cioè, che "l'attentato di carattere indiscriminato era stato utilizzato dalla destra eversiva quale strumento privilegiato di lotta armata", può riconoscersi soltanto la consistenza di ipotesi verosimile.

Con successivo passaggio, logico e temporale, dopo l'ampia considerazione del quadro di insieme, la sentenza impugnata si sofferma su acquisizioni testimoniali raccolte nei giorni immediatamente successivi alla strage, soprattutto all'interno di istituti carcerari, da parte di soggetti in qualche modo coinvolti

nell'ambiente della eversione di destra.

Anche per questo tema di indagine, possono condividersi le osservazioni critiche conclusive

della prima sentenza.

Tuttavia, la utilizzabilità di quei dati come fondamento, sia pure generico e indiretto, dell'accusa non sembra possa essere del tutto tranquillizzante.

I commenti, le reazioni, le opinioni raccolte e trapelate dall'ambiente carcerario, riferivano la sanguinaria operazione all'ambiente della destra terroristica e, per taluni, alla sconsiderata azione di "ragazzini" i quali, proprio in quanto tali, dovevano avere più consapevoli ispiratori e mandanti.

Da sottolineare, comunque, che dalle medesime fonti informative, si avanzava pure l'ipotesi, certamente inquietante, di fatti di provocazione che obiettivamente avevano avuto l'effetto di scatenare repressione e di falcidiare i camerati (vedi, ad esempio, il Naldi nell'articolo "parole chiare" apparso sul Quex del marzo 1981: la repressione che ha falcidiato i camerati non sarebbe mai potuta avvenire senza il supporto emozionale delle stragi".

Ritorna, dunque, la necessità di leggere anche questo passaggio dell'iter motivazionale

con criteri di più ampia apertura ad ipotesi diverse.

 

3. La strage proviene dalla banda armata romano- veneta

Procedendo idealmente verso l'alto, la piramide accusatoria trova, quindi, una più ristretta fascia probatoria nelle dichiarazioni del teste VETTORE Presilio, dalle quali la Corte di primo grado ha preso le mosse per fermare la sua attenzione sull'ambiente del neofascismo veneto di quegli anni.

Si è già detto che, per ricondurre il gravissimo attentato di Bologna nell'ambito di una più' vasta progettualità' di violenza neofascista, che avrebbe trovato i suoi poli territoriali a Roma e nel Veneto, sono stati presi in esame elementi diversi, utilizzando apporti testimoniali e risultanze probatorie di vario genere e collegando i dati con logica interpretativa.

Circa questo tema particolare, la Corte non ritiene di poter pervenire a quelle medesime conclusioni di certezza espresse dal primo

giudice, in ordine ai contenuti ed ai significati da attribuire alla testimonianza del VETTORE.

Le "certezze" della sentenza impugnata sono state due:

a) che il VETTORE era a conoscenza in anticipo dell'attentato e

b) che quelle informazioni gli provenivano da Roberto RINANI.

Ma l'attenta rilettura, ed il riascolto, del brano di conversazione registrato (VETTORE interrogato e sollecitato dal P.M.) non sembra possano attribuire alle parole del teste il significato certo individuato dalla sentenza di primo grado.

Ed invero, le parole utilizzate in quella circostanza richiamano, nel loro significato ultimo, ad un fatto di terrorismo diretto pur sempre contro un soggetto o un bersaglio determinato, sia pure di rilievo tale da suscitare enorme clamore.

Il RINANI avrebbe parlato di attentati,

sempre riferibili a personaggi, e non di progetti stragisti e, nonostante la trasparente supposizione dell'inquirente circa la

riferibilità alla strage delle risposte date dal VETTORE, non possono legittimamente ricavarsi interpretazioni in tal senso, ma al contrario, appare evidente il riferimento ad episodio completamente diverso, come un attentato ad una persona. (cfr. VETTORE RINANI vol.X/A cart.30).

Dunque, la testimonianza del VETTORE non può' essere utilizzata per attirare FACHINI nell'orbita di un'area che pensava ad attentati indiscriminati, come quella romana.

Per il veneto, le notizie provenienti dal VETTORE si riferiscono a tutt'altro, e cioè', ad attentati a magistrati, forse sull'onda di eccitazione emotiva del delitto AMATO e, comunque, non ad azioni con obiettivi indiscriminati.

Cade, in tal modo, quanto alla sua certezza, un elemento essenziale, e di grande suggestione, specialmente per la sua collocazione temporale, pietra angolare della ipotesi accusatoria, sulla

quale ha trovato logico sostegno la ricostruzione di singole responsabilità.

E si attenua pure il rilievo da riconoscere

al secondo elemento, (la provenienza delle informazioni del VETTORE dal RINANI), connotato, anch'esso, dai primi giudici dei caratteri della certezza.

E', infatti, evidente che, anche a voler tenere per sicure le conclusioni e gli accertamenti del primo giudice in ordine a tale elemento, non si produrrebbero modificazioni al contenuto ed al significato da riconoscere alle frasi del VETTORE.

E neppure, secondo il parere di questa Corte, dagli episodi dell'accoltellamento in carcere del VETTORE e della aggressione alla moglie del RINANI, è dato ricavare significati rafforzativi della interpretazione che alle parole del teste hanno dato i primi giudici: quelle azioni di rappresaglia trovano, infatti, ed ovviamente, plausibile motivazione anche nella ipotesi, ritenuta da questa Corte, che le parole del VETTORE si riferissero ad un grave attentato di carattere personale, e non preannunciassero una azione violenta delle proporzioni della strage del 2 agosto alla stazione di Bologna.

Del pari, non e' più possibile attribuire,

ai fini della presente indagine, particolare significato, sia pure di natura rafforzativa e di contorno, ad altri elementi, ritenuti motivatamente certi dalla Corte di Assise di Bologna e che pure questa Corte ritiene di dover confermare.

Così, la appartenenza del VETTORE ad un ambito locale ben individuato e strutturato; la spiegazione, conseguente, delle confidenze ricevute da un RINANI "scoppiato", il quale si era aperto ad un sodale e non ad un qualsiasi compagno di detenzione.

Ed ancora, la stessa partecipazione del RINANI a quella cellula della eversione neofascista padovana, anch'essa da ritenere sufficientemente provata dalle considerazioni e dagli elementi tutti utilizzati dalla Corte di Assise di Bologna.

Conclusivamente, deve riconoscersi, per l'esame che si è compiuto, che tutto il peso probatorio attribuito alla deposizione VETTORE va perduto nel momento in cui l'oggetto delle previsioni e delle anticipazioni del teste si individui in un attentato, sia pure di

eccezionale gravità, avente come bersaglio un determinato soggetto, personaggio di grande rilievo e non già nella strage del 2 agosto.

E' evidente che "l'episodio VETTORE" non può costituire una base di partenza per avvicinare l'ambiente neofascista veneto alla programmazione della strage della stazione; anche se le dichiarazioni del teste fanno comunque intravedere la pericolosità di un ambiente all'interno del quale circolavano idee e progetti di violenza eversiva.

4. La intervista rilasciata da Amos SPIAZZI Deve tenersi per certo che l'esito del

viaggio "informativo" compiuto dallo SPIAZZI a Roma fu riportato in una nota che precede di qualche giorno (28.7.1980) il tremendo scoppio alla stazione di Bologna, ed inoltre, che il nucleo centrale delle voci raccolte nella capitale, e riportate nel documento, era costituito dalla notizia circa un certo fermento in atto nell'ambiente eversivo di destra, ove

alcuni personaggi perseguivano il fine di riunificare gruppi e nuclei disparati, all'epoca attivi e genericamente definiti N.A.R.

Circa la identificazione delle persone più attive ed interessate al progetto, la istruttoria, anche dibattimentale, ha fornito elementi convincenti che possono far ritenere il MANGIAMELI uno dei più coinvolti nell'opera di riunificazione.

Nessun'altra notizia, peraltro, è pervenuta che serva a delineare un più preciso e definito progetto operativo, oltre che politico.

E* vero che le fonti, rimaste ignote, e quindi incontrollate, dello SPIAZZI dicevano che tra i compiti del CICCIO (MANGIAMELI) vi era quello di reperire esplosivo, mentre si agitava nell'ambiente l'idea criminale di un attentato ad un magistrato, ma è pur vero che tutto questo non può costituire seria indicazione probatoria in ordine alla individuazione degli autori della strage del 2 agosto.

Arduo è, in ogni caso, risalire dalla indeterminata notizia circa una progettualità riaggregante di alcuni personaggi della destra al riconoscimento di una strategia che prevedesse e preparasse operazioni stragiste.

Ad una simile ipotesi non vi è sostegno di

prova (se non le supposizioni ed interpretazioni postume - a strage avvenuta - dello stesso SPIAZZI), mentre altre considerazioni sembrano contrastare, sul piano logico, l'idea di una qualche possibile connessione tra i confusi fermenti romani e la strage di Bologna.

Commenti ed informazioni, in seguito raccolte, (vedi, ad esempio, quelle del VOLO Alberto), forniscono piuttosto segnali di segno contrario, facendo intravedere progettualità bruscamente interrotte da quelle operazioni terroristiche efferate, quali appunto l'omicidio del giudice AMATO e la strage alla stazione di Bologna.

Secondo la interpretazione accusatoria, inoltre, il MANGIAMELI sarebbe stato uomo del DELLE CHIAIE, ma nessun collegamento è stato, neppure ipotizzato, tra la banda del FIORAVANTI e del FACHINI, che si sarebbe resa responsabile della strage e l'esule nero.

In realtà, e sul punto si dovrà ritornare in seguito, gli avvenimenti che seguirono alla strage di Bologna, con l'immediato scompaginamento delle formazioni di destra, in

particolare di quelle romane, non depone certamente per un ambiente preparato a raccogliere i frutti di una operazione di tale gravità che, se in qualche modo prevista e progettata, avrebbe dovuto trovare un ambiente pronto, quanto meno, alla prevedibile reazione poliziesca.

 

5. NALDI, ROBBIO, GIOVAGNINI

Qualche interessante significato, in senso accusatorio, (ma per quanto si dirà a proposito della banda armata costituita dal FIORAVANTI), è possibile ricavare dalle dichiarazioni di Leonardo GIOVAGNINI, arruolato nella formazione "Terza posizione" nel 1979 dal FIORE e dall'ADINOLFI.

Il GIOVAGNINI, a Roma nel luglio del 1980, apprendeva dal FIORE che "il movimento a Roma era diventato molto forte e che in sostanza perseguiva finalità eversive nel senso che, attraverso azioni militari destabilizzanti, si riprometteva di creare i presupposti per una rivoluzione di popolo. Mi disse anche che il movimento era armato ed aveva mezzi sufficienti

per riuscire nell'intento..."

Notizia, peraltro, non facilmente sovrapponibile alle altre, provenienti dallo SPIAZZI che, come si è detto, avrebbero dovuto far intravedere una sorta di concitato dibattito politico tendente a riaggregazioni all'interno di un ricorrente, e spesso sterile, gioco strategico, (con i ripetuti progetti di attentati, più spesso rimasti allo stadio della ideazione), piuttosto che risoluzioni di passare all'azione e di rompere con gli usati schemi del passato.

 

6. FACHINI e SIGNORELLI procacciatori di esplosivo

Ed è questo il momento per introdurre il tema di maggior peso nel percorso motivazionale della sentenza, che precede immediatamente la trattazione in ordine alle specifiche ed individuali responsabilità per la strage della stazione.

Tema che coincide con altro capo di imputazione del presente procedimento: quello relativo al delitto di banda armata.

Se l'humus sul quale l'eccidio di Bologna si era alimentato doveva individuarsi, secondo la sentenza dei primi giudici, nel vasto ambiente della destra eversiva e, in particolare, in quei settori la cui anima stragista aveva già dato tristi manifestazioni, la più diretta paternità della strage doveva essere attribuita ad una micidiale struttura operativa che vedeva uniti in unico patto d'azione tutti i massimi esponenti della estrema destra, dai vecchi "tramoni", come il FACHINI ed il SIGNORELLI, ai giovani, sedicenti "spontaneisti", come il FIORAVANTI, la MAMBRO e il CAVALLINI.

E* necessario, quindi, trattare a questo punto delle questioni attinenti la imputazione di banda armata, incidenti, nell'iter motivazionale, sulle affermazioni di singole responsabilità in relazione al delitto di strage.

 

Capitolo Sesto

IL DELITTO DI BANDA ARMATA

 

1.Premessa _

La tesi di accusa, condivisa dalla sentenza di primo grado, ha proposto la ipotesi della formazione, ai primi del 1980, di una superbanda che vedeva stretti in unico patto, di azione ed ideologico, esponenti del terrorismo di destra facenti capo a FACHINI, e collocati operativamente nel Veneto, e personaggi della destra romana, guidati dal SIGNORELLI ed espressi al massimo livello operativo dal FIORAVANTI e dal suo gruppo.

Sono certamente da condividere le puntualizzazioni della sentenza a proposito degli elementi costitutivi indefettibili del delitto di banda armata che può costituirsi anche per impulsi spontanei ed autonomi di più soggetti mossi da comuni finalità.

Una pluralità di persone, una struttura organizzativa permanente, una adeguata dotazione di armi, lo scopo di commettere uno o più reati contro la personalità interna o internazionale

dello Stato, sono tutti elementi che segnalano la presenza di una organizzazione che trova la sua disciplina sanzionatrice nell'art. 306 del codice penale.

Deve, tuttavia, riconoscersi che il fenomeno della banda non può essere riguardato e riconosciuto unicamente per una sua valenza oggettiva, ed esteriore, ma deve, necessariamente, trovare fondamento anche sul piano soggettivo, nella piena consapevolezza dei partecipi di contribuire alla attività dell'organismo da costituire, sia pure limitatamente ai ruoli a ciascuno assegnati.

La presenza di un certo numero di persone armate, infatti, ancorché mosse da una identità di scopi, non servirebbe ancora a rivelare vincoli associativi sottostanti, a fondamento di un'organizzazione e di un patto d'azione.

E', inoltre, evidente che, per riconoscere il profilo di una banda armata, non è sufficiente soffermarsi alla considerazione di illecite manifestazioni esteriori, che ben potrebbero ricondursi ad iniziative personali, o a condotte

concorsuali, di soggetti non necessariamente

vincolati, reciprocamente e coscientemente, ma occorre, piuttosto, che sia identificabile un organismo autonomo che tragga origine da un deliberato pactum sceleris.

E se, ovviamente, non è possibile, o non è agevole, cogliere i momenti decisionali costitutivi di un patto di associazione banditesco, pure il momento genetico deve potersi ricavare da altri segni esterni, quali, ad esempio, lo stretto collegamento interpersonale tra soggetti in determinate circostanze di tempo e di luogo, l'apporto specifico (di armi, di danaro), alla struttura operativa della banda, la stessa attribuibilità di singoli episodi illeciti ai soggetti che dovrebbero comporre l'organismo da provare.

In presenza di simili elementi, e di altri che l'esperienza concreta può, di volta in volta, indicare, è possibile delineare quell'originario, e indefettibile, patto genetico di una banda destinata ad una molteplicità di attività criminose.

Soltanto dopo avere individuato una struttura associativa ed i rapporti interpersonali

(promotori, capi e semplici partecipi), che la realizzano, deve poi verificarsi, sul piano probatorio, se singole attività illecite siano manifestazione operativa di quella struttura, o non, piuttosto, espressioni di criminalità di singoli soggetti.

Risalire, al contrario, dai fatti e dalle attività individuali alla struttura può risolversi in una petizione di principio che lascia indimostrato l'assunto iniziale.

Più precisamente, per riconoscere una banda strutturatasi con componenti umane e territoriali ben differenziate ed individuate (nella specie, FACHINI per il Veneto e FIORAVANTI per Roma), deve necessariamente ritrovarsi, oltre al rapporto interpersonale tra quei soggetti e la sintonia ideologica, anche il patto di azione raggiunto.

La sentenza impugnata si è soffermata su tutti gli elementi essenziali per la configurabilità della ipotesi delittuosa in esame

ma non abbastanza su quello genetico, dell'accordo che, solo, vivifica una entità che, in mancanza di una prova circa l'incontro di

volontà di più persone dirette a realizzare un reciproco sostegno e rafforzamento di proprie singole finalità attraverso la messa in comune di mezzi ed il conferimento di apporti personali, non sarebbe tale.

Il metodo scelto è stato quello induttivo, per risalire dalla considerazione di dati obiettivi, ma ancora privi del connotato soggettivo della volontarietà, alla sussistenza dell'organismo ipotizzato.

La decisione dei primi giudici, pertanto, non appare soddisfacente proprio nell'esame del requisito indicato (l'accordo tra più soggetti per legarsi in unico vincolo d'azione); ed anche quanto all'altro elemento costitutivo di una banda armata, quello della stabilità del vincolo associativo, la sentenza, dopo averlo enunciato, non si sofferma a verificarne, nel concreto, la riconoscibilità.

 

E' muovendo da questa premessa di metodo, che la Corte è chiamata ad esaminare gli elementi proposti dall'accusa, e fatti propri dalla sentenza di primo grado a fondamento del giudizio

di responsabilità degli imputati del delitto di banda armata, così come ricostruito nel capo di imputazione.

 

2. Gli antefatti

La sentenza impugnata ha ritenuto di poter dimostrare che tra i soggetti imputati del delitto di banda armata di cui al capo c) della rubrica fosse intercorso un vincolo di azione, oltre che ideologico, che li aveva avvinti in un'unica struttura, quella appunto ipotizzata dall'accusa.

A tal fine, si è partiti dall'esame di vicende, a volte anche di difficile, e quindi, incerta, ricostruzione, delle quali, tuttavia, si sono avute ripetute notizie nel corso di numerosi accertamenti giudiziari in sedi diverse.

Al quadro che se ne ricava può riconoscersi più il pregio di una rivisitazione storica, o forse meglio, cronachistica, di disparati avvenimenti che non i caratteri di certezza circa contributi personali ben determinati e responsabilità individuali derivanti da rigorosi

accertamenti giudiziari.

In proposito, questa Corte, (condividendo sul punto l'opinione dello stesso primo giudice, ma traendone più rigorose conseguenze), ritiene che l'ambientazione ideologica ed operativa, che dovrebbe formare l'humus della banda armata ipotizzata, mentre da un lato può essere accettata e riconosciuta nelle linee tracciate dalla sentenza impugnata, d'altra parte non apporta contributo direttamente utilizzabile al tema della decisione.

Fatti che precedono i cruenti avvenimenti del 1980 sono certamente la fallita riunificazione fra Ordine Nuovo ed Avanguardia Nazionale, risalente agli anni 1975-76, il sorgere di alcune esperienze organizzative di carattere nuovo, quali il gruppo coagulatosi intorno a Costruiamo l'Azione, ed il movimento Terza Posizione, nonché di spontanee aggregazioni eversive come i Nuclei Armati Rivoluzionari o N.A.R.: sigla, quest'ultima, designante un'area al centro della quale si venne a trovare -in un certo periodo- il gruppo eversivo-terroristico del Fronte Universitario di Azione Nazionale

(F.U.A.N.) di Roma.

Il tentativo di riunificare in unico organismo operativo adepti di organizzazioni separate, come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, attraverso la progettazione, sia pure generica, di un'azione comune, la prescrizione di regole rigide di comportamento, la ripartizione di competenze decisionali, non doveva dare frutti consistenti sul piano delle realizzazioni comuni e della stessa incidenza "politica" della struttura disegnata.

La progettata unificazione "ben presto naufragava lasciando un pesante strascico di risentimenti".

E* pienamente da condividere l'analisi della sentenza impugnata circa la crisi delle tematiche ideali e politiche di quel movimento, determinata dalla insufficiente risposta data ad istanze provenienti dal mondo giovanile, animato, proprio in quanto tale, da ribellismo diffuso e caratterizzato da una accentuata e progressiva divaricazione dalle concezioni gerarchizzate e tradizionaliste della destra storica, interpretate da O.N. e A.N.

"Prende il via quella nuova fase storica della destra eversiva, costituita dal sorgere, sulle ceneri delle disciolte tradizionali organizzazioni, delle nuove formazioni che si agiteranno, nel panorama del neofascismo, soprattutto della Capitale, negli ultimi anni '70 e nei primissimi anni '80."

Si apre, cosi, nel 1978 un periodo di attentati, deliberatamente non rivendicati, con lo scopo di saggiare reazioni e consensi alle tesi politiche di "Costruiamo l'azione"; movimento questo nato da un foglio al quale collaboravano tra gli altri il SIGNORELLI e l'ALEANDRI.

La partecipazione all'organizzazione di Massimiliano FACHINI, leader del gruppo Nord, e del CAVALLINI, del SIGNORELLI e dell'ALEANDRI, del DE FELICE e del CALORE, è senza dubbio il dato significativo, utilizzato nella costruzione accusatoria, confermata poi dal primo giudice, che perverrà al riconoscimento di un patto d'azione unitario e, quindi, di una sola banda armata romano-veneta.

Ma occorre, a questo punto, rilevare che le

linee di azione di tali strutture ed organismi sono tracciate dalla sentenza impugnata sulla base probatoria costituita da deposizioni testimoniali e documenti, senza, peraltro, possibilità di identificazione, quanto agli imputati del presente procedimento, di precise, personali, differenziate responsabilità nella esecuzione di fatti delittuosi.

Si afferma, ad esempio, nella sentenza impugnata, che "non v'è dubbio che dietro gli attentati, dietro l'attività terroristica del gruppo, vi fossero le menti del FACHINI, del SIGNORELLI, del DE FELICE."

Ed ancora: "I 'politici', quali CALORE, SIGNORELLI, Fabio DE FELICE ed altri, pur non partecipando in modo esplicito alla organizzazione ed esecuzione degli attentati e delle ulteriori attività illegali, certo non disapprovavano l'attività eversiva svolta dagli 'operativi' del gruppo: che appunto, come si è detto, ispiravano e 'gestivano politicamente'".

Si tratta, com'è evidente, di osservazioni e considerazioni, certamente non lontane dalla verità degli accadimenti, e tuttavia, generiche e

non riferibili a ben individuati comportamenti, ("...certo non disapprovavano"), esattamente collocabili nel tempo ed in rapporto di causalità diretta con eventi illeciti.

 

Seguendo il filo cronologico di avvenimenti che segnano tappe successive del più vasto fenomeno sovversivo della destra in Italia, la sentenza si avvicina al tema centrale del suo esame, alla formazione della cosiddetta superbanda.

E subito si afferma un elemento di partenza dell'iter probatorio, quello dei rapporti personali preesistenti tra soggetti che l'imputazione vuole accomunati nella realizzazione del delitto di banda armata.

"E'...sufficientemente chiaro" si dice, riprendendo le parole della ordinanza di rinvio a giudizio, "che, a causa di una serie di rapporti personali preesistenti, e...di progetti comuni già preparati anche da tempo, dall'autunno del 1979 viene a formarsi un gruppo profondamente determinato a condurre la lotta politica con scelte strategiche essenzialmente rivolte alla

strutturazione di un organismo associativo armato in 'guerra' perenne con lo Stato..."

Questo, com'è evidente, altro non è che il tema da analizzare e l'ipotesi da dimostrare;

ipotesi che richiede, pur muovendo dalla considerazione di rapporti e contatti più o meno diffusi, l'ulteriore prova diretta in ordine ad un rinnovato accordo d'azione con obiettivi specifici.

E più avanti, il primo giudice risolve la percezione e constatazione di una differenziazione di intenti e di filosofia operativa tra gruppi generazionali della destra in un attributo caratterizzante lo stesso organismo ipotizzato e da provare, che sarebbe stato "pronto a compiere scelte tattiche differenziate, ma comunque funzionalmente rivolte ad una strategia comune ... rilevata limpidamente se si vanno ad esaminare con attenzione alcune tappe fondamentali di questa strategia di 'aggregazione' e di riunificazione in chiave 'rivoluzionaria' della vecchia destra e dei nuovi fermenti giovanili."

Dunque, la sostanziale contraddizione fra

le idee e le proposizioni esternate pubblicamente dagli aderenti a "Costruiamo l'Azione" e quelle dei soggetti inseriti nella galassia dello "spontaneismo armato", viene interpretata come aspetto significativo di una strategia unitaria.

La realtà dei fatti è quella di un'azione politica e militare che, di segno affatto diverso dalle teorizzazioni di "Costruiamo l'azione", si muove sulle concrete linee del terrore indiscriminato e della provocazione politica in funzione di pesante condizionamento degli equilibri politici del Paese.

Siffatte contraddizioni e differenziazioni, che dovrebbero suggerire analisi più approfondite del fenomeno dello "spontaneismo", diventano, al contrario, nella sentenza impugnata, attributo caratterizzante un unico organismo operativo, in tal modo, volgendo in argomentazioni positive per l'accusa anche dati che appaiono indicatori di realtà diverse.

 

 

3. La attività della superbanda

Dato certo, nascente da ripetute indagini e da pronunce ormai definitive, la criminale attività dell'organismo armato in esame, espressosi, dalla fine del 1979 alla strage del 2 agosto, soprattutto a Roma attraverso fatti cruenti ed efferati che hanno visto protagonista indiscusso il gruppo di fuoco di Valerio FIORAVANTI.

La sentenza impugnata introduce il periodo prossimo alle manifestazioni più eclatanti attribuite alla banda armata in oggetto sottolineando che "l'anno 1979 segna il raggiungimento di un livello assai elevato della lotta armata condotta da formazioni che, con differenze di carattere tattico, sono impegnate in una comune strategia di rifiuto dell'ordinamento democratico dello Stato".

"Si registra il passaggio netto da una precedente situazione di illegalità diffusa al succedersi incessante, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, di episodi criminosi di volta in volta più gravi e mirati, che dimostrano non soltanto il crescere delle capacità militari, l'arricchirsi delle dotazioni di armi e strutture

logistiche, l'aumento anche in termini numerici delle persone disposte a passare alla clandestinità piena, ma anche l'avanzare di un'ipotesi generale di lotta al sistema che risulta avere una trascinante capacità di abrogazione".

Il 6 febbraio 1980, l'omicidio a Roma dell'agente della Polizia di Stato ARNESANO,

in servizio presso l'ambasciata libanese: ne saranno imputati il FIORAVANTI ed il CIAVARDINI.

Il 28 maggio, meno di tre mesi dopo, davanti al Liceo romano Giulio Cesare, viene ucciso un altro poliziotto, l'appuntato EVANGELISTA:

responsabili, Valerio FIORAVANTI, Francesca MAMBRO, Gilberto CAVALLINI, Luigi CIAVARDINI e Giorgio VALE.

Il 28 giugno, l'omicidio del giudice AMATO:

dichiarati colpevoli, il CAVALLINI, il FIORAVANTI, la MAMBRO, il SODERINI.

Il 2 agosto, la strage alla stazione di Bologna.

 

4. I contatti operativi tra i due gruppi:

l'evasione di FREDA ed il progetto di evasione

di CONCUTELLI

Alla ricerca di prove di contatti operativi tra i due gruppi, quello veneto e quello romano, la sentenza si è soffermata sul progetto di attentato ad un magistrato veneto, definito "tipica espressione della strategia della banda armata oggetto di giudizio" , sulle vicende che procuravano la fuga del FREDA e sul comune impegno per la evasione del CONCUTELLI.

In particolare, queste ultime due vicende dimostrerebbero, secondo i primi giudici, una perfetta sintonia tra formazioni che soltanto apparentemente si presentavano differenziate.

Il professato "autonomismo" del FIORAVANTI dalle trite progettualità dei padri storici del neofascismo, altro non sarebbe stata che una astuta copertura, capace, semmai, di attirare coscienze giovanili poco accorte, mentre, sempre secondo la sentenza impugnata, sarebbe "innegabile che tutte le azioni qui descritte non possono trovare inquadramento che in una strategia rivolta a riunificare l'ambiente

della destra eversiva, galvanizzandone le energie attraverso atti che in qualche modo rappresentano un esplicito riconoscimento della 'leadership' dei capi storici e delle tesi politiche delle quali questi sono portatori".

Osserva questa Corte che una simile opinione, che contrasta con le obiettive risultanze e con fili esterni accadimenti, per non restare tale, avrebbe dovuto evidenziare, con rigore probatorio, la sotterranea ed occulta intesa tra le componenti della destra, vecchie e nuove, si che le differenziazioni, professate e realizzate nei fatti, risultassero mera tattica deviante strategicamente preordinata.

L'analisi del dato probatorio sembra indicare, piuttosto, diversità di intenti nei soggetti interessati a quelle vicende.

Tra la procurata evasione del FREDA e la progettata evasione del CONCUTELLI, innegabile restando la comune matrice di destra delle due operazioni, sono riconoscibili differenziazioni notevoli derivanti dagli stessi intenti ideologici e culturali dei soggetti che delle due

vicende sono stati i protagonisti principali.

In particolare, per quanto riguarda il FIORAVANTI, quella operazione doveva avere un intento simbolico ed esemplare che si contrapponeva ad un certo immobilismo ed alla sterilità operativa dei padri (tra i quali, ovviamente, anche il FACHINI).

CONCUTELLI appariva come il simbolo più evidente della azione e di un certo decisionismo e la sua liberazione doveva inaugurare una stagione di lotta che non tenesse conto di eccessivi contorsionismi ideologici e di attendismi strategici ma si realizzasse piuttosto attraverso il crudo peso dei fatti e della loro stessa efferatezza.

 

Quanto al progetto di uccidere un magistrato veneto, ne ha parlato il VETTORE in dichiarazioni rese il 13/11/1980 che, secondo i primi giudici, si segnalano per essere, fra le tante, le più lucide e le meno divaganti: "...Ripeto alla S.V. quello che appresi dal RINANI (a proposito del progetto). Egli mi disse che era rimasto sempre in contatto con l'ambiente

dell'estrema destra padovana ed in particolare con la cellula venera già facente capo a FREDA e VENTURA e di cui è attualmente principale esponente a Padova FACHINI Massimiliano".

Sull'argomento ritornava anche, il SODERINI;

"io so che era stata programmata un'eliminazione di un giudice nel Veneto però non so se esattamente da FIORAVANTI o da CAVALLINI o dal suo gruppo", (dal verbale d'interrogatorio dibattimentale del SODERINI ex art.450 bis C.P.P.).

Idee criminose circolanti, dunque, sia nell'ambiente veneto che in quello romano.

Ha, proprio in quanto tali, e cioè ancora semplici ideazioni e non ancora progettazioni, non significative di alcun fattivo accordo operativo tra quelle componenti, per tanti versi, molto differenziate, del neofascismo terroristico, facenti capo al FACHINI nel veneto ed al FIORAVANTI a Roma.

Idee, dunque, che ben potevano essere comuni al patrimonio progettuale di soggetti aventi pur sempre una medesima matrice ideologica, ma non ancora rivelatrici, in quanto tali, di

preparazioni operative, di organizzazione di mezzi, di assegnazione di compiti.

 

a. FIORAVANTI-SIGNORELLI

Premessa necessaria al tema dei contatti e delle frequentazioni, e quindi delle ipotizzate intese, tra coloro che dovrebbero comporre la banda armata oggetto di giudizio, è la considerazione della appartenenza di tutti i personali interessati al medesimo ambiente, al cui interno, e dopo anni di esperienza e di militanza, i rapporti interpersonali erano sicuramente frequenti ed estesi.

Del resto, al livello di maggiore impegno personale, ed operativo, il giro non era numericamente esteso e, quindi, non difficili le reciproche conoscenze.

Occorre, allora, non fermarsi alla prova di queste ultime, ma andare alla ricerca di quei patti di azione che si realizzano con le modalità di cui si è già detto.

La prova del vincolo associativo tra componenti, anche generazionalmente distinte, viene, dalla sentenza, ricercata in una congerie

di dichiarazioni testimoniali, oltre che di fatti ed esperienze personali di ciascun soggetto, in verità spesso di marginale interesse; elementi dai quali non può pretendersi che possa discendere l'evidenza di contatti di livello operativo nella banda armata ipotizzata.

Tra i testi, o "chiamanti in reità", particolare rilievo è stato riconosciuto al SODERINI il quale si è soffermato sull'insegnamento ricevuto dal SIGNORELLI, la cui personalità si imponeva nella cerchia dei giovani.

"..dietro ai ragazzi che avevano contatto con me emergeva sicuramente la figura di Paolo SIGNORELLI, il quale girava spesso per il quartiere perché insegnava in una scuola..."

Il dato che se ne ricava non è nuovo ma in linea con l'immagine consolidata di personaggi, quali appunto il SZGNORELLI, alla continua ricerca di un proprio ruolo all'interno di un ambiente che si andava trasformando.

Episodi, come quello della festa del solstizio d'inverno, o del Capodanno 1978, appaiono, comunque, lontani e non significativi

di uno specifico patto di azione.

Nemmeno dai rapporti FIORAVANTI-SIGNORELLI, possono trarsi sicuri elementi di giudizio per intravedere ruoli diversi all'interno di una medesima banda armata.

Vi è stata ampia ammissione dei due interessati circa la reciproca conoscenza e gli incontri, dopo l'uscita di entrambi dal carcere, alla fine del 1979.

Le indagini condotte all'epoca dal giudice AMATO, assassinato dal gruppo FIORAVANTI, avevano coinvolto anche il SIGNORELLI, il quale tentò di fermare il giudice con iniziative, solo formalmente legittime, poi non praticate.

Ma il SIGNORELLI, dopo essere stato riconosciuto colpevole di concorso nell'omicidio del giudice, è stato poi definitivamente assolto con ampia formula, mentre in nessuna delle altre cruente operazioni del FIORAVANTI, le indagini hanno potuto risalire a coinvolgimenti, ideativi e, tanto meno, operativi, del più maturo professore.

E la diversità di vedute tra il SIGNORELLI ed il FIORAVANTI, che non è attribuibile soltanto ad

una linea difensiva dei due, è stata sottolineata, con accenti convincenti, dallo stesso FIORAVANTI nel corso del suo interrogatorio innanzi a questa Corte.

Del resto, circa la collocazione del SIGNORELLI, lo stesso CALORE, ritenuto dai primi giudici soggetto affidabile, che pure aveva stretto un iniziale patto d'azione col FIORAVANTI (si pensi all'omicidio LEANDRI), spiegando le ragioni del suo dissenso dal professore, precisava che i contatti con quest'ultimo, "oltre che controproducenti sul piano della nostra immagine, nel contatto con gli ambienti della sinistra (con i quali il CALORE e l'ALEANDRI cercavano convergenze), erano anche insostenibili, dato che SIGNORELLI continuava a svolgere un tipo di attività e aveva un tipo di collocazione ideologica che era quella sua tradizionale, cioè nell'area dell'estrema destra di tipo extraparlamentare...".

 

 

b. I contatti tra CAVALLINI e Massimiliano

 

FACHINI

La immanente presenza, e la partecipazione alla banda in esame, del FACHINI, dovrebbe ricavarsi, oltre che dalla lunga esperienza eversiva del soggetto, e dalla comune (al SIGNORELLI) ambizione di egemonizzare un certo ambiente giovanile, (ed in proposito si è già detto che si tratta di argomenti poco incidenti sul piano della prova diretta di una partecipazione ad una banda armata determinata), anche dai persistenti rapporti col CAVALLINI, a sua volta inserito nel gruppo del FIORAVANTI.

Ma la indiscutibile conoscenza e le frequentazioni dei due (il FACHINI ed il CAVALLINI), non dicono molto sullo specifico oggetto di prova.

Ed anzi, qualche segnale di segno contrario viene fuori proprio dalle copiose dichiarazioni di Sergio CALORE che, in un diverso contesto, e con riferimento ad altre circostanze, dirà:

"..In seguito ebbi modo di parlare con CAVALLINI della cosa ed il CAVALLINI mi disse che avrebbe meditato sulla posizione di FACHINI e che avrebbe preso le distanze da lui se avesse

accertato che... ricordo che con CAVALLINI ne parlai l'11/12/1979 in occasione della rapina a Tivoli alla gioielleria D'AMORE."

Dunque, manifestazione di una pesante diffidenza e di un sospetto nei confronti del preteso sodale proprio in epoca immediatamente prossima a quella che avrebbe dovuto vedere una piena intesa operativa col padrino veneto.

Si vuole dire, in conclusione, che neppure dalla accertata, reciproca conoscenza tra i due è dato ricavare un elemento direttamente utilizzabile nella costruzione della tesi accusatoria che vuole la banda, che doveva rendersi responsabile di gravissimi fatti di sangue nel 1980, composta, non soltanto dai diretti protagonisti di quegli episodi criminosi, ma anche da personaggi, come il FACHINI ed il SIGNORELLI, che avrebbero agito, dietro le quinte.

 

c. La conoscenza FIORAVANTI-FACHINI

E' ancora il CALORE a riferire di avere appreso da Mario ROSSI di due appuntamenti fra il FIORAVANTI ed il FACHINI,

nella zona del quartiere africano di Roma, intorno alla metà del 1980.

La notizia, che la stessa sentenza definisce doppiamente "de relato", e quindi, in sé inidonea a suffragare qualsiasi convincimento, non può certamente ritenersi confermata da quelle che il primo giudice definisce "parziali ammissioni del FIORAVANTI in ordine a personali contatti con il FACHINI in epoca processualmente significativa", ma che in realtà, sono dichiarazioni di negazione di ogni concreta intesa e non possono, quindi, essere piegate al significato opposto per trovarvi, poi, indiretta conferma di quelle prime vaghe notizie.

Valerio FIORAVANTI al Giudice Istruttore, il 14/12/1985: "...Quanto ai rapporti con FACHINI, non ho avuto con lui direttamente alcun rapporto, e l'ho visto soltanto un paio di volte di sfuggita senza che egli neppure sapesse esattamente chi ero. Ciò non corrisponde ad un'ottica di compartimentazione all'interno di una medesima banda armata, ma esprime una totale estraneità della mia persona all'attività di FACHINI. I fugaci contatti di cui sopra si sono

verificati parche io ero legato a CAVALLINI e in un paio di occasioni nella casa di Padova, dove il CAVALLINI si appoggiava saltuariamente, passò il FACHINI...che io sappia questi incontri non servivano a mettere a punto nessuna azione, ma rientravano nei tentativi del FACHINI di mantenere buoni rapporti con il CAVALLINI in vista dalla divaricazione che nel frattempo

si ..."

E, dal verbale dell'interrogatorio dibattimentale del FACHINI in data 6/4/87: "...Il FIORAVANTI non lo avevo mai conosciuto;

lui dice che una o due volte l'ho visto; me l'hanno presentato con nome diverso; io non l'ho conosciuto col nome di FIORAVANTI...non ricordo di averlo visto. Se sette anni fa un tizio, una o due volte, si è fatto vedere, non sono fisionomista, non ricordo, non so, non l'ho mai visto; se un tizio si presenta sotto altro nome, può darsi, non so".

E del resto, la circostanza indicata difficilmente potrebbe conciliarsi con la ipotesi del sodalizio già concluso tra i due personaggi, presentando e significando, al contrario,

tentativi di instaurare primi contatti per possibili future intese.

Dello stesso segno, contraddittorio rispetto all'assunto accusatorio, anche l'altra circostanza, ricordata dal P.G. nella sua requisitoria, costituita dalla dichiarazione del FIORAVANTI il quale aveva riconosciuto che nell'anno 1980 (dunque, quando la ipotizzata superbanda doveva trovarsi nel pieno della sua attività criminale), il FACHINI aveva tentato di contattarlo tramite il SIGNORELLI.

In conclusione, i dati acquisiti potrebbero testimoniare di un certo avvicinamento tra i due gruppi e di qualche approccio in tal senso: con ciò stesso facendo escludere un'intesa operativa già raggiunta e funzionante.

Resta, allora, la considerazione, certamente più incisiva e concludente, circa la mancanza di qualsiasi prova in ordine a partecipazioni dei due soggetti ad imprese comuni.

Nessuna delle "operazioni" terroristiche

compiute dal FIORAVANTI in quegli anni, e più precisamente, per restringere l'arco temporale a quello della ipotizzata superbanda, in quei mesi,

ha visto il FACHINI partecipe, sia pure in maniera indiretta.

Nessun principio di prova al riguardo, che non sia il postulato, accusatorio di un unico movimento terroristico espresso al massimo livello e culminato nella strage del 2 agosto.

 

d. FACHINI-SIGNORELLI

Quanto all'incontro tra questi due "padri storici" della eversione di destra, debbono richiamarsi le osservazioni già fatte a proposito della scarsa significatività di conoscenze e rapporti tra personaggi da sempre partecipi di movimenti dell'estrema destra extraparlamentare.

La sentenza ha tenuto conto di una serie di vicende, molte delle quali indubitabili, come la partecipazione di entrambi alla riunione di Albano ove si progettò la riunificazione tra Ordine Nuovo ed Avanguardia Nazionale, ripercorrendo esperienze di singoli e di gruppi ed aggregazioni di tono eversivo, nel corso di più anni.

Ma non si vede come da tutte quelle vicende, alcune delle quali di estrema gravità, possa

discendersi fino all'accordo operativo, alla strategia comune, al patto d'azione col violento spontaneista in guerra personale con il suo ristretto gruppo romano.

Alle ipotesi, pure verosimili e non illogiche, viene a mancare la conferma probatoria che ogni indagine in ordine a responsabilità di tipo penale deve attendersi e ricercare.

 

5. Le conclusioni circa le responsabilità dei singoli imputati per il delitto di banda armata

Il quadro che la stessa sentenza di primo grado è andata delineando sembra a questa Corte altro di quello descritto nelle conclusioni.

Dalle considerazioni fatte in ordine al metodo di prova ed allo stesso oggetto da provare, ritiene questa Corte che gli elementi analizzati mostrino con sufficiente evidenza la presenza a Roma, sin dalla fine del 1979, di un gruppo ristretto e composto, tra gli altri, da alcuni degli imputati di questo processo, e precisamente, dal FIORAVANTI, dalla MAMBRO, dal CAVALLINI e dal GIULIANI.

Deve, a questo punto, richiamarsi tutta la

ampia trattazione della prima sentenza circa la genesi del gruppo e le imprese dello stesso, con la individuazione del significato e del peso eversivo da riconoscere alla banda.

Ma la estensione della struttura è risultata ridotta ad un più ristretto ambito, con proprie caratteristiche ideologiche e fortemente segnata dalla figura e dalla personalità del FIORAVANTI.

Struttura alla quale, guardavano, certo con interesse o forse anche con qualche preoccupazione, uomini che da sempre vivevano ed operavano nel medesimo ambiente politico e trascorrevano quegli anni di confuse progettualità nel tentativo di mantenersi al centro del fenomeno e non ai margini, destinati ai semplici osservatori.

Ma, prepotente ed imprevedibile, doveva distinguersi la figura del giovanotto romano, mosso, come egli stesso ha tentato di chiarire, più da pulsioni passionali che da fedi politiche.

La sua semplice e terribile progettualità prendeva, in qualche modo, impreparati i vecchi, da sempre inclini alle disamine sottili ed alle composizioni gerarchiche all'interno delle quali

esprimere meglio il proprio carisma e potere.

Componente impazzita di uno scacchiere sempre incline alla imitazione del gioco politico più che alla azione diretta, il FIORAVANTI dava vita ad un terribile organismo operativo che non aveva certamente bisogno dell'appoggio e del consenso di un FACHINI o di un SIGNORELLI.

La dimostrazione di una diversa realtà che presupporrebbe una perfetta dissimulazione di ruoli ed intenti, quali sono emersi senza apparenti contraddizioni, non può ricavarsi dalle stesse proposizioni accusatorie, pena un evidente vizio logico.

Non è possibile, in altri termini, sostenere che il FIORAVANTI ed il suo gruppo si siano mostrati diversi proprio allo scopo di coprire una sottostante piena intesa.

Il dato, all'evidenza contrario, per trasformarsi in elemento positivo per l'accusa, deve essere svuotato dall'interno di quello che si assume essere un significato soltanto apparente.

Ma si è visto, che le argomentazioni raccolte sul punto non sono concludenti.

Le gravi manifestazioni eversive del FACHINI e del SIGNORELLI, la stessa ipotizzabilità di una struttura armata nel venato, le responsabilità per gravi fatti criminosi attribuiti ai predetti, se servono ad introdurre un discorso sulla prova, presentando personaggi "plausibili" rispetto ad una imputazione di banda armata, non sono ancora prova di un legame delittuoso manifestatosi in quel determinato gruppo armato ed organizzato.

Sulle ceneri di "Costruiamo l'azione", il CALORE, prima, e dopo il suo arresto per l'omicidio LEANDRI, il FIORAVANTI ed i suoi fidati amici, la MAMBRO, il CAVALLINI, il GIULIANI, personaggio quest'ultimo in grado di assicurare all'organizzazione armata un formidabile supporto logistico, daranno vita alla banda descritta al capo c della imputazione, il cui retroterra politico va ricercato nella precedente esperienza terroristico-eversiva.

E' ancora il CALORE, teste affidabile, che ricostruisce con precisione la genesi di quel gruppo che la sentenza ha voluto dilatare ed estendere senza un consistente supporto probatorio; "...tornando al periodo compreso tra

la mia scarcerazione ed il successivo arresto (13 novembre-17 dicembre 1979), appresi da Valerio che intendeva passare nel nostro gruppo, anche in considerazione della sottrazione di armi che aveva subito ad opera di DI MITRI...dunque, a far tempo dal 6-7 dicembre, Valerio entra a far parte del gruppo che faceva capo a me. Il giorno 10 ed 11 dicembre Valerio partecipò ad una rapina ai danni di un orefice di Tivoli, insieme a Bruno MARIANI, Mario ROSSI, Gilberto CAVALLINI, ... fu in questa occasione che presentai FIORAVANTI al CAVALLINI".

Il FIORAVANTI, in particolare, pensava ad una sorta di terrorismo di destra da contrapporre a quello di sinistra sul medesimo terreno di operazioni violente, sottolineando con termini espliciti una tale scelta d'azione: "...era anche evidente che una volta interrotta la guerra ai compagni, non restava che l'attacco alla Polizia e alla Magistratura, e su tale linea eravamo tutti d'accordo, anche se nessuno di noi lo disse specificamente". "Io, peraltro, manifestai la mia disponibilità a portare avanti un discorso senza preclusioni morali e senza

preclusioni sul tipo di obiettivo scelto..."

Davvero interessanti, per penetrare la filosofia operativa del FIORAVANTI, le cose che di lui ha ricordato il SODERINI, (al PUBBLICO MINISTERO di Roma), confermandole, poi, nel dibattimento del presente giudizio: "L'intento (di Valerio e del suo gruppo) di restare 'occulti' anche a coloro che facevano parte dell'ambiente di destra era motivato dalla volontà di compiere un gran numero di fatti criminosi di notevole gravità ma di assai difficile 'riferibilità personale'.

Ancora il SODERINI osservava che: "Il FIORAVANTI e il VALE non parteciparono materialmente all'assassinio del dottor AMATO, per evitare che la riferibilità dello stesso ai NAR coinvolgesse non solo una sigla, ma delle persone e, in specie, proprio quelle trainanti".

Ed Inoltre: "...Lui (Valerio FIORAVANTI) diceva che occorreva muoversi 'agili e snelli'. Il suo intento era quello di commettere fatti sempre più rilevanti che, per un lato evidenziassero la presenza della destra e

dall'altro facessero 'venir fuori' gli elementi più preparati e disponibili alla lotta armata mimetizzandoli fra i 'farfalloni' assai numerosi nell'ambiente.

In tal modo il discorso spontaneista si sarebbe diffuso a macchia d'olio rendendo difficile la repressione e sempre più complessa la comprensione di ciò che stava effettivamente accadendo all'interno dell'ambiente.

Era il discorso del c.d. "spontaneismo diffuso'...".

 

Conferma della affermazione di responsabilità, sia pure con le precisazione in ordine al tipo di banda costituito, deve esservi anche nei confronti del CAVALLINI e del GIULIANI.

Quanto al primo, la strettissima collaborazione nelle imprese del FIORAVANTI, a partire dalla azione iniziale del gruppo, la rapina alla gioielleria di Tivoli, agli omicidi dell'agente EVANGELISTA e del giudice AMATO, ne delineano un ruolo di primo piano nella struttura armata.

E del resto, di molti fatti ed episodi criminosi vi è stata ampia ammissione del CAVALLINI, anche nel corso del suo interrogatorio innanzi a questa Corte.

Non può, infine, trovare accoglimento il motivo d'impugnazione, proposto dal CAVALLINI, e comune anche agli imputati FIORAVANTI e MAMBRO, con il quale e stata eccepita la improcedibilità dell'azione relativa alla banda armata ex art. 90 c.p.p.\1930, per essere stati già giudicati per la medesima banda.

In verità, dalle predette doglianze non è dato stabilire quale sia stata la sentenza che abbia pronunciato in merito, chi fossero i soggetti associati e di quali azioni criminose la richiamata banda si fosse macchiata.

E, soprattutto, se in ordine alla pronuncia, genericamente richiamata, si sia verificato il passaggio in cosa giudicata.

Collegato strettamente al CAVALLINI, il GIULIANI si rendeva pedina di rilievo della banda attraverso il suo contributo operativo, in particolare, con la custodia di armi e la cessione di documenti.

Lo stesso FIORAVANTI ha, dal resto, dichiarato che del suo gruppo, oltre ai pochissimi e fidatissimi concorrenti in operazioni di sangue, facevano parte altri che venivano richiesti, di volta in volta, del loro contributo.

Non può dirsi questo, certamente, il ruolo assunto dal GIULIANI, sodale determinante per la vita della organizzazione criminosa per le stesse sue funzioni di armiere, diffusamente descritte nella sentenza impugnata.

Il riconoscimento della responsabilità del FIORAVANTI, della MAMBRO, del CAVALLINI e del GIULIANI in ordine al delitto di banda armata deve essere, dunque, riconfermato e la pena da infliggere dovrà essere nuovamente determinata tenendo conto del fatto che il crimine più atroce, quello che avrebbe dovuto manifestare in massimo grado la pericolosità della stessa banda, non può essere attribuito con certezza, per quanto si dirà in seguito, al FIORAVANTI ed alla MAMBRO.

Per tutto quanto si è detto, restano esclusi dalla partecipazione alla banda del FIORAVANTI,

il FACHINI ed il SIGNORELLI, raggiunti da elementi che se servono a collocarli, in posizione preminente, nel mondo della destra eversiva, non li attraggono, con forza di prova piena, nelle imprese delittuose della banda romana; e ciò in quanto sono mancati, secondo questa Corte, segnali concreti di coinvolgimento, sia nella fase costitutiva della banda che in quella operativa.

Vanno di conseguenza assolti anche quegli imputati, come il MELIOLI ed il RINANI, i quali, gravitando nell'area del FACHINI, si sottraggono all'organismo in esame per tutte le considerazioni già fatte, pur restando elementi significativi di organizzazioni eversive che non sono oggetto dell'analisi del presente procedimento.

Ed inoltre, assoluzione deve pronunciarsi anche nei confronti del PICCIAFUOCO il quale, non raggiunto, per quanto si dirà in seguito, da prove sufficienti in ordine alla consumazione della strage, per quelle stesse ragioni deve essere ritenuto estraneo alla struttura armata costituita dal FIORAVANTI.

Capitolo Settimo

IL TEMA DELLA RESPONSABILITÀ DEI SINGOLI

IMPUTATI IN ORDINE AL DELITTO DI STRAGE

 

1. La posizione del FIORAVANTI e della MAMBRO

Riprendendo il percorso seguito dal primo giudice per giungere a delineare le responsabilità personali in ordine al delitto di strage, la lettura che del dato probatorio fino a questo punto analizzato è stata proposta, induce ad indirizzare la attenzione sulla banda del FIORAVANTI che, per capacità operative e potenzialità delinquenziali dei suoi membri, si presenta organizzazione al centro di una plausibile ipotesi accusatoria.

Deve, tuttavia, osservarsi, ricapitolando brevemente il risultato della analisi critica sin qui svolta, che al tema delle prove più direttamente e specificatamente coinvolgenti il FIORAVANTI si perviene al termine di un percorso indiziante di minore gravita e significatività, se confrontato ai passaggi ritenuti indubitabili dal primo giudice.

Innanzitutto, il postulato di partenza, che riconosceva nel terreno della destra eversiva le radici uniche del fenomeno stragista in Italia, non ha trovato dimostrazione piena e convincente, residuando ampi, ed oscuri, spazi per ipotesi alternative.

Inoltre, la formazione di un'unica banda armata, comprendente componenti differenziate della destra, rappresentate al massimo livello, non ha retto, secondo quanto si è innanzi esposto, alla necessaria verifica della prova.

Dunque, elementi indicatori di minore incisività, introducono il tema centrale delle responsabilità individuali per il delitto di strage; responsabilità che, secondo la tesi confermata dal primo giudice, dovrebbero riconoscersi nel FIORAVANTI, nella MAMBRO, nel FACHINI e nel PICCIAFUOCO.

La sentenza della Corte di Assise di Bologna ha individuato temi di indagine ed argomentazioni probatorie sulle quali questa Corte si soffermerà

nel suo esame critico, enunciandole nell'ordine stesso di trattazione seguito dalla sentenza impugnata.

a. Le dichiarazioni di Massimo SPARTI

Anche questa Corte ha avvertito la esigenza di riesaminare lo SPARTI, nodo centrale del complesso probatorio utilizzabile a carico del FIORAVANTI.

Alla udienza del giorno 8 gennaio 1990 lo SPARTI ripeteva: "mi rimase impressa la frase che Valerio disse: disse: "hai visto che botto!;

egli non appariva dispiaciuto del botto".

Accusa e difesa hanno moltiplicato rilievi ed osservazioni critiche, ovviamente di segno contrapposto, su aspetti certamente rilevanti della questione.

Circa la affidabilità dello SPARTI, la sua personalità, il suo contegno, anche in relazione a vicende private, i contrasti con i congiunti, la stessa qualificazione tecnico-processuale da riconoscere alle sue dichiarazioni.

Osserva la Corte che per la valutazione delle dichiarazioni dello SPARTI deve trovare applicazione il criterio dettato dall'art.192 n.4 del nuovo codice di procedura penale.

In tema di prova penale, infatti, l'art. 245 delle disposizioni di attuazione e transitorie

del nuovo codice di rito prescrive che anche ai procedimenti già in corso alla data di entrata in vigore di tale codice è applicabile la norma del citato art. 192 c.p.p. 1988.

Questa stabilisce che le dichiarazioni di persona imputata di un reato, collegato a quello per cui si procede a causa della reciproca influenza della prova dell'uno sulla prova dell'altro, debbono essere valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità.

Lo SPARTI, che non è stato imputato del medesimo reato ascritto al FIORAVANTI, era però imputato, all'epoca delle sue dichiarazioni, in un procedimento che può definirsi collegato al presente in ragione della predetta connessione probatoria.

A carico dello SPARTI, infatti, al momento delle sue dichiarazioni, si procedeva anche per la partecipazione alla banda armata nella quale era ricompreso il FIORAVANTI.

II convincimento circa la veridicità delle affermazioni del teste, dunque, deve discendere dalla considerazione e valutazione unitaria di

quelle stesse dichiarazioni e di ogni altro elemento che serva a corroborarle.

Con la sentenza in data 8 marzo 1990, la prima sezione penale della Corte di cassazione ha affermato che "gli altri elementi di prova richiesti dall'art. 192 c.p.p. per la conferma della attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o dalla persona imputata di un reato collegato o in procedimento connesso, devono riferirsi a fatti che riguardino direttamente la persona dell'incolpato in relazione allo specifico fatto che gli si addebita e che facciano ritenere l'elevata probabilità, in unione con le accuse, di una sua responsabilità".

Tuttavia, nel caso in esame, il cammino verso la prova richiede un duplice passaggio: la prova che lo SPARTI abbia percepito le frasi del FIORAVANTI e le abbia poi riferite fedelmente non è ancora la prova della corrispondenza tra quelle stesse espressioni e la realtà dei fatti, e quindi, la prova della responsabilità del FIORAVANTI.

La scelta metodologica adottata per il

riesame della decisione del primo giudice consiglia di tralasciare la ripetizione analitica dei dati (ricordati, peraltro, nella parte narrativa della presente decisione), che compongono il tema e di proporre la valutazione conclusiva che, secondo la Corte, della testimonianza SPARTI è lecito dare.

SPARTI ha detto il vero riferendo della visita del FIORAVANTI e della MAMBRO; egli ha pure riferito convincentemente del contenuto del colloquio avuto col giovane amico e della sua pressante richiesta di documenti "freschi".

Lo SPARTI ha, infine, percepito e riferito il tremendo accenno del FIORAVANTI ad un coinvolgimento, suo e della MAMBRO, nella strage avvenuta a Bologna appena due giorni prima.

I motivi che sostengono il convincimento della Corte sono quelli stessi che i primi giudici hanno compiutamente esposti, con riferimento alla mancanza di specifico interesse dello SPARTI ad una menzogna sul punto, dopo le

notizie già fornite agli inquirenti e risultate del tutto veritiere (vedi quelle concernenti l'omicidio del giudice AMATO e la responsabilità

del FIORAVANTI anche in relazione al trafugamento di bombe ed esplosivo da una caserma di Pordenone), e, soprattutto, a seguito degli incrociati riscontri ottenuti con le testimonianze del DE VECCHI, intermediario incaricato dallo stesso SPARTI del procacciamento dei documenti.

 

Ma, come si è detto, su una tale acquisizione, ragionevolmente certa, incombe l'ombra di una ambiguità non superabile ed insita nelle stesse espressioni adoperate dal FIORAVANTI e riferite dal teste.

Quel tremendo accenno alla strage potrebbe essere stata la rivelazione di un'altrettanto tremenda responsabilità; ma potrebbe anche essere stata partorita dalla mente eccitata del FIORAVANTI, mosso dall'intento, soltanto strumentale, di caricare di gravità estrema la sua richiesta di ottenere documenti e vincere definitivamente ogni resistenza ed obiezione dello SPARTI.

Qualche riflessione sul comportamento del FIORAVANTI e sullo stesso svolgimento

dell'incontro con lo SPARTI, cosi come riferito da quest'ultimo, apre spazi consistenti ad una simile ipotesi, e per ciò stesso, al dubbio.

Il rapporto con il più anziano complice non era mai stato vivificato da sentimenti di amicizia o di particolare confidenza;

atteggiamento mantenuto, invece, e con accenti di sincerità, dal fratello Cristiano.

Non può, quindi, non destare sconcerto la prospettazione di un FIORAVANTI che non avrebbe esitato a mettere a parte proprio lo SPARTI, persona esterna al suo ristrettissimo ambito operativo, di un segreto tanto terribile, assumendosi una responsabilità, non soltanto sua ma della stessa MAMBRO, che aveva assunto proporzioni spaventose.

La immagine del FIORAVANTI tenace e convinto assertore di una lotta tanto più efficace quanto più protetta e coperta all'esterno, allo scopo di suscitare più subdoli allarmi (e si ricordi, in proposito, l'analisi del personaggio e della sua filosofia operativa, fatta dal SODERINI e pienamente condivisa dalla sentenza impugnata), è difficile da riconoscere in quella del giovane

"chiacchierone" che esalta la sua impresa più micidiale, proprio quella che non avrebbe dovuto avere paternità per spiegare a pieno i suoi effetti terrorizzanti.

Contraddizione, questa, difficilmente superabile in una ricostruzione che tenga conto della necessaria coerenza psicologica dei personali.

Quella del dubbio, si presenta allora a questa Corte come l'unica chiave interpretativa dell'episodio "SPARTI".

Dalle dichiarazioni, pur veritiere del teste, quanto alla "storicità" dell'avvenimento che i suoi sensi hanno percepito (il FIORAVANTI che pronuncia quelle parole), non può ricavarsi con certezza una aperta confessione dell'imputato in ordine all'orrendo crimine.

Lo SPARTI, in altri termini, non è teste del fatto oggetto di prova, ma ha recepito, e riferito, frasi ed espressioni, peraltro non del tutto esplicite, attraverso le quali un soggetto,

il FIORAVANTI, sembrava attribuirsi la responsabilità per la strage di Bologna.

Resta la possibilità, ed anzi, la

probabilità, sul piano logico e psicologico, che quelle parole siano state dette non già per rivelare l'accaduto, ma piuttosto, per utilizzare l'accaduto, facendolo in qualche modo proprio, allo scopo di conseguire un obiettivo immediato e pressante.

Non deve dimenticarsi, infatti, che la stampa aveva già segnalato la attribuibilità del crimine alle formazioni NAR e qualche cronaca giornalistica aveva anche riportato testimonianze che avevano creduto di vedere una sospetta figura femminile alla stazione, nella imminenza della deflagrazione.

La preoccupazione del FIORAVANTI e della MAMBRO, dunque, avrebbe avuto plausibili motivi e spiegabile sarebbe stata, in tale prospettiva, l'urgenza di documenti che consentissero rapidi spostamenti, mentre, sul piano, per cosi dire, politico, si organizzava la rapina alla armeria per dare risposta alle supposizioni accusatorie nei confronti dei NAR.

E soffermandosi, per un momento, su una tale linea di ipotesi, non è difficile immaginare il FIORAVANTI che, appreso dai giornali delle

rivendicazioni attribuite ai NAR , e, soprattutto, del fatto che alla stazione erano stati notati un uomo ed una donna, decide per la rapina da consumare a Roma e per i documenti da richiedere urgentemente.

Nascerà in seguito il problema della accusa e della necessità di "coprire" quei primi giorni di agosto.

Ed allora, il passaggio da Bologna, riferito allo SPARTI, potrebbe essere stato soltanto quello del 3 agosto, (con provenienza Veneto e destinazione Roma), con le misure precauzionali di un abbigliamento alquanto elegante e "borghese" per sé stesso (vedi in proposito le dichiarazioni della MAMBRO) e, forse, di una leggera tintura dei capelli per la ragazza.

Circostanze tutte riferite in quel concitato ed allusivo incontro con lo SPARTI nel corso del quale il FIORAVANTI, per premere in maniera irresistibile, avrebbe utilizzato equivocamente la notizia del "botto" ed il passaggio del giorno 3 per la stazione di Bologna, ingenerando nel suo interlocutore la sensazione di un suo diretto coinvolgimento nel

massacro della stazione.

 

b. I capelli della MAMBRO

E' questo, del colore dei capelli della MAMBRO, un argomento che la stessa sentenza impugnata definisce marginale.

Lo SPARTI ritenne di notare un certo riflesso rossastro nella capigliatura della ragazza, dopo che lo stesso FIORAVANTI aveva richiamato la sua attenzione dicendogli che "le aveva fatto tingere i capelli", allo scopo, evidentemente, di rendere più difficile una sua identificazione.

Lo sforzo investigativo, che è ricorso anche all'ausilio tecnico di una perizia, non può dirsi conclusivo in termini di certezza.

Tuttavia, osserva la Corte che la circostanza non avrebbe, comunque, un significato certo dal momento che essa appare indissolubilmente legata alla interpretazione che si è già data delle frasi dette dal FIORAVANTI allo SPARTI.

La alterazione del colore dei capelli della MAMBRO, così come la affannosa richiesta dei documenti, sono spiegabili sia con un reale coinvolgimento dei due nella dissennata azione

alla stazione di Bologna, sia con una semplice precauzione, motivata dal timore di indagini e di sospetti che avrebbero potuto raggiungerli.

 

E', quindi, muovendo da una tale ambiguità di interpretazione del dato probatorio, che questa Corte ha affrontato l'esame dei successivi passaggi della motivazione.

 

c. Gli alibi

Una certa ambivalenza probatoria deve riconoscersi anche al tema dei cosiddetti alibi, proposti dagli imputati per il giorno 2 agosto.

Non è soltanto la discutibile valenza da riconoscere, in generale, sul piano della prova, alla riuscita o al fallimento di una tesi difensiva, perché è evidente che, in mancanza di elementi di accusa da ribattere, anche argomentazioni difensive poco convincenti non potrebbero essere utilizzate per sostituire il vuoto accusatorio.

Ad una tale riflessione, che resta per un momento sullo sfondo, deve aggiungersi la considerazione di una obiettiva incompletezza di

elementi utili alla definizione dell'alibi proposto: se, cioè, lo stesso debba ritenersi o meno veritiero ed accertato.

FIORAVANTI e MAMBRO lasciavano Palermo con un volo diretto a Roma il giorno 30 luglio 1980: sul punto, testimonianza convergente della vedova del MANGIAMELI, Rosaria AMICO.

Il giorno 4 agosto, erano, come si è visto, ancora a Roma ed incontravano lo SPARTI ed il 5 consumavano la rapina ai danni dell'armeria di Piazza Menenio Agrippa.

Il "vuoto", dal 31 luglio al 3 agosto è stato "riempito" dagli imputati con la descrizione di un primo spostamento, il 31 luglio, in treno, da Roma a Taranto, per incontrarsi con ADDIS e visionare l'appartamento preso in affitto nei pressi di quella città e destinato a "covo" per la progettata "azione CONCUTELLI"; del rientro a Roma, quella sera stessa del 31 luglio, con l'auto dell'ADDIS, diretti all'aereoporto di Fiumicino, e da qui a Treviso (o Venezia), attesi dal CAVALLINI; della permanenza in quella città nel giorni 1 e 2 agosto, con rapidi spostamenti a Padova, proprio la mattina del 2; infine, del

viaggio in treno del giorno 3 agosto, diretti a Roma, con transito per la stazione di Bologna, sconvolta dalla esplosione del giorno precedente.

La valutazione conclusiva degli elementi raccolti, sia sul piano testimoniale che su quello documentale (vedi i biglietti aerei prodotti in udienza dal Procuratore Generale che servirebbero a confermare il volo Fiumicino-Venezia della notte sul 1 agosto), non può, secondo la Corte, approdare ad un traguardo di certezza.

In particolare, la permanenza a Treviso ed a Padova il 2 agosto, che è poi il giorno cruciale per la interpretazione dell'alibi, trova sostegno probatorio nelle dichiarazioni del CIAVARDINI e del CAVALLINI, in verità, entrambe poco rassicuranti, tenuto conto dei rapporti di complicità tra i dichiaranti e gli imputati.

Ulteriore indebolimento della portata di quelle dichiarazioni "a discarico", viene dalla testimonianza "de relato" del SORDI, secondo il quale il CAVALLINI, (che ha, peraltro, seccamente negato), gli aveva espresso pesantissimi dubbi sul FIORAVANTI, confidandogli: "per esempio, che

credi che il giorno della strage del 2 agosto Valerio fosse veramente a Treviso con me e con la Flavia ?"

Ancora, ombre si addensano sulla veridicità dell'alibi per le stesse incertezze degli imputati, chiamati a ricostruire nel dettaglio avvenimenti e circostanze, di luogo e di tempo, di quella giornata.

Ed infine, il ricordo della BRUNELLI, madre di Flavia SBROIAVACCA, presso la cui abitazione in Treviso il FIORAVANTI e la MAMBRO avrebbero pernottato l’1 ed il 2 agosto, sembrerebbe escludere un soggiorno dei due, in casa della figlia, in epoca successiva alla nascita del nipote, avvenuta a metà luglio.

D'altra parte, è doveroso osservare che neppure è emersa una qualche circostanza decisamente contraria che, incompatibile con quella asserita presenza a Padova, ne svelasse la preordinata falsità.

Nessuna delle incertezze elencate, infatti, si presenta decisiva e la stessa possibilità di logiche interpretazioni alternative svela la intrinseca insicurezza della argomentazione di

accusa che dal tema degli alibi dovrebbe ricavarsi.

Può ribattersi, infatti, che le contraddizioni degli imputati, in verità non eclatanti, possono trovare ampia spiegazione proprio nella considerazione della veridicità dell'alibi, se autentico e non artatamente costruito.

Risalire, nella memoria, ad una giornata, sul piano personale non particolarmente significativa, può indubbiamente spiegare discrepanze tra i ricordi, e le ricostruzioni, individuali.

Le confidenze del CAVALLINI al SORDI potrebbero collocarsi in un vasto ventaglio di ipotesi, tutte legate ai complessi e mutevoli rapporti intersoggettivi, ed ai tornaconto del momento, in un ambiente ben lontano da principi di rigore morale.

Quanto alla teste BRUNELLI, essa ha pure detto, al giudice Istruttore, l’11 giugno 1981;

"se ben ricordo nel primi giorni di agosto ho visto, ma non ricordo quante volte, FIORAVANTI e la MAMBRO, anzi la MAMBRO e da ciò presumo che

doveva essere presente anche FIORAVANTI..".

Ed allora, non è possibile risolvere, come fa la sentenza impugnata, l'incertezza del ricordo in prova certa della mancata verificazione di un evento.

Prova tanto più ardua per avere ad oggetto non già un accadimento preciso ma, al contrario, la inesistenza di un determinato evento.

Residui ed ampi spazi di perplessità resterebbero, comunque, nei confronti di una deposizione proveniente da un soggetto che non avrebbe, certo, potuto riferire di tutti gli avvenimenti verificatisi in un determinato arco temporale, ma ovviamente, soltanto di quelli caduti sotto la sua percezione e per tempi circoscritti.

E dunque, il fatto che la BRUNELLI non abbia incontrato i due imputati in occasione delle sue visite, quotidiane ma limitate per durata, alla figlia, non tranquillizza pienamente sul dato che dovrebbe ricavarsene, ben essendo possibile, e forse anche probabile, che la presenza dei due non abbia coinciso con quelle visite o, addirittura, che di quella ospitalità data, la

stessa figlia abbia accortamente taciuto.

Ancora una volta, pertanto, si è in presenza di dati e conclusioni necessariamente ambivalenti, senza possibilità di una giustificabile scelta tra possibilità ed interpretazioni opposta ed ugualmente razionali.

Restano, valide sul piano della logica, ipotesi che, in quanto tali, scarso apporto danno al quadro probatorio.

Tenuto per certo il viaggio da Roma a Treviso, nella notte tra il 31 luglio ed il 1 agosto, dovrebbe ritenersi che il FIORAVANTI avrebbe dovuto predisporre nel Veneto gli ultimi preparativi logistici per il crimine progettato e raggiungere, quindi, Bologna la sera stessa del 1 agosto o la stessa mattina del 2.

Ipotesi questa, alla quale potrebbe forse criticamente opporsi la considerazione circa la irragionevolezza, ed imprudenza, di tanti vorticosi spostamenti per l'Italia di un soggetto come il FIORAVANTI, gravato per di più, dal tragico fardello dell'esplosivo.

La preparazione di un attentato dinamitardo in una stazione come quella di Bologna, avrebbe,

probabilmente, dovuto imporre tempi diversi.

E' lecito, infine, ipotizzare anche un quadro diverso: quello di un FIORAVANTI, estraneo alla strage, ma chiamato comunque a fornire un alibi per il giorno 2 agosto.

Non è facile immaginare testimoni insospettabili che avessero potuto riferire circa la presenza dell'imputato in altro luogo, in quella fatidica mattina della esplosione: la verità' poteva non essere utilizzabile perché non dimostrabile.

Di qui, la necessità di "costruire" un falso alibi, ricorrendo al sostegno dei più intimi del suo gruppo e scegliendo anche un luogo "possibile", la casa della SBROIAVACCA, donna del CAVALLINI, presso la quale aveva altre volte trovato ospitalità, insieme alla MAMBRO.

E non vi è dubbio che più grave sarebbe apparsa la posizione dell'imputato se avesse sostenuto di essere stato al mare ad Jesolo (come riferito al fratello Cristiano) e non avesse

offerto alcuna possibilità di verifica.

Ecco, quindi, la scelta di Treviso, luogo di concentrazione del gruppo, dove poteva apparire

plausibile una sua permanenza e più' facilmente utilizzabile la testimonianza degli amici.

Costoro, in realtà, per soccorrere l'amico, non avrebbero dovuto mentire riferendo della propria presenza in loco e non avrebbero rischiato di complicare le cose ponendosi falsamente in altri luoghi.

In conclusione, anche l'alibi costruito, e dunque, falso, non chiuderebbe definitivamente il varco ad ipotesi diverse da quelle di accusa.

 

d. La telefonata del CIAVARDINI

Terzo argomento, da utilizzare nella composizione accusatoria, la notizia riferita il 23.12.1980 agli inquirenti da Cecilia LORETI e così trascritta nel verbale: "...ricordo che, dovendo partire il 1 agosto per Venezia, giunse a casa di Marco una telefonata da un amico, che poi era il CIAVARDINI, il quale disse di non partire più in quanto vi erano dei gravi problemi... il 2 agosto vi fu la strage e successivamente io collegai le due cose, tanto che mi preoccupai di chiedere al CIAVARDINI, che vidi il successivo giorno 4, quali erano questi problemi e lui mi

disse genericamente che aveva avuto da fare per via di alcuni documenti che doveva attendere. Anche per tale motivo chiesi sia alla VENDITTI che al CIAVARDINI se per caso loro ci entrassero con la strage, ma mi risposero che queste cose loro non le facevano, mostrandosi anzi indignati...".

La notizia proveniente dalla LORETI, e dalla stessa in seguito confermata, perdeva ogni sua incidenza nella deposizione della ragazza che all'epoca era legata al CIAVARDINI, Elena VENDITTI.

Costei, pur confermando della telefonata e del contenuto della stessa, la collocava in un momento successivo alla strage di Bologna, rendendo, in tal modo, quella comunicazione del tutto insignificante sotto il profilo indiziario.

Ma, come bene ha osservato il primo giudice, il ricordo della LORETI, che per la prima volta riferì la circostanza al giudice nel dicembre del 1980, doveva essere vivido e che l'avvertimento del CIAVARDINI fosse giunto prima del 2 agosto restava confermato anche dal ricordo che la ragazza aveva di quella domanda, invero alquanto

ingenua, rivolta al giovane amico, originata dal dubbio di un suo coinvolgimento in quello che era per tutti il fatto del giorno.

La spiegazione data dal CIAVARDINI, che non ha escluso di aver fatto quella telefonata per "indurre i miei amici a spostare il viaggio ad una data successiva, rispetto a quella programmata del 1° agosto", è stata "perfezionata" con le dichiarazioni rese a questa Corte, all'udienza del 9 gennaio 1990.

Egli ha sostenuto che il fatto nuovo che avrebbe consigliato, ed anzi, imposto, il rinvio del viaggio di piacere a Venezia, programmato per i primi di agosto, era stato proprio l'arrivo, evidentemente non previsto, del FIORAVANTI a Treviso e la sua richiesta di restituzione del documento fino a quel momento utilizzato.

Ha detto il CIAVARDINI: "Avevo con me una patente falsa a nome di Flavio Caggiula".

Il documento "in effetti apparteneva a FZORAVANTI e lo avevo temporaneamente in uso per

esigenze della mia latitanza".

"il 1° agosto io ebbi notizia che FIORAVANTI e la MAMBRO erano a Treviso. La notizia mi

pervenne attraverso coloro che mi davano ospitalità ed erano in contatto col CAVALLINI. FIORAVANTI e la MAMBRO erano ospiti a casa del CAVALLINI."

"...verso sera andai a casa di CAVALLINI e qui parlai con loro"; "...nel corso del colloquio io restituì al FIORAVANTI il documento Flavio Gaggiula e FIORAVANTI me ne dette un altro intestato ad Amedeo DE FRANCISCI".

Quest'ultimo documento sarebbe stato proprio quello che il FIORAVANTI aveva con sé nel viaggio da Roma a Traviso, se deve ritenersene traccia il nome "DE FRANCISCHI" registrato tra i passeggeri del volo in partenza da Fiumicino.

E quindi, sarebbe stato questo nuovo documento, ricevuto la sera del 1° agosto, che il CIAVARDINI avrebbe "bruciato", esibendolo ad un automobilista, a seguito di un banale incidente stradale, il successivo 4 o 5 agosto.

Che proprio questo sia stato l'impedimento improvviso che costrinse il CIAVARDINI a telefonare agli amici, potrebbe ricavarsi dalle stesse dichiarazioni della LORETI, la quale, ricordando la risposta risentita del CIAVARDINI

alla sua domanda insinuante circa un suo coinvolgimento nella strage di Bologna, riferiva che il giovane aveva addotto la "giustificazione dei documenti, precisando che gli furono consegnati in prestito successivamente al 1° agosto". (al g.i. di Roma il 23.12.1980).

La verifica della versione del CIAVARDINI avrebbe richiesto di accertare, senza errore, in quale giorno il giovane aveva telefonato per rinviare l'appuntamento a Venezia: perché è evidente che il racconto del CIAVARDINI sarebbe caduto nella menzogna se quell'avvertimento agli amici fosse partito prima del giorno 1° agosto e, quindi, non in dipendenza dell'arrivo a Treviso del FIORAVANTI e della sua richiesta di restituzione del documento.

Ma sul punto, accertamento non vi è stato, anche se, dal tenore complessivo della dichiarazione della LORETI, dovrebbe ritenersi che la telefonata giunse proprio il 1° agosto.

Altri elementi la sentenza ha analizzato che rivelerebbero la successiva menzogna del CIAVARDINI e confermerebbero la valenza accusatoria, per il FIORAVANTI, di quella

telefonata.

La stessa VENDITTI, infatti, riferiva di avere avuto la "impressione", (e ciò in epoca immediatamente successiva alla strage), che il gruppo del FIORAVANTI "ce l'avesse a morte con il CIAVARDINI". (dichiarazione resa al P.M. il 24.9.1980).

Roberto FIORE lo aveva cercato a casa della LORETI, avvertendo che avrebbe dovuto mettersi in contatto con un certo Sergio; la cosa aveva fortemente preoccupato il CIAVARDINI.

La circostanza, a parte ogni altra considerazione circa la incompletezza e frammentarietà della notizia, dovrebbe significare che la "imprudente" telefonata del CIAVARDINI aveva suscitato reazioni e propositi punitivi da parte del FIORAVANTI.

Ma se questa è la giusta interpretazione dell'episodio, il cammino verso la verità non segna significativi avanzamenti.

Quella telefonata agli amici era stata,

comunque, una leggerezza per le conseguenze che potevano derivarne, e che, in realtà, ne erano derivate. Ed il giovane CIAVARDINI,

contravvenendo a regole rigide di comportamento del buon soldato politico, non era nuovo a confidenze intorno a fatti di assoluta segretezza, spesso cedendo ad una sorta di imprudente vanagloria.

Come si vede, anche questo passaggio della motivazione non si presenta utile alla collocazione di un tassello certo nella costruzione accusatoria.

E’ pur vero che il concetto di indizio è riferito ad un elemento che, non assumendo la pienezza della prova, indichi tuttavia la direzione giusta, una volta collegato ad altri indizi che rafforzino quella stessa indicazione (univocità degli indizi).

Ma gli elementi, singolarmente esaminati, debbono segnalare un'unica direzione e non avere, come può dirsi per ciascuno dei passaggi esaminati, caratteri di ambiguità, come cartelli indicatori che, ad un bivio, segnalino sia l'una che l'altra strada.

Ed il fatto che tali indicatori siano molteplici non può servire a modificare la intrinseca incertezza di ciascuno di essi.

e. I precedenti terroristici del FIORAVANTI

Sembra alla Corte che questo tema di indagine, utilizzato dai primi giudici per rafforzare il convincimento di responsabilità del FIORAVANTI e della MAMBRO, sia alquanto fragile.

Non si vuole qui richiamare il pensiero dello stesso imputato, o di altri come il fratello Cristiano, che pure hanno costantemente ripetuto le linee di un indirizzo e di una concezione operativa che escludeva obiettivi indeterminati, perché, in ogni caso, sarebbe ingenuo attendersi dall'imputato la ammissione di una diversa, ed occulta, sua strategia.

Debbono, piuttosto, considerarsi i fatti, e cioè, le tristi gesta del FIORAVANTI, e del suo gruppo, nel tempo precedente e susseguente la strage di Bologna.

Orbene, tutte le azioni di violenza compiute in quegli anni si presentano fortemente caratterizzate dalle capacita "militari" del soggetto, dirette contro obiettivi determinati.

Così, l'attacco alla sede di Radio Città Futura, gli attentati alla centrale del latte di

 

Roma e contro Sezioni del P.S.I e del P.C. I., le uccisioni di poliziotti, in scontri diretti e particolarmente efferati, l'omicidio Leandri e quello del giudice AMATO, lo stesso omicidio del MANGIAMELI.

E' ben vero che l'accentuata indifferenza per la vita, che tutte queste azioni rivelano, non dovrebbe lasciare molto spazio a remore d'ordine morale per crimini di gravità ancora maggiore.

Ma deve riconoscersi che neppure è possibile trarre dai precedenti del FIORAVANTI segnali diretti, rivelatori di tendenze stragiste.

Ed in realtà, la stessa sentenza impugnata, stranamente, sottolinea, per avvalorare il suo assunto, la risposta del FIORAVANTI al giudice che gli chiedeva di un suo progetto di attentato in un bar frequentato da poliziotti della Questura di Roma: "non intendo rispondere a questa domanda e glielo spiego: di attentati alla polizia se ne pensano cento, ma in effetti si devono scartare tutti quelli troppo pericolosi,

come ad esempio quelli contro bar frequentati da poliziotti, frequentati anche da altre persone che sarebbero coinvolte innocentemente". (I A,

V9/a-2, C29, p44).

 

f. L'omicidio di Francesco MANGIAMELI

Giova, a questo punto, ripetere che il metodo di analisi che questa Corte si è dato, anche allo scopo di economia della trattazione, comporta la enunciazione dei significati ultimi da riconoscere, criticamente, ai vari temi di indagine ed alle successive argomentazioni del primo giudice, tenendo ferme, tutte le volte che ciò sia possibile, le componenti di fatto delle singole vicende, così come ricostruite nella sentenza impugnata.

Sono, dunque, proprio quelle componenti del fatto, che qui debbono intendersi globalmente richiamate, che conducono, secondo il giudizio della Corte, alle valutazioni conclusive circa il tema di indagine.

 

Estrema determinazione e rapidità di azione caratterizzano questa ennesima impresa criminale del FIORAVANTI.

Il movente dell'omicidio può essere letto da angolazioni diverse: ed ancora una volta, si

ripete la ambiguità di un dato indiziante.

Gravissima la collocazione che di que11'assassinio dovrebbe farsi, fermandosi alle rivelazioni di Cristano FIORAVANTI, il quale ricordando dettagliatamente le risposte date da Valerio alle sue domande, riferiva che la eliminazione del MANGIAMELI doveva essere seguita da quella della moglie e della figlia, le quali sarebbero state presenti ad una riunione, tenutasi nella loro casa di Palermo, alla presenza di un politico della Regione Sicilia, nel corso della quale Valerio si era assunto il "compito" di uccidere un politico siciliano (Mattarella), in cambio di favori che agevolassero la evasione del CONCUTELLI.

Precisava, inoltre, Cristiano che "l'azione contro le due donne non avvenne in quanto il cadavere di MANGIAMELI fu poco dopo ritrovato..." (dichiarazioni rese al P.M. di Firenze il 26.3.1986, in EA, VIO/a-3, C140 bis/4, pp. 22 ss)..

Ma la lettura dell'omicidio MANGIAMELI, proposta dalla Corte di primo grado, è un'altra.

Pur senza entrare nel merito delle

responsabilità del FIORAVANTI in ordine all'omicidio Mattarella, responsabilità da valutare in altre sedi giudiziarie, si è affermato che l'imputato avrebbe mentito al fratello nel momento in cui collegava la decisione di eliminare il MANGIAMELI a quel fatto di sangue consumatesi in Sicilia nei primi giorni del 1980.

Il tempo trascorso non spiegherebbe sufficientemente quella improvvisa decisione e la urgenza della azione.

Ed allora, secondo la sentenza impugnata, doveva necessariamente pensarsi ad altro fatto, foriero di gravissime conseguenze, nel frattempo intervenuto e scatenante l'azione dell'imputato.

Fatto individuabile nella strage di Bologna, nel coinvolgimento in essa del FIORAVANTI, nella piega che stavano prendendo le indagini, nelle allarmanti notizie ricavabili dalla intervista SPIAZZI, nella sicura identificazione del personaggio chiamato "Ciccio", e quindi, nella lucida previsione del FIORAVANTI che, proprio attraverso il MANGIAMELI, sarebbe stato possibile risalire a lui ed al suo soggiorno siciliano,

fino a pochi giorni prima della strage.

Timore, chiaramente rivelatore della cattiva coscienza del colpevole.

L'argomentazione della Corte, del tutto logica e conseguenziale, si fonda però su un dato incerto.

Da quella rinnovata attenzione sulla figura del MANGIAMELI, il quale, nella facile previsione del FIORAVANTI, una volta al centro di indagini per un fatto della gravità della strage del 2 agosto, sarebbe diventato una mina vagante, poco affidabile e incontrollabile, lui depositario di segreti tanto gravi, ed i suoi congiunti, ancora più fragili nella prevedibile stretta degli inquirenti, poteva, allo stesso modo, derivare prevedibile pericolo di coinvolgimento nell'omicidio di Piersanti Mattarella, (ed il fatto criminoso è ancora sub iudice con contestazioni in tal senso rivolte all'imputato).

La motivazione della determinazione di uccidere MANGIAMELI resta, dunque, robustamente

valida anche nel caso di un FIORAVANTI estraneo

alla strage di Bologna, soprattutto se si tiene conto della mentalità, per cosi dire, sbrigativa

del soggetto, ben intenzionato ad eliminare sul nascere ogni pericolo e non frenato da remore d'ordine morale.

 

g. La lettera anonima di VOLO

L'episodio ha perso molto della significatività attribuitegli a seguito delle nuove dichiarazioni del VOLO a questa Corte.

Il teste, ancora più oscura ed indecifrabile la sua figura, ha sostenuto che quella lettera era stata concepita e formulata da un infido collega di lavoro, il PEZZANO, desideroso di sbarazzarsi, in un sol colpo, di lui e del MANGIAMELI e restare alla guida incontrastata della scuola privata da lui diretta.

La completa inaffidabilità del teste può lasciare spazio soltanto ad ipotesi, tutte indimostrabili.

Nella sua ultima versione,, il VOLO ha voluto accreditare un'immagine, di sé e del MANGIAMELI, quali riorganizzatori del mondo della destra, nell'ambito di un vasto disegno che non intendeva affidarsi allo strumento cieco del terrorismo;

progettualità che, proprio dalle azioni violente

e di incerta provenienza che si erano succedute in quell'arco di tempo, (dall'omicidio del giudice AMATO alla strage di Bologna), era stata ostacolata e vanificata.

L'opinione della Corte è che il VOLO abbia voluto, forse soltanto per spinte caratteriali tendenti al protagonismo, tenersi al centro di eventi che in qualche modo lo avevano toccato da vicino (si pensi alla uccisione del MANGIAMELI), proponendo, di un "ambiente umano", sue impressioni ed ipotesi, piuttosto che fatti concreti e particolari significativi.

Non si vede, pertanto, quale serio contributo da questo oscuro personaggio possa trarsi per incrementare il peso degli elementi indizianti a carico del FIORAVANTI.

 

Tirando le fila della posizione dei due imputati, posizione inscindibili e da trattare unitariamente, deve dirsi che a loro carico non sussistono altri elementi di giudizio se non la loro specifica capacità criminale, comune ed eversiva, evidenziata dalla attuazione di una banda armata e dagli efferati crimini commessi,

ed il deposto dello SPARTI neppure recante una confessione stragiudiziale circa la commissione della strade, bensì, nella peggiore ipotesi, una mera allusione, larvata ed indiretta, della loro partecipazione a tale accadimento; espressa, peraltro, in un contesto di minacce che inclina a farla ritenere, anch'essa, un espediente diretto a sollecitare la fornitura di documenti falsi.

Il che, d'altra parte, rende inverosimile che

i due terroristi avessero potuto partecipare alla

clamorosa impresa sfragistica senza previamente provvedersi di falsi documenti d'identità, facendosi cogliere impreparati dall'evento, pur avendo curato altri particolari, quali 1'abbigliamento del FIORAVANTI e la colorazione dei capelli della MAMBRO.

La ambiguità e non univocità di tutti gli elementi considerati, che richiederebbero, per essere sostegno di colpevolezza, di essere letti, tutti, in uno soltanto dei significati possibili, con una scelta aprioristica non consentita, deve

portare questa Corte, in applicazione della norma di cui al n. 2 dell'art. 530 c.p.p., alla assoluzione di entrambi gli imputati, legati

indissolubilmente nella medesima vicenda, con la formula "per non aver commesso il fatto".

 

2. La posizione di Sergio PICCIAFUOCO

Volendo condensare in una sintesi per cosi dire miniaturistica gli elementi di giudizio che hanno portato alla dichiarazione di colpevolezza del PICCIAFUOCO in ordine ai delitti ascrittigli, nel ruolo di compartecipe alla esecuzione della strage, può affermarsi che tale egli è stato ritenuto perché, presente sotto falso nome alla stazione ferroviaria di Bologna al momento dello scoppio dell'ordigno esplosivo e collegato ad ambienti della destra eversiva, non era stato in grado di dar conto delle ragioni di quella presenza, fornendone spiegazioni irrazionali o inadeguate non suscettibili di verifica processuale o negativamente verificate.

Orbene, già di per sé queste esili ed esigue coordinate del giudizio probatorio ne segnalano la debolezza in mancanza di qualche dato più

stringente che ne imponga, per logica necessità, la conclusione positiva con crisma di obiettiva certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Questo èo ineliminabile sia perché ognuna delle coordinate presa a sé ha una limitata portata significativa, sia perché anche il risultato della coordinazione si presta a valutazioni critiche che destano serie perplessità di giudizio.

Infatti, indugiando ancora per poco in una considerazione macroscopica della collocazione del PICCIAFUOCO nel quadro complessivo della vicenda stragistica, prima di scendere all'analisi critica della di lui posizione, non può farsi a meno di rilevare che la specificità di questa, al di là di notazioni personologiche, è insita imprescindibilmente nel tratto di collegamento ideologico tra il soggetto e gli ambienti del terrorismo nero (dai quali si suppone partita l'iniziativa stragista) e di collegamento operativo tra lo stesso soggetto e gli altri incriminati compartecipi della strage, essendo evidente che, prescindendosi da tale specificità, né la presenza nel luogo del delitto, né il possesso di un falso documento di identificazione , - naturale per cosi dire, da parte di un pregiudicato evaso che da molti anni

viveva presumibilmente di espedienti - né il groviglio di circostanze più o meno inverosimili dedotte dal medesimo a propria difesa, potrebbero valere singolarmente e congiuntamente a fornire una prova di reità.

Ora, o proprio sui cennati aspetti di specificità della posizione dell'"enigmatica" figura del PICCIAFUOCO che si avverte la labilità della prova e segnatamente sul secondo giacché questa è del tutto carente in ordine ai rapporti intercorrenti o intercorsi con gli ideatori ed organizzatori della strage, ove questi fossero identificabili con certezza nelle persone del FACHINI, del FIORAVANTI e della MAMBRO (come ha ritenuto la sentenza impugnata con opinione che questa Corte non ha condiviso); e, a maggior ragione, se dovesse trattarsi di persone diverse da queste, ancorché della stessa area politica;

massimamente, infine, nell'ipotesi che il PICCIAFUOCO avesse agito a servizio di altri possibili committenti estranei a quell'area, mentre è da relegarsi nella sfera dell'immaginario o del pazzesco l'ipotesi che l'orrendo atto terroristico fosse stato

solitariamente da lui, ideato, preparato ed eseguito per macabro compiacimento.

Fatte queste premesse, occorre passare al vaglio critico degli elementi di giudizio che hanno convinto il primo giudice della correità del prevenuto.

La sentenza esordisce (p. 723) con l'argomentazione che se il PICCIAFUOCO si fosse trovato alla stazione ferroviaria di Bologna per un motivo diverso dalla partecipazione alla strage lo avrebbe dichiarato, anche se inconfessabile, a fronte della gravità dell'accusa a lui contestata.

L'argomento, forte in apparenza, in realtà si rivela suggestivo e comunque non decisivo.

Certamente, se l'imputato fosse venuto o si fosse trovato a Bologna per uno scopo immorale o anche criminoso di non grave peso, un naturale senso delle proporzioni gli avrebbe dovuto consigliare di rivelarlo, anche a costo di incorrere in sopportabili conseguenze penali.

Ma si faccia il caso, tutt'altro che inverosinibile, che la rivelazione avesse comportato la necessità di porre allo scoperto il

sistema di vita delinquenziale del confidente, da anni in giro come evaso per l'Italia e all'estero sotto falsa identità, l'appartenenza a gruppi di criminalità organizzata (un tatuaggio rimaneggiato ne è indice), la commissione di gravi delitti, i nominativi di associati e complici: ve ne sarebbe a sufficienza per non considerare assurda sul piano psicologico (perché è questo e non quello logico il piano su cui poggia l'argomento qui al vaglio) la scelta fatta dall'imputato di tacere o di inventare circostanze inattendibili, in base ad un bilancio, conforme alla mentalità del delinquente abituale se non professionale, tra sicuro costo di una confessione, non solo in termini punitivi, ma anche, e forse più, in termini reputativi (stigma d'infamia con connesso pericolo per l'incolumità personale) e incerto esito di un processo per un'accusa anche relativa a reati più gravi di quelli sui quali si sia preferito tacere, specie quando chi compia quel bilancio abbia avvertito la fragilità degli elementi a suo carico.

Niente poi avrebbe garantito al PICCIAFUOCO

di essere creduto se avesse rivelato il vero scopo (che si suppone illecito) della sua venuta a Bologna, a meno che egli non ne avesse fornito prove convincenti: se avesse chiamato in causa altre persone, queste si sarebbero ben guardate dal prestargli avallo; al limite avrebbe potuto sostenere di essersi trovato alla stazione per compiere borseggi, ma questo sarebbe stato considerato un "escamotage" difensivo, nell'impossibilità di particolareggiare e dimostrare la verità dell'assunto.

L'argomento in esame è dunque destinato a perdere forza nella misura in cui è discutibile la premessa e cioè che l'imputato non aveva alcuna ragione di trovarsi alla stazione al momento dello scoppio dell'ordigno: egli poteva averla, ma avere anche un qualche interesse a tenerla nascosta e del resto il medesimo ha più volte nel corso degli interrogatori scelto, in perfetto stile della sua esperienza criminosa, la strada, del mutismo, come quando si è costantemente rifiutato di fare il nome dei falsari che gli avevano confezionato documenti di identificazione, spingendosi soltanto a fare

quello di tal LORIA, naturalmente deceduto.

Peraltro l'argomento di accusa per sostenersi ha bisogno di altro argomento di rincalzo.

Esso postula infatti il disattendimento della spiegazione fornita dall'imputato della sua presenza alla stazione: soltanto se tale spiegazione dovesse considerarsi certamente o palesemente inconsistente il fatto della presenza immotivata potrebbe assumere quel significato rispetto al fatto da provare, salvo a valutarne la precisione e gravità.

Orbene, ad avviso di questa Corte, l'assunto del PICCIAFUOCO, rimasto costante dalle prime dichiarazioni rese in veste testimoniale (Vol. IX/a - 2 int.A.40) a quelle rese nel presente giudizio di appello, di essersi da Modena la mattina del 2 agosto trasferito a Bologna in taxi, per prendere ivi il treno in partenza alle ore 10.34 per Milano, avendone perduto uno precedente diretto da Modena a quella città, ove avrebbe dovuto procurarsi falsi documenti di

identificazione, essendone temporaneamente sprovvisto, potrà considerarsi poco convincente e sfornito di riscontri probatori, ma di certo non

può respingersi come intrinsecamente assurdo, o manifestamente irrazionale.

C'è innanzi tutto da chiedersi quale ragione possa aver spinto l'imputato a formulare siffatto assunto, quando, esaminato come teste, avrebbe potuto dare una meno articolata e più semplice ragione della sua presenza in stazione, quale ad esempio quella di essere disceso da un treno in arrivo per prenderne altro in partenza per Modena o quella di essere venuto da Modena a Bologna in treno per procurarsi in quest'ultima città i falsi documenti che avrebbe voluto procurarsi a Milano, o quella di essere venuto a Bologna da Modena in treno (o anche in taxi) e di essere stato nella stazione bolognese in attesa di prendere un treno su un'altra linea.

E si badi che l'imputato, sia prima (quand'era ancora latitante) che dopo l'arresto, (avvenuto prima di essere sospettato compartecipe della strage) aveva avuto tutto il tempo per imbastire una versione difensiva credibile.

Di qui nasce un'alternativa di giudizio: o la versione originariamente data presenta un nucleo di verità successivamente rivestito di elementi

confabulativi per esigenze difensive oppure quella versione è frutto di predeterminazione di una linea difensiva alla prevedibile contestazione accusatoria, ma in questa seconda eventualità diventa problematico per non dire impossibile stabilire quale funzione dovesse esplicare nell'architettura difensiva l'introduzione del costoso viaggio in taxi per raggiungere Bologna, quando come osserva la sentenza (p, 728), erano date al PICCIAFUOCO tre possibilità di raggiungerla modicamente con treni in partenza da Modena che gli avrebbero consentito di arrivare a Bologna in tempo utile per prendere l'espresso per Milano delle 10.34, senza dire, per di più, che la menzione di quel dispendioso e precipitoso viaggio in taxi, lungi dal portare qualche apprezzabile utilità di segno difensivo avrebbe potuto ritorcersi contro esso PICCIAFUOCO, dando adito negli inquirenti al sospetto che il medesimo si fosse servito del veicolo per trasportare il materiale esplosivo oppure che egli, avendo perduto il treno, fosse stato costretto a servirsi del taxi per raggiungere al più presto possibile, gli altri

compartecipi della strage alla stazione ferroviaria bolognese, senza correre il rischio, in altro modo, di mancare al presumibile appuntamento con costoro.

Qui non occorre prender partito sulla verità o non verità dell'assunto dell'imputato, ma va posto in rilievo che esso non può considerarsi con certezza destituito di fondamento, secondo la valutazione compiutane dalla sentenza impugnata, le cui argomentazioni non sono immuni da critica.

Essa coglie in mendacio l'imputato quando afferma di aver deciso di recarsi a Milano per farsi riempire dei moduli di documenti in bianco di cui era in possesso, laddove sarebbe assodato che, possedendo di già la patente di guida falsamente intestata a VAILATI Enrico nato a Roma l’11.11.1945, esibita nel mese di luglio presso l'Hotel Atlantis Bay di Taormina ove aveva soggiornato due volte, non aveva alcun bisogno di procurarsi altri documenti falsi.

Ora, anche a non credere al PICCIAFUOCO quando afferma di essere ivi stato registrato per cosi dire sulla parola (benché il titolare dell'albergo lo abbia smentito limitandosi ad

affermare l'impossibilità di una operazione del genere) resterebbe provato che il documento era in possesso dell'imputato quando fu ospite dell'albergo, ma non altrettanto il 2 agosto, giorno in cui egli nella prima dichiarazione resa il 15.5.1981 alla polizia asserì di essere sprovvisto ed in effetti quel giorno, quando fu ricoverato in Ospedale non esibì alcun documento di identificazione, né quello intestato a VAILATI Enrico (che sarebbe stato utilizzato presso il citato Hotel) è stato rinvenuto.

E non può nemmeno escludersi che, pur possedendo siffatto documento, il PICCIAFUOCO se ne volesse procurare altri (egli che viveva di espedienti e poteva aver bisogno di mutare all'occorrenza identità) non potendo utilizzare quello in suo possesso o volendolo integrare con altri (es. passaporto oltre che patente), anche a non voler pensare che egli fosse dedito ad attività falsaria, come l'aver precisato in dibattimento che lo scopo dell'andata a Milano era quello di farsi riempire dei moduli di documenti in bianco lascerebbe sospettare.

Non deve peraltro stupire che, posto nella

necessità di difendersi dopo la contestazione della grave accusa di partecipazione alla strage, l'imputato sia dovuto ricorrere a menzogne o a proporre artatamente, temi di indagine risoltisi in senso non conforme o difforme dalle sue aspettative, per accreditare l'originaria versione della sua partenza da Modena (l'aver dovuto cedere temporaneamente l'appartamento da lui occupato al proprietario presentatosi con una polacca per un convegno amoroso e l'aver dovuto dormire, al ritorno, in casa del COPPARONI o il racconto delle sue peripezie alla stazione ferroviaria bolognese come la partecipazione alle operazioni di soccorso subito dopo la strage in collaborazione con un ignoto agente di polizia) o di particolari del suo breve ricovero ospedaliero (i colloqui con una dottoressa rimasta inindetificata).

E' inutile soffermarsi su contesto diffuso campionario, puntigliosamente ammannito dal fantasioso ed esperto PICCIAFUOCO per allontanare

da sé l'accusa e meticolosamente controbattuto dalla sentenza, giacché il risultato di cotesto contrappunto processuale sul piano argomentativo

è che l'imputato non è riuscito a dimostrare la fondatezza del suo assunto, ma anche, d'altra parte, che può soltanto dubitarsi di essa, non essendo emersi obiettivi elementi che ne dimostrino l'infondatezza.

Ed invero, la possibilità che l'imputato aveva di poter raggiungere Milano direttamente da Modena con il treno espresso delle 8.37, partito in ritardo (alle 8.55) è legata all'indicazione fatta dal medesimo (a distanza di tempo) di essere giunto alla stazione modenese verso le 8.30-8.40, indicazione la cui approssimatività è evidente.

L'ulteriore possibilità a lui data di rimanere ad attendere (per più di due ore) il successivo treno in partenza alle 11.31, in arrivo a Milano alle 14.02, per avere qualche significato, esigerebbe per lo meno la certezza che il PICCIAFUOCO l'avesse valutata, prima di decidersi a raggiungere Bologna in taxi, dove sembra molto più realistico pensare che, perduto il treno che avrebbe voluto prendere e senza studiare altre possibilità di raggiungere in treno Bologna, abbia potuto adottare quella

decisione senza por tempo in mezzo e senza far questione di spesa.

Né questo dovrebbe recar meraviglia se si pensa al facile modo di procurarsi danaro da parte di persona dedita a chi sa quali attività delinquenziali per concedersi, secondo quanto è risultato, soggiorni in lussuosi alberghi bolognesi, viaggi all'estero, permanenze a Taormina e compagnie femminili di certo non gratuite.

Di questo spostamento in taxi (il cui costo indicato dal prevenuto è risultato corrispondente a quello corrente) la sentenza contesta la veridicità oltre che per l'inutile dispendiosità (nulla concedendo alla singolare psicologia del personaggio e alla di lui asserita "idiosincrasia" per l'uso del mezzo ferroviario nella sua condizione di latitante) anche per la mancata identificazione del taxista, che però non può considerarsi argomento solido e decisivo, e ciò non tanto, come la difesa del PICCIAFUOCO ha sottolineato, perché non può farsi assegnamento sulla esaustività della ricerca compiuta dalla polizia a distanza di tempo tra i taxisti

modenesi (uno dei quali era però deceduto), quanto perché, come pure è stato notato, non può aversi la certezza che se qualcuno di essi effettivamente trasportò l'imputato, fosse stato disposto ad ammetterlo vincendo timori, imbarazzi e remore non innaturali in una circostanza come questa (la strage era stata attribuita ai terroristi neri) e la stessa sentenza è costretta ad affidarsi al senso civico dei taxisti consultati, a garanzia della loro lealtà, osservando che essi non avrebbero esitato ad ammettere la prestazione sapendo con ciò di scagionare un innocente.

Il fatto è che ignorasi se l'indagine fosse stata condotta dalla polizia secondo cotesta prospettiva, e se lo scopo di essa fosse stato palesato agli interrogati, si da stimolarne il senso civico anche contro la non improbabile ritrosia a venire in aiuto di un presunto terrorista nero.

Ma se ciò in realtà non fosse avvenuto non si

può essere sicuri della disponibilità incondizionata e coraggiosa dell'interrogato ad ammettere di essere stato lui a condurre alla

stazione ferroviaria di Bologna l'autore o uno degli autori della strage.

Nemmeno può valere ad escludere che il viaggio in taxi sia stato compiuto il rilievo formulato dalla sentenza (p. 732) circa l'incostanza dell'imputato nella indicazione dell'ora in cui sarebbe giunto alla stazione ferroviaria bolognese: tra l'originaria indicazione di "circa" quindici minuti prima della partenza del treno delle 10.34 e la successiva indicazione di "verso le ore 1O", il divario è talmente sfumato da non autorizzare alcuna apprezzabile illazione.

A questo punto occorre accantonare la verifica della veridicità o meno delle versioni difensive dell'imputato, sul cui terreno ogni giudizio improntato a criteri di verosimiglianza appare controvertibile e comunque insicuro, per procedere al vaglio critico della obiettiva circostanza della presenza dell'imputato nel luogo del delitto onde stabilirne quand'anche essa si debba ritenere ingiustificata o meglio non persuasivamente giustificata, la effettiva portata indiziante di reità.

Ad avviso di questa Corte il dato è privo di una tale portata.

Il fatto della presenza è ovviamente di per sè insignificativo; la giustificazione inattendibile non lo solleva dalla sfera del sospetto; l'atteggiamento menzognero dell'imputato, dettato manifestamente da esigenze difensive anche oltranziste non può valere a trasformare il sospetto in indizio e quand'anche la trasformazione si dovesse ritenere plausibile, si tratterebbe di indizio sfornito dei caratteri

di precisione e gravità che l'art.192 c.p.p. postula per essere assunto come valido elemento di prova critica.

Peraltro, non mancano seri elementi di

giudizio contrapponi bili all'utilizzazione accusatoria del dato.

Il primo di essi è costituito dal fatto che la presenza del PICCIAFUOCO alla stazione, per essere egli stato leggermente ferito a seguito dello scoppio devastante dell'ordigno, necessariamente deve ritenersi protratta rispetto alla collocazione del medesimo e relativamente distante dal luogo dello scoppio. Ciò comporta

una serie di interrogativi, insuscettibili di una risposta sicura ed univoca.

Posto che fosse stato il PICCIAFUOCO a collocare l'ordigno occorre chiedersi perché egli fosse rimasto ad attendere che esso scoppiasse, rischiando (come avvenne) di subire danni alla propria incolumità e di essere riconosciuto come autore della collocazione o comunque di essere esposto ad accertamenti di polizia, un rischio troppo grave per potere essere assunto da un latitante privo di documenti (o in possesso di documenti falsi) contro l'innaturale, perversa curiosità di assistere anche a distanza prudenziale (che si sarebbe peraltro rivelata mal calcolata) allo scempio dell'esplosione.

Al quesito (che la sentenza non si pone, ponendosi solo l'altro, di cui si dirà del perché l'imputato ricorse rischiosamente alle cure ospedaliere) potrebbe rispondersi supponendo che egli fosse stato raggiunto dagli effetti della deflagrazione (o del conseguente crollo di strutture) mentre stava allontanandosi subito dopo aver deposto l'esplosivo nella sala d'attesa della stazione.

A sua volta questa supposizione, per apparire plausibile ne suppone altra e cioè che egli non conoscesse il congegno impiegato per l'esplosione dell'ordigno o per non essere stato lui a confezionarlo o per non esserne stato informato da chi lo aveva confezionato e glielo aveva consegnato per collocarlo nel posto stabilito:

per poco infatti che egli fosse stato al corrente dei predeterminato o prevedibile tempo dell'esplosione, non si sarebbe fatto cogliere dagli effetti di essa, in luogo limitrofo a quello della collocazione dell'ordigno.

Questa supposizione che il PICCIAFUCO avesse collocato l'ordigno alla cieca per altrui commissione o d'accordo con altri, senza previamente informarsi o essere informato del previsto o prevedibile tempo dell'esplosione, ha francamente dell'inverosimile se non dell'assurdo, se si pensa che una mancata o manchevole o anche diabolicamente falsa informazione (per far si che il collocatore fosse coinvolto dalla deflagrazione) avrebbe potuto compromettere il successo della scellerata operazione.

Per sfuggire alla rete di siffatte incongrue supposizioni bisognerebbe ritenere che, consapevole del tempo di esplosione, il PICCIAFUOCO, deposto l'ordigno, si fosse trasferito presso altro binario per prendere ivi un treno che gli avesse consentito di allontanarsi dalla stazione prima che l'ordigno fosse esploso, ma anche questa opinione non appare risolutiva giacché non spiega il fatto che egli pur potendo prendere un qualunque treno in partenza nell'intervallo di tempo tra collocazione ed esplosione non si avvalse di tale possibilità, preferendo attendere la partenza di un treno prevista per un tempo successivo a quello in ipotesi previsto per l'esplosione, una scelta, questa, peraltro palesemente incongrua, atteso che egli non poteva illudersi che il traffico ferroviario in una stazione devastata dall'esplosione (o comunque posta a soqquadro se un tale effetto devastante dovesse considerarsi superiore a quello previsto) non avesse subito interruzione o ritardi.

In conclusione, l'analisi critica del dato accusatorio della presenza in stazione del

PICCIAFUOCO al momento dell'esplosione ne rivela l'intrinseca fragilità se non addirittura una possibile contraria valenza come dato difensivo.

Per giunta, la valenza accusatoria del dato è ulteriormente svalutata dal concorso di altro dato, costituito dal fatto del breve ricovero ospedaliere dell'imputato a seguito delle leggere ferite da lui riportate.

Appare ovvio che se il ricovero avvenne per libera scelta del medesimo, la circostanza allontanerebbe dall'idea che fosse stato lui a collocare l'ordigno, atteso che in tal caso avrebbe avuto tutto l'interesse a non lasciare alcuna traccia della sua presenza alla stazione, e ad evitare contatti con organi investigativi.

Sia i giudici dell'istruzione che quelli del giudizio si sono resi conto dell'utilizzabilità in senso difensivo del dato e si sono dati cura di eliminarla con argomentazioni che però appaiono quanto meno controvertibili .

Nell'ordinanza di rinvio a giudizio si sostiene in proposito che il ricovero sarebbe avvenuto a causa del presumibile stato confusionale in cui il PICCIAFUOCO si sarebbe

trovato per essere stato investito dall'onda d'urto della esplosione e quindi non per sua libera scelta.

L'argomento non può aver presa, da un lato, perché si radica in un postulato meramente assertorio, dall'altro perché posto anche che lo stato confusionale fosse derivato dalla causa ipotizzata, dovrebbe ritenersi che esso fosse stato di tale gravità da protrarsi dal momento dell'esplosione (ore 10.25) a quello dell'accertamento sanitario (ore 11.39), mentre sta di fatto che in questa sede non fu rilevato stato di shock e dunque deve concludersi che non mancò al PICCIAFUOCO la possibilità di sottrarsi alle cure sanitarie delle modeste ferite da lui riportate.

Consapevole di coteste implicazioni la sentenza (p.734) si ingegna di superarle, ribaltando l'opinione della origine esatta o comunque inconsiderata del ricovero con quella opposta di una decisione lucidamente presa dall'imputato allo scopo di evitare di dare nell'occhio, ferito qual'era e con indosso vestiti laceri ed insanguinati, alle forze

dell'ordine che avrebbe sicuramente incontrato nel far rientro a Modena.

Questa spiegazione non è affatto convincente per più di una ragione.

Facendosi trasportare all'Ospedale in ambulanza e richiedendo ivi cure sanitarie il PICCIAFUOCO (cui la sentenza riconosce lucidità e larga esperienza di elusione di controlli in virtù della sua decennale latitanza), sarebbe sicuramente andato incontro a quegli accertamenti di polizia, che invece avrebbe potuto altrimenti evitare sulla scia di un cauto, circospetto e riservato ritorno a Modena (in taxi, in autocorriera, facendo autostop) o acquistando qualche capo di vestiario per sostituire quello insanguinato o ricorrendo all'assistenza o all'ospitalità temporanea di qualche amico bolognese come lui malavitoso.

Se poi, secondo il quadro accusatorio recepito in sentenza, egli era collegato agli ambienti della destra eversiva non gli sarebbe stato difficile trovare in quell'area cure, sostegni e protezione.

Senza dire, infine, che avrebbe potuto

contare sull'aiuto dei correi, di intesa con i quali, secondo la sentenza egli avrebbe agito, e presenti come lui alla stazione.

Non si sa come questa fosse stata raggiunta, con il pericolo e ingombrante bagaglio contenente l'esplosivo, dal PICCIAFUOCO e dagli altri, ma se il mezzo di trasporto utilizzato fosse stato un autoveicolo, il rientro a Modena con esso del prevenuto sarebbe stato indubbiamente agevole e privo degli intoppi il cui timore la sentenza ha prospettato come motivo della scelta compiuta dal PICCIAFUOCO di accodarsi alla moltitudine degli altri feriti, anziché dileguarsi.

In conclusione, deve dirsi che la circostanza esaminata dell'essersi il PICCIAFUOCO volontariamente sottoposto a cure sanitarie ospedaliere, quando, se esecutore del delitto, avrebbe avuto tutto l'interesse a dileguarsi senza lasciar traccia alcuna della sua presenza in stazione che avesse potuto portare ad una sua successiva identificazione (egli in ospedale fornì le medesime generalità che aveva fornito nell'albergo di Taormina e come VAILATI era conosciuto a Modena), giuoca un ruolo contrario o

comunque detrattivo rispetto all'assunto accusatorio, né questo può giovarsi del fatto che il PICCIAFUOCO non sia riuscito a provare che prima del ricovero ospedaliere o reduce da esso nella stazione devastata abbia collaborato con un agente di polizia all'opera di soccorso, giacché il deposto contrario dell'agente CARLUCCIO (p. 736) non esclude che si fosse potuto trattare di altro agente non identificato e quand'anche la circostanza fosse stata inventata di sana pianta dall'imputato per stornare da sé l'accusa, cotesto comportamento difensivo non può essere assunto come indizio di reità.

Peraltro, la sentenza tace di alcune circostanze processualmente emerse in cui certe affermazioni dell'imputato trovano qualche possibilità di riscontro.

Cosi dicasi della dichiarazione resa il 7.2.1981 da BONVICINI Liberio, proprietario dell'appartamento locato al PICCIAFUOCO, alla Questura di Modena secondo cui quando nel luglio 1980 aveva chiesto un documento al sedicente VAILATI, questi aveva dichiarato di non averne con sé, il che potrebbe in qualche misura rendere

credibile che egli il 2 agosto ne fosse ancora sprovvisto e mirasse, col viaggio a Milano a provvedersene.

Ancor più significativa è la circostanza emessa dal deposto di coloro (MARI Gianni e COPPARONI Gianfranco) con i quali l'imputato si trattenne la sera del 2 agosto al ristorante modenese "Da Piero": aveva la testa incerottata e quando in televisione fu trasmesso un servizio sulla strage disse di essere stato presente al sinistro e di avere contribuito a prestare soccorso alle vittime.

Peraltro in questo dibattimento rinnovato d'appello, il MARI ha convenuto, su contestazione del PICCIAFUOCO, che poteva essersi confuso quando in precedenza aveva dichiarato che l'imputato quella sera aveva affermato di essersi ferito cadendo dalla bicicletta, mentre tale affermazione era stata fatta in un precedente incontro del luglio, allorché secondo il prevenuto si era verificata la caduta.

Orbene, dalla cennata circostanza può desumersi a chiare note come 1'imputato non avesse alcuna remora a rendere nota la sua

presenza alla stazione bolognese mentre, ove egli avesse preso parte all'attentato terroristico si sarebbe ben guardato, se non dal farsi vedere in un pubblico esercizio con la testa incerottata, almeno dal dare in pasto ad altri la sua vicenda del mattino.

Né può valere il coglierlo in fallo nelle notizie fornite agli anici, per aver detto di essersi trovato al sesto (anziché al terzo) binario e di essere in viaggio per Roma a far visita ad una sorella, che gestiva colà un negozio di calzature (nel quale settore commerciale egli soleva dire di svolgere opera di rappresentante in continuo viaggiare) giacché appare ovvio che ciò fa parte della spiccata tendenza alla confabulazione della personalità del soggetto (ampiamente registrata nel corso del processo), affinata dalla lunga esperienza della latitanza e dalla correlata necessità esistenziale del mentire; né si sarebbe potuto pretendere che egli palesasse agli amici presso il quale si spacciava come ingegnere il vero scopo del suo viaggio di quell'infausto giorno (la ricerca di falsi documenti o altra attività

illecita come lascia presumere il suo recarsi continuamente a Bologna, secondo quanto ha dichiarato il MARI e gli accertati ben undici soggiorni in alberghi bolognesi anche di prima categoria.

A questo punto, stabilita la non decisività del costrutto argomentativo della sentenza basato sulla mancata individuazione, per fatto dell'imputato, della ragione della sua presenza nel luogo del delitto, occorre stabilire se il quadro indiziario (in realtà finora congetturale) acquisti consistenza probatoria in virtù delle emergenze processuali relative alla "politicizzazione" del personaggio in epoca vicina alla strage, che si sarebbe espressa in collegamenti con organizzazioni eversive di destra e in particolare con il gruppo FIORAVANTI-CAVALLINI-MANGIAMELI-VOLO. <cfr. sent. p.739 e segg.).

Va subito detto che politicizzazione e collegamenti non risultano da alcuna fonte diretta di prova, essendo frutto di alcune deduzioni di cui è necessario in primo luogo verificare l'effettiva consistenza, mentre è

certo che prima della strage ed anche successivamente fino a che non fu accertata la identità del prevenuto e con l'arresto ne cessò la latitanza, il medesimo sia sotto il suo vero nome che sotto quelli falsamente assunti (VAILATI Eraclio, VAILATI Enrico, PIERANTONI Enrico) era ignoto agli organi di polizia come appartenente a formazioni eversive o anche simpatizzante di esse.

Basta al riguardo considerare il contorto giro delle informazioni relative al PICCIAFUOCO - che confluiranno nel fascicolo a lui intestato presso il Comando della compagnia dei Carabinieri di Osimo, esaminato dal giudice istruttore (p. 740 sent.) - per rendersi conto del carattere avventizio e tralatizio delle notizie concernenti l'entrata recente del "ricercato" perché responsabile di un grave attentato "nell'organizzazione di Terza Posizione e l'essere il medesimo "abilissimo nell'uso delle armi". Queste notizie attinte da fonte

confidenziale erano pervenute al citato comando della Compagnia del Carabinieri di Ancona con rapporto che recava la data del 16/2/1981 (quando

il PICCIAFUOCO era stato già identificato ancorché non ancora arrestato) ed avevano ricevuto in parte conferma dall'Arma di Modena, ma si chiarirà poi che della "presumibile politicizzazione" del prevenuto i carabinieri di detta città erano venuti a conoscenza ad opera del COPPARONI, il quale a sua volta aveva dichiarato che tanto aveva appreso presso la Questura di Bologna e qui l'informazione si perde nel vuoto.

Per dare consistenza processuale alla fonte confidenziale anonima da cui i Carabinieri di Ancona avevano tratto le notizie sul conto del prevenuto la sentenza fa perno sul deposto di Leonardo GIOVAGNINI, direttore di un'emittente radiofonica gestita in Osimo ed utilizzata per la diffusione delle idee del movimento "Terza Posizione" (p. 745), ma appare manifesto che quel deposto è ben lontano dal certificare l'appartenenza del PICCIAFUOCO a quel movimento e la sua abilità all'uso delle armi (che peraltro è cosa diversa dall'abilità a confezionare esplosivi).

Prima di tutto il fatto che il GIOVAGNINI

abbia ammesso di essere stato confidente dei Carabinieri di Ancona non significa che la confidenza sulla politicizzazione del compaesano PICCIAFUOCO sia partita da lui.

Ma quel che più conta è che il GIOVAGNINI si è limitato a dichiarare che poteva aver fornito a detti carabinieri informazioni sul PICCIAFUOCO non diverse da quelle fornite alla Corte e cioè di averlo conosciuto e di averlo visto ad Osimo per l'ultima volta in epoca assai remota.

E d'altro canto non può immaginarsi che nel corso della sua lunga latitanza il PICCIAFUOCO si facesse vedere nel suo paese e dai suoi compaesani e per giunta tra coloro che si erano "coagulati" ideologicamente intorno all'emittente.

La conclusione giuridica è che il contenuto della confidenza riferita dai carabinieri di Ancona non è processualmente utilizzabile, perché non confermata dal presunto confidente, ne esso può essere attratto nell'orbita della prova dall'osservazione che dal teste non ci si poteva attendere più di quanto aveva detto (in sostanza nulla) data la sua posizione di imputato di reato connesso.

Meno che mai al vuoto probatorio può supplire l'intreccio di rapporti - che si afferma dimostrato - tra il PICCIAFUOCO da un lato e il FIORAVANTI, il CAVALLINI, il MANGIAMELI, il VOLO, il CIAVARDINI e il SIGNORELLI dall'altro, perché, come si dirà, anche di tali rapporti non vi è alcuna certezza, si che, in definitiva, l'argomento si appalesa viziato da una petizione di principio.

Per cominciare l'annotazione del nominativo del PICCIAFUOCO di mano del CAVALLINI nell'agenda a costui sequestrata il 12/9/1983, quando notoriamente da più di due anni il PICCIAFUOCO era stato arrestato ed era stato incriminato quale partecipe alla strgde nella qualità di appartenente all'area della destra eversiva, nel mentre non dimostra affatto l'esistenza di rapporti tra l'annotato e l'annotatore (da quest'ultimo negati) non consente neppure di conferire all'annotazione valore indicativo dell'appartenenza del PICCIAFUOCO alla predetta area.

Tale valore le si sarebbe potuto assegnare se essa fosse stata fatta prima che il medesimo

sotto il suo vero nome venisse incriminato e catturato ovvero se essa fosse stata fatta sotto i nomi da lui assunti durante la latitanza, ma la stessa sentenza la fa risalire alla fine del 1982, quando il PICCIAFUOCO era detenuto e qualificato dagli organi di polizia e giudiziari, a ragione o a torto, non terrorista nero, di tal che non vi è ragione di non credere al CAVALLINI quando afferma che quel nominativo fu da lui inserito nell'elenco non perché egli conoscesse chi lo portava, ma perché l'elenco riguardava "i detenuti di destra " e tale il PICCIAFUOCO era classificato.

Si può fare dell'ironia (p. 751) sul CAVALLINI che nel fare un censimento dei detenuti della sua area si affida ad incontrollate fonti giornalistiche, ma non è con l'ironizzare che si dimostra un assunto, specie se l'osservazione ironica si presta ad essere ribaltata: proprio perché nulla sapeva del PICCIAFUOCO, il CAVALLINI sta a quanto sulla stampa (o in ambiente carcerario) si dice di lui; se poi egli sapeva (attraverso il FIORAVANTI, il CIAVARDINI o altri) che il PICCIAFUOCO aveva partecipato alla strage,

si sarebbe ben guardato dall'inserirlo nell'elenco: né si può escludere che il versatile delinquente comune, in origine politicamente vergine e accomunato a delinquenti politici, per convenienza o esigenza di protezione e assistenza, durante la detenzione si fosse convertito realmente o apparentemente all'ideologia degli eversori di destra, si da meritare la menzione nell'elenco tenuto dal CAVALLINI.

Comunque sia, occorre concludere che cotesta menzione a un dato di significato ambiguo, affatto inidoneo a dimostrare che il PICCIAFUOCO fosse partecipe di quella banda armata, cui secondo la sentenza fu dovuta l'esecuzione dell'attentato stragista.

Su questa finora irrisolta incertezza circa la collocazione dell'imputato al tempo della strage in gruppi della destra eversiva si apre il capitolo della sentenza (p. 755 e segg.) che si potrebbe definire delle coincidenze parallele destinate a fornire la prova dell'assunto.

Ma, ad avviso di questa Corte, cosi non è.

Qui non si vuole porre in discussione il

criterio probabilistico di accertamento della verità, che è sotteso all'impiego euristico della corrispondenza più o meno puntuale di alcuni fatti (quanto a tempi, luoghi, particolarità circostanziali) per concludere in via logica con l'affermazione del loro necessario collegamento se non della loro ascrivibilità ad un'unica matrice genetica o a un comune "ceppo storico".

E' sufficiente invece rilevare come il metodo probatorio utilizzato si avvale di coincidenze tutt'altro che sicure.

La prima di esse valorizzata in sentenza, è quella relativa al possesso da parte del PICCIAFUOCO di una patente di guida apparentemente rilasciata a Roma l'8.4.1971 a VAILATI Eraclio, nato a Roma il 7/9/1944 ed ivi residente in via Gregorio VII n.133, laddove anche VOLO Alberto, personaggio legato a Francesco MANGIAMELI (ucciso dal gruppo FIORAVANTI), interno come questi a un gruppo eversivo di destra e autore identificato di un anonimo che attribuiva a sé e al MANGIAMELI l'impresa stragista bolognese, era possessore di falsa patente intestata a VAILATI Adelfio, nato a

Roma il 18/1/1945 e residente in Palermo, via della Regione Siciliana n.2204.

Secondo la sentenza le due patenti recherebbero tre dati di "sconcertante eloquenza": l'identità del cognome, la similarità e grecità del prenome (Eraclio/Adelfio) e l'identità del luogo di nascita (Roma) degli apparenti titolari.

Per vero il terzo non ha palesemente alcun significato perché la scelta della capitale come falsa indicazione di luogo nativo è fenomeno talmente diffuso che può semmai essere indice di scarsa fantasia del falsario, non certo di comune provenienza della falsificazione dei documenti in cui quel luogo sia riprodotto o comunque di collegamento dei falsi titolari.

Il secondo potrebbe averlo un significato, benché in linea soltanto congetturale, se non fosse risultato che il PICCIAFUOCO, lungi dall'aver attinto il nome Eraclio da improbabili reminiscenze mitologiche o gusto ellenistico, molto più banalmente lo ricavò dalla conoscenza che egli aveva di tal VAILATI Eraclio, come la stessa sentenza ha dovuto riconoscere.

E nemmeno si può cogliere in fallo il PICCIAFUOCO quando afferma che la scelta del falso cognome VAILATI derivò dalla opportunità di non utilizzare anche il cognome (VAILATI) dell'Eraclio, come sulle prime avrebbe voluto fare, preferendo apportare ad esso la variazione della "l" in "i".

Se dunque il falso documento del PICCIAFUOCO ha una storia ben definita circa le indicazioni in esso iscritte, il parallelismo con quello altrettanto falso del VOLO (quanto all'uso in questo del medesimo cognome VAILATI e di un prenome grecizzante) non ha più ragion d'essere per la individuazione di un legame tra i due falsi intestatari.

Né peraltro si può affermare che quello del VOLO sia "paradigmato" su quello del PICCIAFUOCO (cioè, se si è bene intesa l'espressione che si legge in sentenza che il primo sia stato formato su modello schema del secondo).

A "coi est a affermazione è agevole opporre che se a formare la falsa patente (nel 1976) fu il VOLO (o altri su sue indicazioni) non si comprenderebbe lo scopo che lo avrebbe spinto a

utilizzare lo stesso falso cognome utilizzato dal PICCIAFUOCO (da ritenersi in tesi a lui noto) e un prenome accomunabile per vezzo ellenizzante a quello utilizzato dal PICCIAFUOCO, così ricorrendo ad un mimetismio inutile quanto rischioso (per il pericolo che investigazioni sulla patente dell'uno potessero estendersi a quella dell'altro).

Molto più realistica e verosimile appare la versione esplicativa del VOLO, sostanzialmente rimasta costante nel processo, dell'avere scelto il nome VAILATI Adelfio come variante di quello proprio dettato sia da esigenze di contraffazione del nominativo cui la patente era intestata, sia da ricordi letterari e calcistici.

Ma anche a non credergli per le ragioni su cui la sentenza si diffonde ed a ritenere invece che sia il documento del PICCIAFUOCO, sia quello del VOLO, benché a distanza di anni, provengano da un medesimo falsario mentalmente legato a stereotipi (luogo di nascita a Roma del falso intestatario, cognome VAILATI - tra l'altro diffusissimo nel cremasco e portato da un noto giornalista televisivo esperto di servizi

subacquei - prenome insolito grecizzante per evitare il più possibile generalità corrispondenti a persone reali), l'unica conclusione che se ne potrebbe logicamente trarre è che entrambi avessero fatto capo allo stesso falsario, ma ciò non può valere né a inferirne che i due fossero in rapporti tra loro, né che fossero ideologicamente orientali nella medesima direzione e tanto meno che il falsario (MANGIAMELI o chi per lui) fosse uomo della stessa area ideologica, quando in questo stesso processo da più emergenze si apprende che anche eversori di destra per le occorrenze di falsificazione non si peritavano di ricorrere ad elementi esterni o della malavita comune (eloquente il caso di FIORAVANTI-SPARTI-De Vecchi).

Che poi, sia il PICCIAFUOCO che il VOLO, non abbiano voluto fornire indicazioni sulla provenienza dei rispettivi falsi documenti

inducendosi a fare al riguardo dichiarazioni

inattendibili o mendaci non può necessariamente ascriversi all'esigenza di nascondere un loro pregresso collegamento o sodalizio inducibile

dall'identificazione dell'autore dei falsi e dall'appartenenza di esso all'ambiente della destra eversiva, ben potendo il loro riserbo essere motivato dal più pressante interesse a non comportarsi come delatori, con tutte le ovvie conseguenze.

Certo è che, come risulta dalla dichiarazione di Antonio SMEDILE, citata in sentenza (f. 760), se non fu questi a fornire documenti falsi al PICCIAFUOCO, ne ebbe da lui richiesta e ciò per lo meno dimostra che quando la richiesta fu fatta, il PICCIAFUOCO non militava in un'organizzazione politica clandestina nel cui ambito gli sarebbe stato facile ottenere quanto cercava.

Così stando le cose, non può che concludersi che tutto il ragionamento svolto in sentenza sulla base della parziale coincidenza dei dati delle false patenti per approdare al convincimento dell'avvenuta politicizzazione del latitante PICCIAFUOCO con ingresso nell'area di "Terza Posizione" in cui militavano il MANGIAMELI e il VOLO, corre sul filo dei sospetti e non su quello della prova indiziaria.

Più stringente è l'altra coincidenza, pure considerata dalla sentenza (p. 764) fortemente indiziante, dell'appartenenza del PICCIAFUOCO a gruppi della destra eversiva, costituita dall’essere egli stato in possesso di passaporto falsamente intestato a PIERANTONI Enrico, recante lo stesso numero (E 213730) di quello rilasciato nel 1978 dalla Questura di Roma a Riccardo BRUGIA, incriminato di partecipazione a banda armata NAR e di aver favorito il compartecipe Alessandro ALIBRANDI che era clandestinamente espatriato in Libano con falso passaporto recante le generalità del BRUGIA e lo stesso numero del passaporto genuino del medesimo.

Indubbiamente la coincidenza fa pensare più all'esistenza di un nesso tra documento genuino e documento falsificato che ad una fortuita indicazione in essi dello steso numero, ma, assunta questa notazione come punto di partenza, occorre verificare se l'illazione trattasse dalla sentenza sia l'unica possibile e perciò assistita da rigore logico.

Non è detto infatti che l'identità numerica dei due passaporti stia necessariamente a

significare che il PICCIAFUOCO abbia ricevuto dal BRUGIA (che ha negato di conoscerlo) il passaporto contraffatto, supponendosi peraltro che fosse stato questi l'autore della contraffazione (sulla base di quanto dichiarato dal pentito Mauro ANSALDI nel 1987 in altro procedimento penale, dopo il rinvio a giudizio del PICCIAFUOCO) o l'abbia ricevuto da altri militanti in Terza Posizione (NISTRI e PETRONE) con i quali il BRUGIA (secondo l'ANSALDI) avrebbe detenuto attrezzature per falsificare documenti.

Per una cognizione più articolata di quanto si ricava dalla sentenza a proposito di questo passaporto occorre risalire al processo verbale dell'udienza del 28/1/1988 del giudizio di primo grado allorché furono mosse contestazioni al PICCIAFUOCO in ordine al documento e in quella sede si chiarì che il passaporto era stato falsamente confezionato, come supporto cartaceo già contenente il numero di serie; ma emerse anche che da Vienna (dove il PICCIAFUOCO soleva

recarsi) era giunto per via postale in Italia un pacco contenente, tra l'altro (documenti rubati a cittadini stranieri a Roma) sei falsi passaporti,

due dei quali portavano lo stesso numero di serie del passaporto genuino del BRUGIA e due altri lo stesso numero del passaporto del Luciano PETRONE.

Il PICCIAFUOCO dichiarò di nulla sapere al riguardo di questi altri passaporti, affermò di aver avuto il proprio a Roma tra il 1974 e il 1975 privo di timbro a secco e di generalità, di aver fatto apporre il timbro a secco a Milano e di aver manoscritto le immaginarie generalità del PIERANTONI con qualche errore agli inizi del 1981, non potendo più utilizzare, dopo la scoperta della sua vera identità i nomi di VAILATI Eraclio e VAILATI Enrico;

nell'interrogatorio reso all'udienza del 13/4/1987 precisò che sia i documenti (passaporto, carta d'identità e patente) al nome di VAILATI Eraclio, sia quelli sequestratigli al valico di Tarvisio all'atto del suo arresto (anche qui passaporto, carta d'identità e patente) li aveva ricevuti a Roma, i primi già compilati, i secondi in bianco, nello stesso periodo (p. 11 verbale), questi ultimi erano stati riempiti quando ne aveva avuto bisogno, ed all'uopo si era recato a Milano (come voleva fare

il giorno della strage il 2/8/1980), escludeva di aver richiesto documenti falsi dopo tale data.

Indubbiamente il PICCIAFUOCO ha mentito sull'epoca in cui avrebbe ricevuto i falsi documenti intestati al Pierantoni sequestratigli nell'aprile 1981 a Tarvisio giacché come ha notato la sentenza (p. 769) uno di essi era costituito dalla carta d'identità contraffatta su supporto facente parte di quelli in bianco sottratti al Comune di Roma il 9/2/1981 ed è perciò da ritenere che egli si sia fornito anche del passaporto e della patente di guida nello stesso torno di tempo, tanto più in quanto nel 1974, o 1975 non era stato ancora rilasciato al BRUGIA il passaporto numericamente corrispondente a quello falsificato (ciò avverrà nel 1978).

Ma, fatte queste premesse, l'unica conclusione attendibile che se ne può trarre è che in quel torno di tempo (febbraio 1981) corrispondente all'epoca in cui, a seguito delle notizie fornite dalla stampa circa l'avvenuta identificazione nel PICCIAFUOCO di quel misterioso VAILATI intorno al quale s'investigava quale possibile partecipe alla strage) il

medesimo allontanatosi da Modena con l'autovettura del COPPARONI (poi abbandonata a Loreto), dovette provvedersi di nuovi falsi documenti nel mondo romano dei falsari, tra i quali è difficile stabilire una netta demarcazione tra quelli di comune malavita e quelli di delinquenza politica, data la nota reciproca assistenza che essi usavano prestarsi nelle attività criminose di autofinanziamento.

E che in questo mondo circolassero documenti falsi anche omogenei risulta dal rinvenimento a Roma di quelli provenienti da Vienna.

Può anche darsi in alternativa che egli abbia fatto capo direttamente all'organizzazione politica clandestina che gestiva la produzione e la diffusione dei passaporti falsi recanti la stampigliatura di numeri di serie "puliti" cioè corrispondenti ai numeri di passaporti genuini rilasciati a persone non schedate da organi di polizia (come a quel tempo il BRUGIA), ma in questo caso il significato di un tal fatto va ridimensionato.

Esso non può valere ad indicare l'avvenuta "politicizzazione" del PICCIAFUOCO prima

dell'evento stragistico, ma semmai successivamente ad esso, quando egli veniva indicato (gennaio 1981) come possibile autore del delitto, ascritto fin dalle prime fasi del processo ad eversori di destra, nel campo dei quali egli dunque era naturalmente portato a invocare solidarietà, aver titolo per ricevere assistenza, spinto dal bisogno impellente di farsi una nuova identità per sottrarsi alle ricerche.

Certo è che l'imputato non aveva i documenti intestati al PIERANTONI prima del 2 agosto 1980, giacché altrimenti ne avrebbe fatto uso per accedere durante il luglio all'albergo di Taormina e all'atto del ricovero ospedaliero il giorno della strage si sarebbe qualificato come PIERANTONI e non come VAILATI.

Se pertanto la di lui politicizzazione debba considerarsi postuma (tanto da meritarsi la menzione nell'agenda del CAVALLINI posteriormente alla detenzione, mentre nessuno dei numerosi pentiti ha mostrato di conoscerlo come interno ai gruppi eversivi né sotto il suo nome vero, né sotto quelli di VAILATI o PIERANTONI) è da

concludere che la circostanza non ha più peso per essere assunta come indizio della di lui partecipazione alla banda annata del FIORAVANTI (peraltro distante se non confliggente col gruppo di Terza Posizione) e, come interno a tale banda, alla esecuzione della strage.

Né le incoerenze e le menzogne dell'imputato, volte a negare ogni rapporto con gruppi eversivi, anche in ordine alla fornitura dei documenti falsi, possono valere come argomento per convincersi del contrario, posto che esse costituiscono chiaramente uno strumento radicale benché rozzo e malaccorto di difesa tendente a nulla concedere ai rilievi accusatori.

A questo punto, messa da parte la circostanza, pure valorizzata dall'accusa, del tatuaggio portato dal PICCIAFUOCO in sovrapposizione ad altro richiamante l'emblema della Rosa dei Venti, giacché la stessa sentenza per la sua fragilità, l'ha ritenuta inutilizzabile come indice di appartenenza a formazioni eversive, resta da valutare un'ultima "coincidenza" cui pure si è fatto riferimento in senso accusatorio nella discussione

dibattimentale: il fatto che il FIORAVANTI (Valerio) e la MAMBRO nel mese di luglio 1980 erano a Palermo ospiti del MANGIAMELI mentre il PICCIAFUOCO trovavasi a Taormina e tutti e tre erano secondo l'accusa presenti alla stazione ferroviaria di Bologna il giorno della strage.

Orbene la portata indiziante di questo fatto è legata fondamentalmente al terzo punto di coincidenza, che è invece tutt'altro che sicuro per quanto si è già detto nel trattare della posizione del FIORAVANTI e della MAMBRO, essendo evidente che in mancanza di certezza sulla compresenza di costoro alla stazione ferroviaria di Bologna la presenza del solo PICCIAFUOCO perde di per sé ogni valenza indiziaria e tale valenza non le può ovviamente derivare dal semplice fatto che in un mese estivo, il vagabondo e gaudente latitante malfattore (come egli stesso si è descritto nei suoi interrogatori) abbia per due volte soggiornato in un luogo di villeggiatura della costa orientale della Sicilia quale Taormina, mentre a Palermo, dall'altra parte dell'isola, MANGIAMELI si intratteneva con i due terroristi per scopi non chiari (se si esclude

quello dichiarato dal FIORAVANTI di organizzare l’evasione del terrorista CONCUTELLI).

Ma anche se si fosse raggiunta certezza sulla presenza dei due terroristi alla stazione ferroviaria di Bologna, non si comprende quale ruolo avesse dovuto esplicare ivi il PICCIAFUOCO, che non avessero potuto svolgere direttamente gli altri due o persone del loro agguerritissimo ed autosufficiente gruppo (ad esempio i "ragazzini" di cui si parlò in un comunicato di Terza Posizione) senza la necessità di far ricorso ad un elemento che si dovrebbe ritenere appositamente reclutato per collocare l'ordigno ed estraneo a quel gruppo (nemmeno il pentito Cristiano FIORAVANTI ha mai parlato dell'appartenenza ad esso del PICCIAFUOCO sotto il suo vero nome o sotto quelli falsi di VAILATI o Pierantoni).

Ed è quanto mal problematico che la scelta cadesse su persona come il PICCIAFUOCO ricercata dalla Polizia, di non comprovata fede eversiva e capacità terroristica, ingaggiata appositamente e ali'ultim'ora (in ipotesi nel luglio durante il periodo del comune soggiorno in Sicilia, auspice,

sempre in ipotesi il MANGIAMELI) per compiere un'impresa di tanto clamorosa ed imponente portata, stabilendo con il raccattato ed insicuro mercenario (che avrebbe potuto essere anche un infiltrato o un agente provocatore) una complicità a non dir altro imprudente, per i comportamenti ricattatori o delatori che quegli avrebbe potuto successivamente porre in essere.

Né circa i ruoli operativi del PICCIAFUOCO da un lato e del FIORAVANTI e della MAMBRO dall'altro, appare convincente l'opinione espressa in sentenza secondo cui questi ultimi avrebbero fatto da "copertura" al primo.

Non si comprende di quale azione di sostegno o di protezione o di ausilio il PICCIAFUOCO avesse avuto bisogno per collocare un bagaglio in una sala d'attesa per viaggiatori di un'affollata stazione ferroviaria e per confondersi subito dopo nella folla.

E se poi i due complici (vestito da tedesco l'uno e con i capelli imbionditi l'altra) dovevano stargli vicino per esplicare l'ipotetica opera di copertura, tanto valeva che essi avessero operato da sé e da soli, senza stabilire

con l'altro una non necessaria quanto rischiosa complicità. Né può trascurarsi di notare infine che se l'uccisione nel settembre 1980 del MANGIAMELI da parte del FIORAVANTI e della MAMBRO fosse stata per davvero motivata, come pure si è supposto, dall'interesse di sopprimere un complice imbarazzante dell'impresa stragista, dopo la diffusione dell'intervista dello SPIAZZI sull'opera di aggregazione che prima dell'attentato andava svolgendo il "Ciccio" negli ambienti della destra eversiva romana, a maggior ragione la stessa sorte sarebbe dovuta toccare al PICCIAFUOCO, uomo tanto meno rassicurante dell'altro presunto complice soppresso, e che per giunta aveva lasciato una traccia della sua presenza in stazione, che aveva portato alla sua identificazione.

Qui si può fermare la rassegna critica degli elementi di giudizio che hanno portato all'affermazione della responsabilità del PICCIAFUOCO in ordine ai delitti ascrittigli.

Si è visto come nessuno di essi ha consistenza di prova diretta di reità e come anche i fatti considerati indizianti non

raggiungono quel livello di certezza storica e/o di precisa e grave significatività, richiesto dall'art.192 secondo comma c.p.p., per l'integrazione in via eccezionale della prova indiziaria.

Né può ritenersi che l'esistenza dei fatti da provare risulti certi in virtù di concordanza degli elementi di giudizio passati in rassegna, giacché, a prescindere dalla singola intrinseca consistenza di essi (di sospetto, di congettura, di deduzione o d'indizio vero e proprio) il quadro complessivo derivante dalla loro concordanza e cioè non giustificata presenza sul luogo del delitto del PICCIAFUOCO anche se effettivamente politicizzato in direzione della destra eversiva dai cui ambienti si suppone partita l'iniziativa stragista, sul piano logico e cioè per via di una "retroduzione" necessaria del giudizio storico dai fatti noti a quelli ignoti, con grado di probabilità escludente ogni ragionevole dubbio, non è idoneo ad assicurare la

veridicità degli assunti accusatori.

Tutt'al più quel quadro non necessariamente concludente per la responsabilità dell'imputato

avrebbe potuto secondo la previgente regola di giudizio di cui all'art.479, terzo comma, c.p.p./1930, condurre all'assoluzione del medesimo con formula dubitativa.

La sentenza impugnata va pertanto riformata e l'imputato va assolto dai reati ascrittigli per non aver commesso il fatto.

La misura cautelare applicata col provvedimento di scarcerazione per decorso del termine massimo di custodia cautelare in carcere, va revocata.

 

3. La posizione di Massimiliano FACHINI

Si è già detto della impossibilità, sul piano della prova, di attirare anche il FACHINI all'interno di quel ristretto gruppo di fuoco guidato dal FIORAVANTI.

Di conseguenza, molto del materiale istruttorie utilizzato dai primi giudici per trarre convincimento in ordine alla partecipazione anche del FACHINI alla strage di Bologna perde il suo peso indiziante e l'imputato, non strettamente legato sul piano operativo al FIORAVANTI, si allontana dal quadro

delle ipotesi accusatorie.

La sentenza si è a lungo occupata del ruolo del FACHINI nella destra padovana e dei suoi rapporti con Roberto RINANI.

Ma le conclusioni alle quali è lecito pervenire non sono direttamente utilizzabili per la soluzione del problema centrale di questo processo.

Si è già detto, infatti, che FACHINI è personaggio maturato nel mondo della destra, che ha attraversato esperienze di forte intensità sin dalla fine degli anni sessanta, quelli del terrorismo nascente, culminati con la strage di Piazza Fontana.

Di lui parlano tanti, delle sue capacità organizzative, dei suoi progetti, anche del suo stile di vita.

Notizie che si susseguono negli anni, che non sempre servono a delineare sue precise responsabilità penali ma che, tuttavia, restituiscono una immagine di attivista a tempo pieno, pronto anche all'azione e con capacità "dirigenziali".

Non vi è dubbio che nel veneto, intorno alla

sua figura, si muoveva un ambiente umano ben caratterizzato e che le vicende della società italiana di quegli anni erano oggetto di analisi, di progetti ed anche di interventi operativi di tipo terroristico da parte di quel gruppo, a sua volta, parte di un più vasto movimento sovversivo.

Dice il vero VETTORE se dalle sue parole deve ricavarci un contatto, anche operativo, tra il FACHINI ed il RINANI ed il progetto di attività terroristiche che circolava nell'ambiente.

Ma si è pure più volte osservato che tutto questo non è che il fondale di uno scenario sul quale dovrebbero poi collocarsi i personaggi e le azioni.

Altro tema di indagine dal quale i primi giudici hanno tratto elementi per riconoscere una diretta partecipazione del FACHINI alla tremenda strage del 2 agosto è quello che si riferisce all'esplosivo ed alla larga disponibilità che ne avrebbe avuto l'imputato.

La miscela adoperata per consumare la strage conteneva sicuramente il componente denominato T4.

Le osservazioni tecniche della nuova perizia disposta da questa Corte, accuratamente e correttamente basate su rilievi ed accertamenti compiuti secondo i canoni delle migliori cognizioni scientifiche, non lasciano dubbi circa la utilizzazione di quel costituente nella carica esplosiva.

Si è pure accertato che la presenza del T4 è conseguente all'impiego di tritolo da recupero, proveniente, cioè, dallo sconfezionamento di cariche di esplosivo, e precisamente, di munizionamento militare.

La sentenza impugnata ha ritenuto che anche da tali accertamenti d'ordine tecnico dovesse ricavarsi un segnale indicatore nella direzione del FACHINI.

E ciò perché molti (vedi CALORE e NAPOLI) avevano più volte riferito che il T4 utilizzato in più occasioni dinamitarde aveva provenienza dal Veneto e, segnatamente, da Massimiliano FACHINI.

Per tutti, possono ricordarsi le esplicite affermazioni del CALORE, nel corso dell'udienza del 9.12.1987, nel dibattimento di primo grado:

"FACHINI riferiva che questo (il T4) proveniva da recuperi fatti da materiale bellico in un laghetto venato, e poi c'era dell'altro esplosivo..."

Ed ancora: "... l'esplosivo di FACHINI comprendeva oltre quello a forma di parmigiano, l'ANFO e delle pizzette di T4 da usare come innesco per gli esplosivi più sordi..."

Dello stesso contenuto, le affermazioni dell’ALEANDRI.

Quanto, poi, al NAPOLI, confermava di aver sentito dal MELIOLI il discorso del laghetto veneto e degli esplosivi in esso recuperati.

Non ritiene la Corte di dover sciogliere ogni dubbio circa la deposizione di quest'ultimo teste, (il NAPOLI), in alcune parti forse eccessivamente "informata".

Deve, piuttosto, la Corte proporsi la domanda ultima: se, cioè, la prova piena e convincente della possibile utilizzazione da parte del FACHINI di esplosivo di provenienza bellica, recuperato dal lago di Garda, serva ad avvicinare significativamente l'imputato all'area dell'attentato di Bologna.

Indubbiamente, il percorso fatto dai primi giudici ha utilizzato passaggi successivi che rendono di grande significato il tema dell'esplosivo.

Ma è altrettanto evidente che quello stesso tema perde vigore se innestato nel quadro sin qui delineato, all'interno del quale si sono perduti alcuni dei passaggi motivazionali, e in particolare, l'inserimento operativo del FACHINI in una banda armata romano-veneta.

Il complesso degli elementi di prova raccolti appare idoneo all'accertamento di un dato:

FACHINI, ed il suo gruppo, disponeva anche di quantitativi di T4, tipo di esplosivo rinvenuto nella miscela adoperata alla Stazione.

Gli accertamenti tecnici, ripetuti anche nel corso della istruttoria dibattimentale del presente processo di appello, non hanno, però, potuto dare risposta certa al quesito decisivo:

se, cioè, il T4 immesso nella miscela di Bologna provenisse da quantitativi in possesso del FACHINI o, comunque, dall'esplosivo ritrovato sul fondo del Lago di Garda, luogo indicato come di reperimento di munizionamento vario da parte di

quel gruppo eversivo.

Si tratta, innanzitutto, di una impossibilità tecnica di accertamento.

E' questa la ragione che induce la Corte a non soffermarsi ulteriormente nella analisi di tutti i dati di prova che i primi giudici hanno ritenuto validi per affermare la sicura disponibilità da parte del FACHINI di quel tipo di esplosivo, raggiungendo conclusioni che, nel loro complesso, possono essere pienamente condivise in relazione al dato ultimo accertato.

E tuttavia, da quella disponibilità, certa, non è dato collegare, con altrettanta certezza, il T4 di cui disponeva l'imputato alla miscela preparata per la strage della stazione.

I periti hanno potuto risalire, con indagine puramente "qualitativa" alla individuazione dei componenti la miscela adoperata a Bologna ma non ne hanno potuto stabilire la provenienza, attraverso analisi quantitativa, dal momento che la miscela esplosa ha lasciato soltanto tracce

del vari componenti e non già i componenti stessi, dispersi perché combusti nella esplosione.

Non si tratta, dunque, di un passaggio obbligato e ineludibile, ben potendo il T4 adoperato alla stazione avere avuto una diversa provenienza.

 

L'episodio dell’"avvertimento" del FACHINI alla COGOLLI

La logica della valorizzazione successiva di elementi che trovano forza indiziante nello stesso fatto di essere valutati dopo altri ed essere posti in necessario collegamento con questi, ha portato i giudici di primo grado ad utilizzare anche l'episodio "dell'avvertimento del FACHINI alla COGOLLI", noto attraverso il racconto che quest'ultima ne avrebbe fatto all'ANSALDI: Massimiliano FACHINI, in epoca prossima alla strage, l'aveva amichevolmente avvertita che stava per accadere "qualcosa di grosso" e che sarebbe stato meglio lasciare Bologna per evitare noie.

Si è a lungo discusso sulla veridicità della testimonianza dell' ANSALDI, avendo la COGOLLI negato sia l'episodio, sia, ovviamente, di averne mai fatto parola all'ANSALDI.

Ma questa Corte, lasciando da parte le analitiche e sottili argomentazioni che dovrebbero convincere della veridicità dell'episodio, deve, ancora una volta, ribadire il concetto più volte espresso: nel nuovo percorso analitico che delle risultanze di causa si è andato sin qui sviluppando, anche l'episodio dell'avvertimento alla COGOLLI cade in tutt'altro contesto, rispetto a quello che si delineava ai primi giudici.

L'avvertimento alla amica, in altri termini, non proviene più da un FACHINI già gravato da forti elementi indizianti e da una accertata responsabilità nella formazione di una banda armata concertata con FIORAVANTI e gli altri.

Quelle parole, se dette da un simile soggetto avrebbero avuto, come, in realtà, hanno avuto, per i primi giudici, un evidente significato indiziante.

Ma una tale valenza è in gran parte perduta nella ricostruzione critica proposta da questa

Corte che non ha potuto riconoscere con la necessaria certezza quei legami, progettuali ed operativi, del FACHINI con altri soggetti

imputati anch'essi della strage e che non ha ritenuto stringente l'argomento della disponibilità di esplosivo.

Dunque, l’"avvertimento alla COGOLLI" può essere interpretato anch'esso come un episodio al quale soltanto la logica che nasce "a posteriori", da una lettura volutamente collegata ed unificante di avvenimenti disparati, può assegnare una precisa sfera di significatività indiziante; trovando, al contrario, origine e spiegazione in mille altri modi, quanti la realtà può suggerire.

Ed è pure doveroso aggiungere la considerazione della interposizione valutativa del destinatario di quell'avvertimento, la COGOLLI, la quale avrebbe potuto rielaborare l'episodio avvenuto in contesti diversi (il senso di una frase può mutare anche modificando l'ordine nella successione delle parole che la compongono) e poi, con leggerezza, utilizzare e riferire l'episodio per avvalorare sospetti, in

seguito insorti, o per diffondere sospetti (ed una avversione politica della donna nei confronti del FACHINI, rappresentante della vecchia ed

odiata destra, maturata già prima della strage di Bologna, anche i primi giudici l'hanno ritenuta possibile).

E' facile immaginare la stabilità di un edificio costruito su fondamenta tanto più fragili quando si consideri la impossibilità di una verifica puntuale dell'intero episodio che è stato negato da colei che ne sarebbe stata protagonista.

Un'ultima osservazione la Corte ritiene di poter fare: grossi dubbi si imporrebbero comunque se dovesse attribuirsi a quel FACHINI, da più parti descritto come un maniaco della riservatezza, la leggerezza, ed anzi, la sconsideratezza, per una comunicazione, fatta peraltro a persona certamente estranea ai più ristretti vertici di un'organizzazione;

comunicazione che, in seguito, chiunque avrebbe potuto porre in relazione ad un fatto della gravità della strage di Bologna e, soprattutto, ad una sua (del FACHINI ) personale responsabilità.

Ed allora, seguendo i più affidabili percorsi della ragionevolezza, quell'episodio, se

realmente accaduto, potrebbe risolversi addirittura in favore dell'imputato che, non partecipe della organizzazione della straordinaria operazione terroristica, ne avrebbe potuto cogliere qualche indistinta avvisaglia, che gli avrebbe consigliato prudenza e circospezione, (tipiche del suo comportamento), da trasmettere (questa sì) anche agli amici.

Non resta, per tutto quanto si è detto a proposito di questo imputato, che riformare la sentenza dei primi giudici pervenendo ad assoluzione con formula piena dal delitto di strage e dal reati a questo connessi.

 

4. La assoluzione del RINANI

Anche l'assoluzione con la formula del dubbio del RINANI dal delitto di strage, deve tradursi in assoluzione con formula piena, e non soltanto a causa della innovazione del nuovo codice di rito circa le formule di assoluzione (art.530 n.2 c.p.p.).

Figura, processualmente e probatoriamente, legata a quella del FACHINI, la sua assoluzione dal delitto di banda armata contestato, e da

tutti i reati connessi, e la mancanza di ulteriori elementi indizianti in relazione al delitto di strage, ne impone la assoluzione con la medesima formula.

Restano, infatti, le ragioni di perplessità espresse dalla sentenza impugnata nei confronti del deposto del teste RIZZO Giuseppe, che questa Corte condivide e che l'appellante Avvocatura dello Stato nei suoi motivi considera genericamente non convincenti.

 

5. La assoluzione del SIGNORELLI

Le argomentazioni d'accusa sostenute con i motivi di impugnazione dal Procuratore Generale e dal Procuratore della Repubblica, con riferimento a questo imputato, per il delitto di strage, sono quelle stesse utilizzate dai primi giudici anche per il delitto di banda armata, e già giudicate insufficienti, nell'un caso e nell'altro.

In realtà, per il SIGNORELLI, hanno avuto peso indiziante le sue molteplici esperienze di ideologo e di attivista all'interno della eversione della destra neofascista.

Il lungo percorso seguito dalla requisitoria

del P.G. è sicuramente servito a delineare ed a mettere a fuoco l'immagine dell'onnipresente professore, in posizione centrale rispetto a fenomeni di abrogazione che si andavano sviluppando in anni di intenso attivismo eversivo, motivato da prospettive, spesso confuse, di un nuovo assetto costituzionale e sociale.

Al SIGNORELLI si è accreditata anche l'idea di una riedizione della strategia della tensione, attraverso l'utilizzo strumentale dei "ragazzini".

Ma la collocazione, ideologica ed operativa, dell'uomo, che pure potrebbe dirsi sufficientemente accertata, non può bastare a riferirgli, in maniera diretta e con le modalità tecnicamente rilevanti sotto il profilo della responsabilità penale, condotte concludenti ed incidenti con riferimento alla ideazione e consumazione della strage del 2 agosto.

Si è già detto della impossibilità di collocare anche il SIGNORELLI nell'ambito della banda armata del FIORAVANTI; la mancanza, inoltre, di qualsiasi prova in ordine alle

precise e concrete circostanze attraverso le quali si sarebbe manifestato e realizzato il ruolo di "dominus" dell'imputato nei confronti del più giovane amico, ed il suo potere di mandato per il delitto di strage, lascia la figura del SIGNORELLI distaccata, al momento decisivo dell'azione, da quella del FIORAVANTI e del suo gruppo.

E non è possibile, se non con un ardito passaggio immaginativo, colmare il vuoto di eventi soltanto con la teorizzazione di un ruolo e di un personaggio.

Da tutto ciò deve necessariamente ricavarsi che, al di là del mutamento della formula di assoluzione, che il nuovo codice di rito non consente sia dubitativa, quella insufficienza della prova riconosciuta dai primi giudici, debba trasformarsi nel riconoscimento della mancanza della prova.

7. Le conclusioni

La incertezza che copre ogni aspetto della ricostruzione d'accusa non ha trovato punti di apertura che lasciassero intravedere con chiarezza elementi, dai quali poi risalire a

conferme complessive, o a smentite, altrettanto piene.

E' questo l'effetto di una certa circolarità della ipotesi accusatoria, la quale muovendo dall'idea della associazione, dovrebbe passare attraverso lo strumento operativo della banda armata, per giungere, quindi, alla strage; atto terroristico coperto, poi, dal depistaggio, anch'esso "associativo".

Il cerchio, in tal modo, si chiuderebbe.

Si tratta, evidentemente, di una costruzione che non può sostenersi se non su tutti i pilastri indicati ed il cedimento anche di uno solo di essi porta a sconvolgere e ad indubbiare l'intero complesso.

 

Nei confronti di FIORAVANTI Valerio, MAMBRO Francesca, CAVALLINI Gilberto e GIULIANI Egidio, in conseguenza delle statuizioni assolutorie di cui sopra, la pena, in ordine al delitto di concorso in banda armata, in dipendenza della

perdita di un elemento fortemente caratterizzante la banda stessa, sotto il profilo della gravità e della pericolosità, (e cioè la consumazione della

strage), deve essere congruamente ridotta e può essere rideterminata, tenuto conto dei criteri tutti fissati nell'art. 133 c.p., come segue:

a) FIORAVANTI Valerio, anni tredici di reclusione;

b) MAMBRO Francesca, anni dodici di reclusione;

c) CAVALLINI Gilberto, anni undici di reclusione;

d) GIULIANI Gilberto, anni otto di reclusione.

Per quest'ultimo la richiesta di concessione di attenuanti generiche va respinta, tenuto conto della gravità del fatto e dell'elevato tenore della capacità a delinquere del soggetto, dedito a imprese criminose di vasta portata - e componente particolarmente qualificato della banda armala in ragione del contributo in armamento e logistico ad essa apportato.

Il FIORAVANTI, la MAMBRO, il CAVALLINI ed il GIULIANI, in solido tra loro, vanno condannati al

risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri,

limitatamente al delitto di banda armata;

nonché' alla rifusione delle spese sostenute da detta parte civile, per entrambi i gradi di giudizio, che si liquidano complessivamente in lire venti milioni per onorari di difesa, con aggiunta delle spese prenotate a debito.

Debbono essere, infine, revocate le misure disposte ai sensi dell'art. 272 c.p.p. 1930 nei confronti del SIGNORELLI e del FACHINI con ordinanza di questa Corte in data.

 

 

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Capitolo Ottavo

SUL DELITTO DI CUI ALL'ART.270 BIS C.P.

 

Tutti gli imputati di tale delitto vanno assolti con la formula "perché il fatto non sussiste, compreso l'imputato FRANCESCO PAZIENZA, il cui nominativo per mera omissione materiale non è stato indicato nel dispositivo della presente sentenza letto in udienza. All'integrazione correttiva dell'atto, avendo l'imputato stesso proposto ricorso per cassazione, dovrà provvedersi nel giudizio d'impugnazione, a norma dell'art.149 ultimo comma c.p.p.

Premesso che la fattispecie criminosa di cui trattasi, introdotta nel codice penale col D.L. 15.12.1979 n.625. convertito nella legge 6.2.1980 n.15, postula il venire ad esistenza di una formazione sociale basata sullo stabile accordo di almeno due persone e protesa al compimento di atti di violenza finalizzati all'eversione

dell'ordine democratico (inteso come ordinamento costituzionale ex art.11 della legge n.304 del 1982), formazione sociale, rispetto alla quale la

norma punisce differenziatamente da un lato (comma primo) il fatto di chi la promuova, la costituisca, l'organizzi o la diriga e dall'altro lato (comma secondo) il fatto di chi vi partecipi, occorre rilevare che oggetto della regiudicanda d'appello, così come devoluto dalle impugnazioni di senso contrario delle parti, è se sia ravvisabile, in base alle risultanze processuali, una prova sufficiente della sussistenza del fatto di reato nell'insieme dei suoi elementi costitutivi, sussistenza che la sentenza impugnata considera dubbia, gli uffici del P.M. appellanti e la parte civile ricorrente (con ricorso convertito in appello) prospettano come certa e gli imputati appellanti negano a giudizio di questa Corte fondatamente.

Occorre innanzi tutto considerare che l'ipotesi accusatoria, come delineata dall'ordinanza di rinvio a giudizio e come ricostruita nella sentenza impugnata, (p.1408 e segg.) ha riguardo ad un'entità associativa per

così dire di secondo grado (cosiddetta superassociazione) già esistente e risalente ad epoca indeterminata con i contrassegni strutturali

e funzionali colpiti dalla sopravvenuta norma incriminatrice dell'art.270 bis c.p. e rimasti di fatto immanenti nella cerchia degli associati, i quali, nella loro posizione di esponenti di altre entità associative (loggia massonica segreta P2, settori deviati del SISMI, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale) operanti in varia forma e misura (controllo occulto all'interno del sistema di governo, esercizio anomalo di poteri istituzionali, impiego di mezzi di violenza eversiva) in senso antidemocratico, si sarebbero accordati stabilmente sulla realizzazione di un unitario e confluente programma eversivo dell'ordinamento costituzionale, ciascuno arrecando il contributo (p. 1418) delle proprie specifiche potenzialità operative (promozione ed esecuzione di attentati attraverso l'azione di bande armate da un lato, copertura degli autori dei medesimi, dall'altro lato) ed avendo di mira la gestione politica dei risultati dell'attività violenta (consolidamento del potere di forze ostili alla democrazia e condizionamento dei poteri istituzionali).

Appare subito evidente che siffatta

prospettazione accusatoria (coinvolgente anche il defunto direttore del SISMI gen.SANTOVITO ed il pure defunto prof.Aldo SEMERARI per la sua appartenenza all'area della destra eversiva) fa necessariamente perno sulla partecipazione qualificata all'intesa programmatica degli esponenti delle aree propugnatrici di violenza eversiva, senza di che la fattispecie criminosa di cui trattasi verrebbe ad essere amputata di un elemento costitutivo quale il proposito comune agli associati di compiere o far compiere atti di violenza strumentali all'eversione.

Infatti la costruzione accusatoria della fattispecie punibile configura l'associazione come "sponsorizzatrice" della banda armata e indirettamente degli attentati a questa imputabili, valorizzando l'affermata presenza, tra gli associati, del SIGNORELLI e del FACHINI quali soggetti "cerniera" tra l'organismo associativo di vertice (definibile come programmatore) e quello operante per l'attuazione

del concordato programma di violenza eversiva, capeggiata dagli stessi soggetti, valorizzando altresì l'affermata internità all'associazione

del DELLE GHIAIE e di suoi emissari (TILGHER, BALLAN, MANGIAMELI) la cui vocazione alla violenza eversiva, a partire dalla fine del 1979 andava manifestandosi in un'opera di ricompattamento di frazionate forze giovanili autonomamente operanti (NAR, Terza Posizione) nel campo dell'eversione violenta.

Il ruolo attribuito in ambito associativo alla componente definita piduistica (GELLI, Esponenti dei servizi deviati e PAZIENZA) non è quello di compartecipazione materiale o morale all'attività violenta delle altre componenti, bensì e soltanto, quello di assicurare ad essa programmatica copertura a fronte delle sue episodiche manifestazioni e di avvalersi del loro risultato per il consolidamento e l'espansione di posizioni di potere occulto all'interno delle stesse pubbliche istituzioni, in tal modo determinando un funzionamento delle medesime contrastante con le regole costituzionali.

Cotesta prospettazione comporta, per

necessità logico-giuridica, che in mancanza di una prova diretta dell'accordo associativo (per originaria formazione o per successiva adesione

tra i soggetti incriminati), la prova critica, con gli indispensabili requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi di giudizio utilizzabili, non si arresti alla certificazione di situazioni storico-politiche e di comportamenti soggettivi potenzialmente - per "contiguità" o convergenza o interdipendenza, di interessi in gioco perseguiti singolarmente dagli imputati - adducenti alla conclusione di una forma stabile di alleanza operativa, a servizio di uno scopo comune e con vincolo dei compartecipi alla realizzazione di esso, ma giunga alla certificazione della effettiva, reale concretizzazione dell'alleanza possibile e dell'avvenuta sua espressione in una struttura associativa permanente rispondente al modello dell'art.270 bis, anche se destinata per sua stessa natura a rimanere occulta.

A tal riguardo la verifica probatoria deve prescindere da postulati aprioristici, dettati da analisi e valutazioni di tipo storico-politico e accreditanti la riconducibilità ad un centro unitario ispirativo e propulsivo di tutti i fenomeni di criminalità politica (golpismo

stragismo, sovversivismo neofascista) inquadrabili nella cosiddetta strategia della tensione che ha caratterizzato un lungo arco di tempo della vita nazionale (dalla fine degli anni sessanta, ai primi degli ottanta), salvo poi ricercare in documenti di varia provenienza ed epoca, in circostanze di fatto lumeggiate dal presente e da altri processi, in dati biografici

dei personaggi incriminati, con particolare accento sulle loro relazioni personali e infine in opinamenti espressi da pregressi loro sodali o confidenti postisi sulla via della dissociazione e della denuncia delle passate esperienze di lotta comune, spunti segnali ed indici contribuenti ad affermare la veridicità di detti postulati e la identificazione nelle persone degli attuali imputati dei cogestori associati e occulti dell'ipotizzata unitaria, multiforme e permanente manovra eversiva.

A cotesto indirizzo deduttivistico della ricerca probatoria che traluce dal costrutto

delle censure mosse dall'accusa pubblica e privata "in parte qua" alla sentenza impugnata, ma del quale anche questa non è immune in certi

passaggi argomentativi che sembrerebbero preludere ad una conclusione positiva anziché dubitativa del giudizio, occorre propriamente sostituire il metodo indultivistico dell'analisi processuale, cioè la ponderazione innanzi tutto della consistenza delle singole risultanze prospettate come indizianti e poi dell'effettivo grado di significatività individuale e collettiva delle medesime rispetto al "thema probandum" che, giova ripetere, concerne la reale e certa formazione di un organismo associativo mirante all'eversione, con atti di violenza, dell'ordinamento costituzionale, sulla base di un preciso accordo stabilmente vincolativo in tal senso intercorso tra gli imputati e non le vicende di altre formazioni sociali capeggiate, dominate o influenzate dai medesimi, che hanno formato o formano oggetto di distinti ed appositi procedimenti penali.

Alla stregua della linea metodologica sopra enunciata, vanno riesaminati gli elementi di

giudizio rassegnati dalla sentenza impugnata ed esaminati, quelli aggiuntivi proposti dall'avvocato dello Stato e dagli organi del P.M.

impugnanti .

Per cominciare, il gran discorrere che si è fatto intorno agli atti del convegno organizzato nel maggio 1965 dall'istituto Alberto Pollio di studi storici e militari presso l'Hotel romano Parco dei Principi (p.1423 e segg. della sentenza) per denunciare i pericoli interni ed internazionali dell'offensiva planetaria del comunismo e studiare i mezzi più idonei per un'efficace difesa e controffensiva (cosiddetta controguerra rivoluzionaria), pur presentando interesse sotto il profilo della storiografia politica, si deve obiettivamente riconoscere come non pertinente processualmente all'oggetto del giudizio giacché nulla di quanto si scrisse o si disse in quel convegno può essere addotto a dimostrazione indiretta o a indicazione significativa della successiva insorgenza di un accordo associativo tra gli imputati diretto alla realizzazione degli obiettivi prospetti nel convegno stesso, tenutosi in epoca in cui l'organizzazione piduista gelliana di poteri occulti all'interno e all'esterno delle pubbliche istituzioni era di là da venire (e così dicasi

del cosiddetto supersismi di SANTOVITO, MUSUMECI, BELMONTE e PAZIENZA), senza che alcuno degli imputati prendesse parte ai lavori, ad eccezione quale osservatore, del giovane universitario DELLE CHIAIE, la cui partecipazione alla ipotizzata associazione, come si dirà, è da escludere anche per incompatibilità con uno degli scopi che essa avrebbe perseguito (la copertura programmata degli eversori violenti).

Che il convegno tendesse ad aggregare esponenti delle forze politiche di destra, presenti nel Paese anche nei partiti ufficiali e nelle istituzioni oltre che in appositi movimenti, ed esponenti delle forze armate per contrastare l'avanzata interna ed internazionale del comunismo e che l'auspicata aggregazione di fatto si fosse verificata nei sussulti golpistici dei primi anni settanta, non consente di argomentare che a distanza di tempo, verso la fine di quegli anni, in una situazione politica generale mutata, in cui il comunismo non faceva più paura (ma semmai il timore veniva dal terrorismo di sinistra nella lotta verso il quale i comunisti erano solidali col Governo), gli echi

lontani di quel convegno risuonassero nella coscienza del GELLI, dei militari dei quali egli si era massonicamente circondato e di eversori della destra extraparlamentare, sì da fungere da motivo ispiratore di una intesa associativa per la sperimentazione di una nuova tecnica di occupazione del potere governativo all'interno di esso, del tutto diversa dalla guerra controrivoluzionaria adombrata dai convegnisti dell'istituto Pollio e dalla tematica sulla guerra rivoluzionaria ripresa in altro convegno del 1971 p.1435 della sentenza) per sollecitare una diffusa coscienza anticomunista.

Meno che mai appare utilizzabile, come fonte documentale indiziaria della sussistenza dell'associazione di cui trattasi, il memoriale POMAR (p.143ó e segg.), giacché, anche attribuendone la contestata paternità al POMAR e riconoscendo al medesimo, in ragione della sua appartenenza ad ambienti della destra extraistituzionale, una certa autorevolezza di analista dei rapporti intercorsi tra tali ambienti e i servizi segreti del tempo (impersonati da operatori diversi dagli attuali

imputati), il documento rispecchia vedute personali dell'autore circa la politica oltranzista ("fuga in avanti") e reazionaria che questi ultimi, nell'interesse di "gruppi di potere non facilmente individuabili e definibili con la necessaria chiarezza" avrebbero perseguito, all'uopo provocando una progressiva campagna terroristica per determinare interventi legislativi riduttivi degli spazi di libertà dei cittadini.

Ma anche a voler dar peso a siffatte vedute personali, ad onta della loro genericità ed indeterminatezza, non si riesce a vedere quale contributo probatorio esse siano in grado di arrecare relativamente all'oggetto del giudizio, se lo stesso analista, lungi dal configurare una intervenuta alleanza tra esponenti dei servizi ed esponenti della destra eversiva attribuisce ai primi una subdola opera di provocazione e d'istigazione al compimento di attentati (se non di esecuzione) svolta capillarmente attraverso la rete dei propri informatori, il che logicamente contrasta con l'ipotesi di una concordata e programmata linea di condotta in ambito

associativo.

Ancora più palese è la discordanza tra la concessione rivoluzionaria di Franco FREDA, esposta nell'opera dal titolo "La disintegrazione del sistema" apparsa nel 1969 e riedita nel 1978, e quelli che sarebbero stati gli obiettivi dell'associazione in parola.

La palingenesi sociale antiborghese predicata dal FREDA (p.1438 e segg.) si pone in netta antitesi con gli interessi che avrebbero spinto per lo meno la componente piduista della compagine associativa ad accordarsi con le componenti neofasciste, interessi sicuramente coerenti col sistema borghese di distribuzione ed esercizio del potere, salvo il controllo occulto, dall'interno, dei suoi meccanismi istituzionali, ma pur sempre orientato non al rovesciamento di essi, ma semmai al loro rafforzamento e comunque al loro funzionamento in modo conforme alle mire conservatrici e vantaggiose dei controllori.

Né interessa stabilire quanta parte del folle progetto frediano fosse travasata nell'ideologia e nell'azione delle forze eversive operanti nel frastagliato mondo della destra extraparlamentare

giacché ogni giudizio sul punto nulla aggiungerebbe per la soluzione del problema concernente la prova dell'assunto accusatorio in esame, relativamente al quale la valenza significativa di quel progetto è nulla.

Come anche nella stessa direzione è nulla la valenza del contenuto dei "Fogli d'ordine" (p.1441 e segg.) destinati nel 1978 a definire linee programmatiche e organizzative del movimento clandestino di Ordine nuovo e ad impartire prescrizioni comportamentali ai suoi aderenti: né in quelle, che pure auspicano l'attacco armato e clandestino al sistema multinazionale ad opera di "soldati politici" operanti in organismi diffusi sotto varie sigle, né nelle altre è ravvisabile alcunché di allusivo o di apprezzabilmente significativo circa iniziative assunte o da assumere dai vertici del movimento per stabilire alleanze segrete anche meramente protettive con sfere di potere occulto e dei servizi segreti.

Occorre dunque concludere che dai fatti documentati non si dirama alcun filo conduttore alla conoscenza del fatto ignoto da accertare.

Né miglior sorte tocca a seguire i cosiddetti "riferimenti contenuti in altri procedimenti" che la sentenza (p. 1450 e segg.) passa in rassegna nell'intento di verificare se, secondo l'assunto accusatorio, le vicende oggetto di quei procedimenti e quelle oggetto del presente - costituente "un'osservatorio privilegiato perché a valle degli altri" - siano riconducibili ad una strategia unitaria e perciò ad una struttura unitaria da essa implicata.

Pur facendo sul piano logico ogni riserva su cotesto rapporto di necessaria implicazione tra modi di agire, che nel corso di più di un decennio si sarebbero ripetuti con caratteri costanti, e immanenza di un substrato sociale che avrebbe permanentemente operato per la realizzazione di un disegno strategico eversivo, pur nella varietà delle situazioni e degli agenti; ed anche convenendo sul principio affermato dalla sentenza che i dati acquisiti in altri procedimenti siano utilizzabili in questo nonostante che in quelli non si siano raggiunte certezze in ordine alle responsabilità degli imputati per reati loro attribuiti (come nel caso

del FACHINI, del SIGNORELLI e del DELLE CHIAIE), o proprio il tenore dei dati medesimi, che ad una valutazione obiettiva, si rivela poco o punto significativo.

Così dicasi dei collegamenti tra il FREDA, il VENTURA e il collaboratore del SID GIANNETTINI e del progetto elaborato nel gennaio 1973 da quest'ultimo con esponenti del SID (Maletti, LABRUNA) di far evadere il VENTURA dal carcere di Monza (p.1453 della sentenza).

Il dato avverte dell'interesse del SID a stabilire o mantenere contatti con personaggi qualificati dell'ambiente della destra eversiva per attivare canali informativi sugli assetti, gli atteggiamenti e i proponimenti in esso ravvisabili (il che rientra nei compiti di un servizio segreto efficiente, salva la prevaricazione dei modi di attuazione), ma non consente di desumere se non in via del tutto congetturale un'alleanza in atto o programmatica a servizio di un comune disegno eversivo tra i partecipi dell'operazione richiamata, peraltro segnatamente personalizzata ed episodica, si da non potersi promuovere a segnale di una linea

strategica dei servizi del tempo destinata a perpetuarsi negli anni successivi fino a dar vita all'associazione (tra persone diverse) di cui è processo.

Né può considerarsi, a quest'ultimo riguardo, illuminante il comportamento che sarebbe stato tenuto dal capo del SID gen.MICELI in relazione al "golpe Borghese" tacendo e coprendo i congiurati, giacché un siffatto atteggiamento d'illecito favoritismo, frutto o meno di adesione all'iniziativa golpista, ha carattere del tutto personale e non consente di trarre necessarie illazioni circa l'esistenza e tanto meno circa la futura insorgenza di una struttura occulta avente i caratteri dell'associazione incriminata dall'art.270 bis c.p., della quale il MICELI sarebbe stato per così dire l'antesignano, lasciandola poi in retaggio ai suoi successori nel SISDE e nel SISMI.

L'interferenza esplicata dal gen. PALUMBO, comandante nel 1970 la divisione dei Carabinieri Pastrengo con sede a Milano, verso il giornalista Giorgio ZICARI (p.1457 della sentenza) affinché questi, convocato dal giudice istruttore

TAMBURINO per deporre sui contatti avuti anche per conto del SID con i latitanti Carlo FUMAGALLI e Gaetano ORLANDO, esponenti del gruppo terroristico N.A.R., si astenesse dal farlo, perché secondo il PALUMBO "i magistrati stavano tentando di sostituirsi allo Stato riempiendo un vuoto di potere", sia che debba ascriversi a gretta gelosia di potere o a desiderio di non fare emergere l'insuccesso dell'Arma nella ricerca del FUMAGALLI e la inadeguatezza della vigilanza sul gruppo terrorista formato dal medesimo, sia che debba ascriversi all'interesse di proteggere il FUMAGALLI e il suo gruppo altro non denota se non la collocabilità dell'interferente nel novero di quei militari (piduisti in atto o "in fieri") che in quel tempo di accesa "contestazione" e di dilagante ribellismo verso i pubblici poteri ad opera di gruppi, movimenti ed ambienti della sinistra extraparlamentare, propugnavano l'esigenza di uno stato forte e non guardavano con sfavore ai contrapposti ambienti della destra, attivi in siffatta direzione, giungendo anche a solidarizzare idealmente e talora perfino

praticamente con essi, mediante connivenze, disimpegno vigilativo, coperture favoreggiatrici o addirittura calunnioso storno di indagini verso false piste, secondo quanto emerso nel processo relativo alla strage di Peteano (p.1458 e segg. sentenza).

Resta però sempre aperto il problema probatorio della riconducibilità di siffatte manifestazioni personalizzate di solidarietà anche criminoso in essere in contesti circostanziali diversi, ad un sottostante immanente vincolo associativo precostituito tra i soggetti di esse e i destinatari dell'opera favoreggiatrice e deviatoria, problema certamente non risolubile in base al mero rilievo della continuatività degli interventi nel tempo.

Il fatto che esponenti del disciolto movimento "Ordine nuovo" nel 1974 tenessero una riunione, per gettare le basi di una sua riorganizzazione, in un albergo di Cattolica gestito da tal FALZARI, collaboratore del SID (v. sentenza p.1463 e segg.), se pur nella prospettiva accusatoria che i convenuti potevano contare sulla copertura da parte di detto

organismo (e perché non in quella del solo albergatore presumibilmente loro sodale?), ancora nulla dice circa l'esistenza del patto associativo, oggetto della ricerca probatoria, né occorre stupirsi che un servizio segreto reputi conveniente tenere sotto controllo mediante un proprio emissario le mosse di personaggi di spicco del disciolto movimento senza che ciò necessariamente significhi atteggiamento di sostegno o promessa di protezione.

Quanto al rapporto instauratesi tra CAUCHI Augusto, estremista di destra aretino, e il SID, nel corso del 1974, su cui la sentenza(p.1465 e segg.) si sofferma per criticare il contenuto della nota del 20.12.1977 del Capo del centro SISMI di Firenze al Capo del Reparto D della sede centrale romana del Servizio, nota con la quale si fornivano ragguagli sulla vicenda, non si comprende quale serio argomento se ne debba trarre, giovevole indiziariamente circa il "thema probandum", al di là del sospetto che il CAUCHI, lungi dall'essere entrato in contatto col SID "per una fortuita circostanza" (come rappresentato nella nota), fosse già ad esso in

qualche modo collegato, secondo una notizia della quale Luciano FRANCI, altro estremista imputato nel processo relativo alla strage sul treno "Italicus", si era detto in possesso, e che riguardava anche collegamenti tra il SID ed esponenti della P2.

In conclusione anche dai dati acquisiti in altri processi così come quelli documentali non è consentito ricavare alcun decisivo elemento di giudizio che rechi sostegno di prova certa all'ipotesi accusatoria dell'accordo associativo intervenuto tra gli attuali imputati e rilevante ex art.270 bis c.p.

 

1. La posizione di Licio GELLI

Attenta, ma anche circospetta considerazione merita la posizione del GELLI, diffusamente esaminata nella sentenza (p. 1473 e segg.), stante la ritenuta centralità del personaggio quale recondito rettore della sottile strategia eversiva di condizionamento degli equilibri politici del Paese e di consolidamento di forze ostili alla democrazia, nonché quale elemento di aggregazione, intorno a quel progetto, di fautori

della violenza armata neofascista attraverso la loggia massonica segreta P2 da lui capeggiata, il dominio esercitato su apparati di sicurezza dello Stato, ed il collegamento diretto o indiretto con terroristi di destra, e ciò secondo il ruolo attribuitogli dall'accusa con l'imputazione in esame.

La circospezione è d'obbligo giacché non è questa la sede processuale del vaglio della natura criminosa della loggia massonica P2 nella composizione mantenuta segreta, e governata dal GELLI come strumento di potere occulto, ciò costituendo oggetto di apposito procedimento penale pendente presso l'autorità giudiziaria romana, mentre nel presente processo è in discussione non la finalizzazione eversiva di detta associazione in relazione ai suoi caratteri e alle attività di persone ad essa appartenenti, bensì ed esclusivamente il patto associativo che sarebbe stato stretto dal GELLI, con esponenti del SISMI e con fautori di violenza eversiva dell'ordinamento costituzionale.

Va subito detto che è assolutamente privo di valenza indiziaria circa la sussistenza di

siffatto vincolo associativo il documento prodotto dal "massone democratico" prof.Accornero (p. 1473 e segg. della sentenza) riguardante la riunione tenuta il 5.3.1971 dal Raggruppamento GELLI, nel corso del quale fu compiuta un'analisi della situazione politica ed economica dell'Italia, furono prospettati timori di una conquista del potere da parte del partito comunista, si espressero lamentele per l'incapacità del Governo di procedere alle necessario riforme, per la carenza di potere delle forze dell'ordine, per il dilagare del malcostume nonché per lo strapotere assunto dai sindacati e si discusse circa l'atteggiamento da tenere ove i "clericocomunisti" si fossero impadroniti del potere: se chiudersi "dentro una passiva acquiescenza oppure assumere determinate posizioni ed in base a quali piani di emergenza".

E' agevole rilevare che il citato documento al di là di censure, critiche e previsioni preoccupate circa il futuro della nazione degli affiliati alla P2 a seguito di un eventuale avvento dei comunisti al potere, non contiene il ben che minimo accenno ad iniziative violente da

assumere per scongiurare siffatta eventualità e quel che qui conta, ad un'alleanza da stabilire con forze eversive della destra extraparlamentare, limitandosi esso soltanto ad una fosca analisi del momento politico, ad una vibrata denuncia delle carenze dell'azione governativa, a sollecitare una riforma agraria per non allontanare i contadini dalla terra e a scongiurare il pericolo incombente di "una dittatura clericale di estrema destra" o di "un ancor meno auspicabile regime di estrema sinistra".

Il vuoto di iniziative in atto o in cantiere è testuale nella parte in cui (p. 1475 sent.) l'autore del documento afferma di non poter dare alcuna risposta al quesito posto da molti circa l'atteggiamento da assumere di fronte ad un mutamento di regime in senso e clerico-comunista se piegarsi o reagire ad esso e secondo "quali piani di emergenza".

Anche l'avvertimento rivolto dal GELLI ai "fratelli" in occasione dell'estate calda del 1974 (p.1476 sent.) è assolutamente privo di riferimenti ad intese da instaurare o consolidare

con esponenti della destra eversiva ed anzi viene espresso l'augurio che in un clima nazionale di pace operativa retto da buone leggi si trovi la forza di estirpare il male maggiore costituito dalle "eversioni e dalla delinquenza organizzata ed operante all'ombra dell'ideale politico sia di destra che di sinistra".

Che attraverso cotesto apparente legittimismo il GELLI intendesse contrabbandare l'ascesa della sua organizzazione a "soggetto politico" operante parallelamente (o, come oggi si direbbe, trasversalmente) alle istituzioni democratiche può anche, come opina la sentenza, apparire verosimile, ma con ciò non si fa un passo avanti nella soluzione del problema probatorio di fondo che concerne, giova ripeterlo ancora una volta, non la effettiva natura di quella organizzazione, ma il federarsi per cosi dire di essa, attraverso il suo capo, con organizzazioni, ad esse esterne, predicanti e praticanti violenza eversiva.

Molto peso si è dato al "Piano di rinascita democratico" di matrice gelliana, databile alla fine del 1975 o agli inizi del 1976 e la sentenza si diffonde (da p. 1978 a 1983) a citarne i passi

nei quali la pianificazione delle riforme anche costituzionali prospettate come necessarie, ma soprattutto i modi surrettizi previsti per la loro attuazione rivelerebbero l'aspirazione dell'autore alla "strumentalizzazione degli istituti democratici, previamente occupati in forma strisciante attraverso il canale non istituzionale del (proposto) club di stampo rotariano (p. 1481)".

Non occorre qui indugiare a valutare l'effettiva portata del riformismo gelliano (una parte del quale ha trovato eco in successivi assetti politico-legislativi), giacché, come si è premesso, non è questa la sede per ricostruire la storia della loggia massonica P2 e verificare l'incidenza di essa sulle vicende politiche e legislative del Paese.

Quel che conta rilevare è che il piano non offre il benché minimo spunto per argomentare anche indirettamente o implicitamente una sottesa volontà di rovesciamento del sistema democratico, in contrasto con la contraria volontà, dichiarata nella premessa del documento, e ancor meno una prospettiva di rovesciamento violento mediante un

concordato apporto di forze destabilizzanti:

l'unico collegamento previsto è quello con la massoneria internazionale, mentre l'attuazione del piano è rimessa ai "politici" supportati da un istituendo "comitato di garanti" e da "forze amiche nazionali e straniere" disposte ad appoggiarla (p. 1479), di tal che riesce difficile credere che tra garanti (la cui estrazione qualificativa è peraltro determinata con riferimento per così dire corporativo alle categorie degli operatori imprenditoriali e finanziari, degli esponenti di professioni liberali, dei pubblici amministratori, dei magistrati e di selezionati uomini politici) ed amici possano annoverarsi esponenti del neofascismo rivoluzionario da presumersi tutt'altro che inclini sul piano ideologico ed operativo a favorire la proposta gelliana di rinnovamento democratico mirante al mantenimento delle strutture del sistema vigente salvo ad ipotecarne il funzionamento mediante la presenza in esse di iscritti alla P2.

Il "memorandum sulla situazione politica italiana" coevo al piano di rinascita democratica

è più scoperto nella indicazione dei reali obiettivi di questo - la creazione di uno Stato forte fino al limite di una militaricrasia - e dei mezzi" per conseguirli - il finanziamento della "rifondazione" del partito democristiano mediante "acquisto" di esso con l'inserimento nel sistema di tesseramento, nonché l'erogazione aggiuntiva di altre somme di danaro per provocare scissioni nel movimento sindacale e la nascita di una libera confederazione di sindacati autonomi.

Tuttavia sta di fatto che anche nel documento in esame accanto alla "machiavellica" opera di corruzione politica ivi vagheggiata non si fa parola di coinvolgimento o finanziamenti di forze eversive.

Si potrebbe obiettivare che una prospettiva del genere per la sua inconfesssabilità non poteva essere portata ad evidenza documentale, ma l'osservazione non potrebbe valere comunque a far supporre l'esistenza di un recondito intento associativo.

E' poi appena il caso di notare che l'opinione espressa dal GELLI nell'intervista rilasciata al giornalista Maurizio COSTANZO ed

apparsa sul "Corriere della Sera" il 5.10.1980 circa la vetustà della Costituzione e la necessità di una revisione per adottarla ai nuovi tempi (p. 1487 sent.) è sfornita di ogni addentellato che possa connetterla al "thema probandum" essendo chiaro che il professato revisionismo si sarebbe dovuto attuare mediante procedure costituzionali e non in modi eversivi.

La minuta descrizione che la sentenza compie (da pag.1488) del personaggio GELLI e del sistema di potere personale e criptopolitico che egli attraverso la P2 riuscì ad instaurare aggregando in essa col vincolo della solidarietà massonica numerosi alti ufficiali delle forze armate, uomini politici, qualificati esponenti del mondo economico, dell'informazione, della pubblica amministrazione e della magistratura, nel mentre discopre, sulle orme di quanto accertato dalla Commissione di inchiesta parlamentare il disegno dell'abile quanto spregiudicato artefice di manovrare segretamente le leve dei poteri

pubblici per indirizzare la vita politica economica e sociale del paese nelle direzioni da lui volute o a lui gradite per interessi

affaristici o di espansionismo massonico o di favoritismo personale, è avara di indicazioni circa l'allacciamento di rapporti associativi con le forze dell'eversione di destra in funzione di ribaltamento di quel sistema democratico, che pur con le sue disfunzioni, gli consentiva di attuare di fatto posizioni egemoni o comunque di rilievo, incompatibili con "qualsiasi dittatura di destra e di sinistra", come del resto egli stesso avrebbe dichiarato nella riunione tenuta nel 1973 nella sua villa aretina, allorché (p. 1493) agli alti ufficiali dei carabinieri ed al dr.Carmelo SPAGNUOLO, suoi adepti, appositamente convocati, avrebbe chiesto di operare con i mezzi a loro disposizione per favorire l'avvento di un governo di centro eventualmente presieduto dallo stesso SPAGNUOLO.

Pensare che in quella riunione si ponessero le basi dell'alleanza con esponenti di "Ordine Nuovo" o "Avanguardia Nazionale" o con gruppi terroristici per una contingente, strumentale violenta azione destabilizzatrice (sì da favorire l'auspicata formazione di un governo di centro) sarebbe far esercizio di mera quanto ardita

congettura.

Quanto ai rapporti intercorsi tra il GELLI ed i servizi segreti, lungo gli anni settanta fino al 1981, e mantenutisi costanti grazie alla iscrizione alla P2 di coloro che si erano succeduti nella direzione degli stessi si deve senz'altro convenire con la sentenza (p. 1498 e segg.) che da un lato il GELLI, al di là di interessate millanterie ed ostentazioni, aveva realmente assunto di fatto una posizione di grande ascendenza - rispetto ai vertici dei vari organismi informativi e dall'altro lato questi avevano assicurato a lui copertura sotto la pretestuosa giustificazione che trattavasi di "persona influente ed utile al Servizio"; la quale, peraltro, aveva intrattenuto e intratteneva rapporti con varie personalità di rango elevato, sia in campo nazionale che in quello internazionale (p. 1509).

Ma non si può giungere, se non attraverso poco realistiche generalizzazioni, a configurare

quei rapporti come di supremazia da parte del venerabile maestro e di totale asservimento da parte dei suoi confratelli, come se ogni

importante affare da questi trattato fosse passato necessariamente sul filo di una previa consultazione o ispirazione del GELLI o di direttive vincolanti da lui impartite.

Molto verosimilmente l'ascendenza del GELLI in questo (come negli altri settori istituzionali) gli sarà valsa per ottenere vantaggiose informazioni riservate o per realizzare obiettivi di favoritismo o di affarismo anche internazionale, ma non può di per sé, senza adeguata prova, essere addotta a dimostrazione di un vincolo associativo contratto tra l'uno e gli altri per l'attuazione di piani deviazionisti violentemente eversivi.

Meno che mai tale dimostrazione può affidarsi al camaleontismo del GELLI, pure posto in risalto nella sentenza con diffuse notazioni, quasi che una vocazione tramaiola possa costituire valido indice di trame effettivamente ordite secondo un costrutto probatorio che implicitamente valorizza, contro le regole di giudizio, il tipo di autore e le potenzialità comportamentali ad esso legate.

Particolare cura espositiva la sentenza

dedica ai rapporti intrattenuti dal GELLI col colonnello VIEZZER del SID nonché con il generale GRASSIMI capo del SISDE ed il dr.CIOPPA, funzionario dello stesso servizio (p. 1518 e segg.), per dimostrare come il GELLI, fornendo loro appunti informativi (come quello sull'on.Giulio ANDREOTTI, finito in mano a un giornalista) o indicativi di temi di indagine (come quello sul conto di avvocati difensori di brigatisti rossi) o di proprie vedute (come quello sul sequestro dell'on.MORO, dovuto secondo l'autore, all'interesse di evitare il compromesso storico), avrebbe disposto dei servizi come di una agenzia privata.

Ma quand'anche cotesta dimostrazione si potesse considerare acquisita - mentre in realtà l'aneddotica citata dalla sentenza tutt'al più segnala il grado di autorevolezza del personaggio, cui si riconosceva acume politico (p. 1321) e del quale si sapeva essere in relazione con i massimi livelli politici, nonché l'interesse dei servizi ad utilizzarlo come fonte di informazione qualificata - c'è al solito da chiedersi quale uso processuale possa o debba

farsene in rapporto alla tematica da provare del reato associativo, che tra l'altro concerne persone diverse da quelle cui l'aneddotica si riferisce.

Rispetto a tale tematica è invece meritevole di attento vaglio la effettiva portata indiziaria di quanto ebbe a verificarsi dopo la strage del 2 agosto 1980 in relazione al colloquio svoltosi tra il GELLI e il dr.CIOPPA, nel corso del quale il primo, mentre il SISDE, a seguito dell'informativa SPIAZZI e delle confidenze fatte dal FARINA era orientato a indagare in direzione delle formazioni armate della destra eversiva, espresse l'avviso che questa pista era erronea e che occorreva invece battere la pista internazionale, come peraltro suggerivano in quel torno di tempo alcuni organi di stampa.

Questo è il dato obiettivo da esaminare, così come, ancorché più dettagliatamente, esso è esposto in sentenza (p. 1527 e segg.).

Orbene occorre chiedersi se dal medesimo, oltre a desumersi la pacifica ascendenza del GELLI sugli uomini dei servizi iscritti alla P2, che, come si è già notato, non getta di per sé

alcuna luce sull'intesa associativa con esponenti della destra eversiva, possa desumersi l'intento dell'alto consultore di stornare le indagini a prò di coloro verso i quali esse erano o stavano indirizzandosi, e, da tale intento protezionistico, desumersi, a sua volta, quello ulteriore di coprire persone a lui astrette da vincolo associativo e che egli sapesse o dovesse presumere (in forza di tale vincolo) essere responsabili (quale bracci armati dell'associazione ) dell'efferata impresa terroristica.

A giudizio di questa Corte, il dato non consente conclusioni inferenziali, logicamente coerenti, nei sensi sopra prospettati, ma soltanto vaghi sospetti.

Intanto, è significativo che non fu il GELLI ad assumere iniziative deviatorie verso il SISDE, come agevolmente egli avrebbe potuto fare, data l'influenza che poteva esercitare su quel servizio, ma fu il CIOPPA a ritenere di doverlo

consultare nell'ambito delle indagini promosse dal generale GRASSINI in merito all'informativa SPIAZZI, perché sulla stampa si profilava

l'attribuzione della strage ad un'organizzazione internazionale e il GELLI, avendo entrature nelle ambasciate e in particolare in quella argentina, gli apparve la persona più qualificata a fornirgli informazioni.

Il GELLI si mostrò convinto che la pista interna non era quella giusta e che era invece opportuno battere la pista internazionale.

Con ciò non fece che esprimere un punto di vista non dissimile da quello circolante in certi settori dell'opinione pubblica e giornalistica, un punto di vista peraltro, a quanto se ne sa, immotivato e generico, giacché sulla pista internazionale non fu in grado di fornire indicazioni orientative (terrorismo rosso, nero, palestinese, libico, servizi segreti di altri paesi), il che non avrebbe mancato di fare, anche mendacemente, se veramente gli fosse stato a cuore di stornare le indagini dalla pista interna.

Ma anche se potesse considerarsi provato al di là di un mero processo alle intenzioni che 1'"oracolo" gelliano nascondesse l'interesse dell'alto influente consultore a favorire

esponenti della destra eversiva, già raggiunti da provvedimenti restrittivi o esposti a tale eventualità, tale interesse ancora non potrebbe considerarsi precisamente indicativo dell'esistenza di un rapporto associativo tra ausiliatore e ausiliati, giacché la condotta favoreggiatrice ben potrebbe aver trovato causa in una relazione amichevole o anche in una contiguità se non proprio in una comunanza di idealità politiche e perfino in una prospettiva di strumentalizzazione dell'operato di quelle forze per l'attuazione di strategie proprie dell'ausiliatore senza la necessità di una piattaforma associativa.

Il fatto infine che dopo la consulenza del GELLI l'opera informativa del SISDE in ordine alle attività degli eversori di destra romani e di altre città italiane si isterilisse può al solito fornire la misura dell'influenza esercitata dal GELLI, attraverso i suoi confratelli massoni operanti in quel servizio, sugli indirizzi operativi dell'organo, ma non più di tanto, né interessa in questa sede processuale stabilire se il GELLI massonicamente o

politicamente adoperandosi per favorire la nomina di suoi adepti alle cariche più elevate di tutti fili apparati di sicurezza fosse assurto alla posizione di vero dominus occulto di tutto il sistema di sicurezza nazionale, così come conclude la sentenza (p. 1535), inducendone per ciò solo (e dunque arbitrariamente) che da lui fosse partita "l'ispirazione di quella mostruosa macchinazione che è stata il depistaggio delle indagini relative alla strage di Bologna".

Rapporti tra il GELLI e il mondo dell'eversione di destra la sentenza individua sulla scia di dichiarazioni rese da due eversori pentiti, Paolo ALEANDRI e Andrea BROGI (cfr. p.1536 e segg.), relativamente, quanto al primo "agli anni del golpe Borghese" (1970-72) e quanto al secondo, ad un episodio verificatosi nel 1974, di un finanziamento concesso dal GELLI al terrorista nero aretino Augusto CAUCHI.

Non è questa la sede per stabilire se effettivamente il GELLI abbia avuto qualche parte nel golpe Borghese secondo quanto l'ALEANDRI avrebbe appreso da FABIO DE FELICE, a dire del quale il "contrordine" del golpe sarebbe partito

proprio dal GELLI, peraltro non mai inquisito nel processo relativo a quel fatto criminoso; e pur riconoscendo all'ALEANDRI il massimo della credibilità, nonostante la mancanza di riscontri e il fatto che la di lui obiettività potrebbe essere offuscata da risentimento verso il DE FELICE per torti da lui subiti e dissensi ideologici intervenuti tra loro nella gestione del movimento di "costruiamo l'azione" (l'ALEANDRI fu accusato di indebita appropriazione di fondi e fu anche temporaneamente "sequestrato"), occorre osservare che pur se si dovesse ritenere accertata la vocazione e la spinta golpista (a quel tempo) del GELLI (non ancora all'auge della sua potenza piduista) in relazione alla friabile situazione politica generale del Paese, non ne deriverebbe altro elemento di giudizio, utilizzabile nella verifica probatoria della sussistenza dell'associazione eversiva di cui qui è processo (riguardante assetti politici mutati) che una

propensione del GELLI ad allacciare all'occorrenza rapporti con forze eversive della destra e a sostenerne l'azione, ma ciò nulla dice

di probante (anche nella minima valenza di un preciso indizio) in ordine al fatto ignoto da provare, diverso cronologicamente, strutturalmente e finalisticamente dalle manovre colpiste.

Peraltro anche l'episodio riferito dallo stesso ALEANDRI (p. 1538 sent.) circa i rapporti intercorsi tra il GELLI e Alfredo DE FELICE (non imputato nel presente processo), a ben riflettere, anziché deporre per l'esistenza di un patto associativo tra il primo e l'area politica impersonata dal secondo, dovrebbe deporre per il contrario.

Ed invero, se il DE FELICE assunse l'iniziativa di contattare ufficiali dei carabinieri per diffondere la rivista "Politica e Strategia" (nata nel 1972) e se occasionalmente, presso uno di tali militari, incontrò il GELLI il quale avrebbe criticato l'iniziativa osservando che "per un certo tipo di contatti, per un certo tipo di ambienti da contattare" esso DE FELICE doveva passare attraverso esso GELLI, deve dedursene che entrambi operavano disgiuntamente e non nell'ambito di una comune formazione associativa.

Sul finanziamento erogato dal GELLI al CAUCHI il BROGI ha riferito informazioni ricevute dal beneficiario. Prescindendo anche qui da una valutazione di attendibilità dell'accusatore, che solo il giudice del processo ancora pendente in merito all'episodio criminoso potrà compiere con piena cognizione di causa, interessa in questa sede porre in rilievo che quand'anche la sovvenzione si dovesse ritenere accertata, sarebbe ben lungi da offrire argomento circa l'avvenuta (1974) o futura (1978) costituzione da parte del GELLI di una formazione sociale del tipo di quella accusatoriamente delineata nel presente processo.

Ed invero l'intervento sovventorio del GELLI stando al BROGI si sarebbe verificato per così dire "una tantum" e con una particolare finalità che addirittura avrebbe dovuto trovare la garanzia di un esponente dell'esercito o dell'arma dei Carabinieri, non quella di compiere attentati, bensì di predisporre i mezzi di difesa

contro un'eventuale conquista del governo da parte delle forze di sinistra e contro la temuta opera di persecuzione verso esponenti della

destra.

Il GELLI non avrebbe dunque finanziato un piano eversivo (associandosi a forze attive per la sua realizzazione o associando queste a sé e al suo raggruppamento massonico) ma avrebbe esternamente contribuito ad alimentare risorse economiche di un locale gruppuscolo della destra extraparlamentare per consentire la sopravvivenza di esso e una resistenza armata in caso di spostamento a sinistra dell'asse governativo del paese.

Tutto sommato, un comportamento siffatto può considerarsi ulteriore spia della viscerale avversione dell'uomo come politicante e come massone per detto spostamento, nonché di solidarismo ideologico e pratico verso persone e formazioni schierate nella lotta politica sul versante dell'anticomunismo, ma costituisce una forzatura logico giuridica considerarlo spia di un fenomeno associativo "in esse o in fieri" coinvolgente il GELLI, uomini dei servizi e uomini della destra eversiva in una comune intesa di sovvertire quel regime democratico la cui conformazione consentiva al capo della P2 di

mantenere vantaggiosamente posizioni di potere occulto.

E' poi appena il caso di rilevare che la lettura (in verità alquanto soggettiva) dell'intervento sovvenzionatorio del GELLI, fatta dalla sentenza della Corte d'assise di Firenze (e riportata adesivamente dalla sentenza impugnata:

p.1554 e segg.) in chiave di presumibile finalizzazione alla commissione di attentati diretti a determinare la esigenza nel paese di uno stato forte (esigenza parimenti indotta dall'estremismo terroristico di sinistra), va oltre i termini con cui il Brogi ha rappresentato nel presente procedimento l'episodio e non può essere assunta ad elemento indiziario rispetto al "thema probandum", se non si vuoi cadere in una petizione di principio.

 

2. La posizione del SIGNORELLI

Passando ad esaminare la posizione del SIGNORELLI, che costituirebbe, secondo l'accusa, altro perno personale della compagine associativa, per il tramite operativo del quale l'ispirazione sovversivista di essa avrebbe

trovato la sua canalizzazione verso l'attività di eversione violenta, sì da divenire penalmente rilevante ex art.270 bis c.p., la sentenza impugnata si diffonde, come di consueto, nel tracciare la biografia politica del personaggio soffermandosi a porre in evidenza alcuni comportamenti che dovrebbero concorrere a certificare l'esistenza di una piattaforma associativa concordata col GELLI e con gli altri imputati.

Ma anche per quanto riguarda il SIGNORELLI l'analisi critica dei presunti elementi indizianti non reca sostegno all'assunto accusatorio.

Prima di intraprenderla occorre segnarne i confini razionali.

E' di tutta evidenza invero che l'attività svolta dal SIGNORELLI alla testa o all'interno dei movimenti, associazioni e gruppi nel mondo della destra extraparlamentare eversiva e sottoposta a giudizio in altre sedi processuali non può considerarsi di per sé illuminante circa la costituzione del trascendente vincolo associativo

di cui trattasi nel presente processo per dar vita ad una forma di "holding" dell'eversione

pilotata (insieme col GELLI, gli uomini del SISMI e gli esponenti di Avanguardia Nazionale).

Detta attività rappresenterebbe semmai soltanto un presupposto qualificante per addivenire all'intesa associativa in relazione al ruolo da esplicare per l'attuazione del programma sociale di violenza eversiva, ma quand'anche tale presupposto debba ritenersi certo in base alle risultanze del presente processo resterebbe pur sempre da accertare che l'attività qualificante si sia tradotta nella progettualità e nella stipulazione del patto associativo, essendo evidente che una comunanza d'idealità o di interessi o di scopi politici può fornire motivo o incentivo alla formazione di una struttura sociale unitaria finalizzata al loro perseguimento, ma non è essa stessa tale struttura.

Come anche la provata esistenza di rapporti personali e relazioni amichevoli tra soggetti animati da convergenti vedute politiche non può

costituire indice da solo sufficiente di una loro coesione associativa e operativa per la concretizzazione di quelle vedute.

Detto in termini generali di logica del giudizio, ciò che appartiene all'ordine delle potenzialità non può dare la certezza di una realtà storica ad esse conformi ("a posse ad esse non currit illatio", secondo il noto adagio delle scuole).

Ed è secondo una tale logica che occorrerà vagliare gli elementi di giudizio esposti dalla sentenza in merito alla posizione del SIGNORELLI.

Del tutto irrilevante è l'episodio riferito dai pentiti CALORE e TISEI (p. 1561 e segg. ) circa l'intervento esplicato dal SIGNORELLI nel 1974 presso ufficiali dei carabinieri affinchè indagassero nel confronti di giovani della sinistra extraparlamentare sull'attentato compiuto in danno del circolo "Drieu La Rochelle" di Tivoli ove si davano convegno giovani della destra: gli ufficiali erano in possesso della relazione sull'avvenimento che il CALORE aveva consegnato al SIGNORELLI, salutarono alla maniera nazista e dissero di essere venuti da parte del predetto, di voler controllare persone legate alle Brigate rosse e chiesero la collaborazione del CALORE e del TISEI, collaborazione alla quale

il SIGNORELLI si era dimostrato favorevole.

Quanto questo episodio sia significativo nel senso dell'accusa al di là dell'"entratura" del SIGNORELLI nell'arma dei carabinieri non è dato comprendere.

Per trovare un aggancio alla materia del processo la sentenza nota che i due ufficiali, iperattivi nei confronti dell'estremismo di sinistra, dipendevano dal piduista colonnello CORNACCHIA, ma l'aggancio è labilissimo perché non è detto che il SIGNORELLI avesse rapporti col CORNACCHIA e quand'anche li avesse avuti non è detto che egli si fosse rivolto a lui in quanto piduista (ma lo era a quel tempo il CORNACCHIA?) e non in quanto titolare di un comando dell'Arma e in quanto interessato alla lotta contro il terrorismo di sinistra; senza dire poi che i due ufficiali avevano fatto presente di essere intervenuti su sollecitazione diretta del SIGNORELLI il che starebbe tutt'al più a significare che si erano mossi condividendone le idee politiche.

La sentenza passa poi (p. 1563 e segg. ) a citare altre risultanze del processo dalle quali

si dovrebbe evincere:

a) che il SIGNORELLI per conto del SID aveva schedato ufficiali dei reparti operativi dell'esercito operanti nel Settore NORD-EST, secondo una notizia riferita dal CALORE, a lui confidata da Franco FREDA che a sua volta l'aveva appresa da Guido GIANNETTINI, collaboratore del SID, notizia che aveva trovato riscontro in un manoscritto cifrato sequestrato nell'agosto 1980 nell'abitazione del SIGNORELLI contenente l'elenco di nominativi di alti ufficiali dell'Arma dei carabinieri con l'indicazione dei reparti di appartenenza e di un dattiloscritto contenente i nominativi di quattro ufficiali di artiglieria con l'indicazione per tre di essi dei reparti di appartenenza;

b) che il SIGNORELLI aveva effettuato le schedature - concernenti ufficiali considerati politicamente affidabili - in vista di un colpo di stato, che secondo quanto riferito dallo stesso SIGNORELLI al CALORE (fonte della rivelazione della circostanza) era in preparazione per il 1974 e doveva essere preceduto da una campagna di attentati

destabilizzanti ;

c) che in quel periodo, secondo altro riferimento proveniente dal pentito Andrea BROGI, il SIGNORELLI in un dibattito accesosi tra i vertici di Ordine Nero propendeva " per un intervento militare creato da cause destabilizzanti" quali "attentati istintivi, cioè sul pesante";

d) che ancora nel 1978 il SIGNORELLI era in qualche modo collegato ai servizi segreti, come poteva desumersi da un episodio, rievocato dal pentito Paolo ALEANDRI; verificatosi in casa di tale Incardona (amico e seguace del SIGNORELLI) nell'estate di quell'anno a Trabia nei pressi di Palermo: l'ALEANDRI era stato arrestato per una rissa, era uscito dal carcere dell'Ucciardone e si trovava ospite del'Incardona allorché era sopraggiunta una persona, che aveva chiesto del SIGNORELLI, gli aveva detto che lavorava in quel carcere, aveva saputo del suo arresto e gli aveva fatto domande sulla sua collocazione politica;

erano poi sopraggiunti il SIGNORELLI e la di lui moglie, che si erano mostrati imbarazzati, si da sbiancare in viso, alla presenza di quella

persona, con la quale si erano poi precipitosamente allontanati; il SIGNORELLI aveva poi spiegato ad esso ALEANDRI, che quella persona era un uomo dei servizi incaricato di svolgere indagini in Sicilia circa l'eventuale progettazione di sequestri di persona da parte di gruppi della destra e dal quale era stato aiutato molti anni prima durante una sua detenzione nelle carceri romane.

Orbene, pur assumendo come veridici i dati forniti dai tre pentiti, ancorché contestati dal SIGNORELLI e carenti di riscontri, il significato che se ne può trarre è che egli per la sua posizione di esponente della destra extraparlamentare, assertore della cultura dello Stato forte non estranea ad alcuni settori delle forze armate, in una stagione politica nella quale anche negli ambienti del SID si temeva l'avvento delle forze dell'estrema sinistra al governo del Paese, avesse allacciato rapporti con anonimi uomini di quei servizi per fornire o acquisire informazioni su quei settori delle forze armate che condividevano detta esigenza e magari sarebbero stati propensi a compiere o a

favorire un eventuale colpo di stato.

Se collaborazione in questo senso vi fu (a tanto si limita la notizia incontrollabile di seconda mano fornita dal CALORE) nell'ambito di una concezione insurrezionale propugnata dal collaboratore, essa è un fatto personale del medesimo, un modo per inserirsi nelle istituzioni e all'occorrenza giovarsene, un comportamento tattico posto in essere a servizio di un proprio disegno strategico eversivo, ma nulla più di questo, certamente non il segno inequivoco della costituzione di un nucleo associativo destinato, con l'andare del tempo, col mutare delle condizioni politiche dei compartecipi e degli scopi ad assumere la fisionomia dell'associazione punibile ex art.270 bis c.p. di cui alla prospettazione accusatoria.

 

3. La posizione del FACHINI

Anche in merito alla posizione di MASSIMILIANO FACHINI rispetto a tale associazione la sentenza impugnata si sforza di trovare la "prova" (p. 1569 e segg.) di collegamenti dell'esponente veneto di formazioni eversive con

apparati di sicurezza e ritiene di averla trovata in dichiarazioni rese in questo o in altri processi da Vincenzo VINCIGUERRA, Guido GIANNETTINI e dal gen. MALETTI, nel 1972 operante in un ufficio di vertice del SID.

Tutto si riduce all'accertamento di un contatto che il cap. LABRUNA, dipendente dal MALETTI, avrebbe avuto col FACHINI in quell'anno in cui avvenne la strage di Peteano per farlo desistere dal commettere "fesserie" (tenere armi in casa, compiere azioni illegali, porre in essere provocazioni).

Orbene posto anche che il contatto si sia verificato, da un lato è certo, proprio per quanto dichiarato dal GIANNETTINI, che esso non fu sollecitato dal FACHINI, bensì dal LABRUNA, il che lascia desumere che anteriormente i due non erano in rapporto tra loro, dall'altro lato non si sa delle cose che essi si sarebbero dette più di quanto il LABRUNA aveva anticipato al GIANNETTINI di voler dire (che il gruppo veneto si astenesse dal fare "fesserie" provocatorie) e più di quanto molto sfumatamente il MALETTI ha riferito ("penso che LABRUNA abbia ricevuto dal

FACHINI delle informazioni sui gruppi di estrema destra").

Ne deriva che è del tutto azzardata la conclusione cui è giunta la sentenza dell'essere il FACHINI collegato ai servizi segreti, conclusione peraltro inattendibile dopo la dichiarazione resa nel presente giudizio dall'ammiraglio Fulvio MARTINI, capo del SISMI, secondo cui dagli atti del servizio non risulta che il FACHINI ne fosse stato collaboratore.

A maggiore ragione l'episodico contatto tra il medesimo ed il LABRUNA, rientrante chiaramente in un'operazione compiuta dal SID di controllo dell'eversione di destra, non può essere additato come segno di accordo associativo tra il FACHINI ed esponenti dei servizi deviati del tipo di quello configurato dall'accusa.

 

4. La posizione del DE FELICE

FABIO DE FELICE è stato già assolto dal delitto ascrittogli con la formula del non aver commesso il fatto, che implica la sussistenza dell'associazione di cui, secondo l'accusa avrebbe fatto parte, sussistenza della quale

invece secondo l'analisi che si sta qui conducendo manca la prova (onde la necessità, per coerenza logica, del mutamento della formula assolutoria in quella appropriata d'insussistenza del fatto.

Della posizione del DE FELICE occorre trattare perché da un lato la sentenza impugnata si sofferma a parlarne (p. 1581} "per il rilievo che essa assume nell'economia complessiva dell'imputazione associativa in vista delle posizioni dei coimputati", dall'altro lato perché occorre valutare le censure mosse alla pronunzia assolutoria in sede impugnativa.

Orbene tutto quanto la sentenza, attraverso la parola dell'ALEANDRI, giunge a riportare alla figura e all'opera del DE FELICE si riduce, in ultima analisi, ad un approccio di sodalizio che questi si proponeva di stabilire col GELLI mediante i buoni uffici dell'ALEANDRI che era in contatto col capo della P2 ed era al contempo con esso DE FELICE, collegato nel gruppo eversivo di "Costruiamo l'Azione". L'ALEANDRI avrebbe dovuto prospettare al GELLI l'opportunità di usare detto organismo per sua finalità, ricevere

cooperazione per stabilire contatti con ambienti economici e affaristici (p. 1572) e chiedergli di favorire l'ingresso e la permanenza del GRAZIANI (già capo di Ordine Nuovo) in Paraguay, ma se ne astenne.

Così stando le cose non si vede proprio quale luce la circostanza possa gettare circa la sussistenza dell'associazione di cui è processo e in particolare circa l'alleanza permanente che con essa si sarebbe stabilita tra il GELLI e forze eversive di destra.

Ciò che appare francamente illogico è che si porti ad indizio dell'esistenza di siffatto sodalizio, un fatto da cui si dovrebbe all'opposto desumerne l'inesistenza giacché se il mondo dell'eversione di destra (attraverso il SIGNORELLI e quanti altri) fosse stato per davvero legato a GELLI non si vede a che dovesse servire l'incompiuta missione dell'ALEANDRI, uomo appartenente, come lo stesso committente DE FELICE, a quel mondo.

Possono trascurarsi infine le ulteriori rivelazioni dell'ALEANDRI a proposito del pensiero politico del DE FELICE e dei di lui

comportamenti (che esulano dalla materia di questo processo) nonché a proposito dei rapporti instaurati dal GELLI con i giornalisti SALOMONE e LANTI per il tramite di esso ALEANDRI, rapporti palesemente non pertinenti al "thema probandum", così come l'iniziativa che sarebbe stata assunta dal gruppo DE FELICE-SEMERARI-SIGNORELLI di pubblicare la rivista "Solaris" e i pedinamenti del SEMERARI che sarebbero stati fatti da un emissario del DE FELICE per controllare le mosse del criminologo all'uscita di prigione, nel timore che facesse rivelazioni compromettenti.

L'avvocato dello Stato, nel censurare l'assolutoria del DE FELICE, non si discosta dalle dichiarazioni dell'Aleandri, sottolineando (f. 19 motivi) la rivelazione da questi fatta circa il progetto finale del DE FELICE di strumentalizzare la banda armata di cui entrambi erano partecipi "per l'attuazione di un più vasto e articolato disegno nell'ambito del quale gli attentati avrebbero potuto fungere da merce di scambio per ottenere agganci o condizionare delle scelte".

Ma posto che questa fosse la concezione del

DE FELICE - per la verità alquanto vaga e possibilista - circa la funzione ultima della comune milizia in un organismo eversivo, occorrerebbe un salto logico per affermare che il nebuloso velleitarismo professato dal DE FELICE, partecipato all'ALEANORI e da questi ripudiato si fosse tradotto in un concreto comportamento di aggregazione, intorno a quel progetto, di altre persone (e in particolare del GELLI e degli altri coimputati), laddove, come si è già notato, per lo meno fino al marzo 1979 (epoca in cui l'ALEANDRI ruppe i rapporti col DE FELICE), l'aggregazione era ancora di là da venire e da nessun altra fonte risulta che fosse successivamente avvenuta nelle forme della fattispecie criminosa di cui al l'art.270 bis c.p.

In conclusione la censura è costruita sull'inaccettabile trascorrere argomentativo dal piano logico delle potenzialità (cui si arresta la valenza significativa del dato processuale di partenza) al piano storico della realtà effettuale che rimane incerta (perché non raggiunta dalla significatività di quel dato).

Né maggior pregio hanno le diffuse

argomentazioni rassegnate dal Procuratore della Repubblica col propri motivi di impugnazione.

Esse danno per scontata l'esistenza della struttura occulta associativa a guisa di un postulato logicamente necessario per spiegare la continuità di fenomeni stragistici, attentati, episodi golpistici provenienti dall'area della destra eversiva, non altrimenti comprensibili senza una linea intrinseca di collegamento e un sottostante unitario disegno ispirativo e gestionale necessariamente riconducibile ad un centro occulto di potere impersonato dal GELLI, da suoi emissari nel SISMI e dai capi dell'eversione nera, tra i quali sarebbe da annoverare il DE FELICE, da sempre attivo in quel campo e in posizione di spicco, a fianco del SIGNORELLI, del FACHINI e del SEMERARI.

Questa impostazione, definibile come panlogistica del ragionamento probatorio (le imprese del terrorismo nero provano l'associazione, l'associazione le ispira per gestirne il risultato in funzione anticomunista o comunque per alterare i meccanismi costituzionali, di sviluppo della vita

democratica del paese), ha il torto di poggiare su premesse indimostrate.

A prescindere dalla considerazione che sugli autori della maggior parte di quelle imprese non si è fatto luce nei relativi procedimenti penali, e nemmeno in questo, concernente la più grave di esse, si è riusciti a farla, il rilevato carattere della loro continuità non ne postula necessariamente la collocazione in un unico disegno ispirativo concepito nell'ambito di una struttura sociale di livello superiore a quello operativo, ben potendo ciascuna impresa, anche se riferibile all'area della destra eversiva, essere stata il portato di determinazioni spontanee (non etero ispirate), congiunturali ed autonome delle varie formazioni e coalizioni operanti, in quell'area con proprie motivazioni, organizzazioni ed iniziative (si pensi alle formazioni dei NAR, di Terza Posizione, di Costruiamo l'Azione etc...).

Quanto all'unitarietà gestionale, deve poi dirsi che essa è meramente supposta, volta che non viene prospettata alcuna circostanza dalla quale possa desumersi che i componenti della

presunta associazione si siano avvalsi dell'evento terroristico per i propri scopi e in particolare per conseguire un mutamento dei rapporti di forza tra gli schieramenti politici, a sfavore di quelli della sinistra o (come si assume) il ribaltamento delle regole democratiche di occupazione del potere.

E sarebbe ben strana un'associazione eversiva che fomenti il terrorismo e se ne stia a contemplare gli effetti perversi senza farsi attiva a utilizzarli.

Del resto, nemmeno dalla bocca del CALORE e dell'ALEANDRI, da coloro cioè che dapprima associati in "Costruiamo l'Azione" col DE FELICE, col SIGNORELLI col SEMERARI e col FACHINI, quindi entrati in rotta di collisione con costoro sull'indirizzo politico ed operativo del gruppo, provengono informazioni precise sull'uso strumentale che i loro patroni (o santoni) avrebbero fatto degli attentati che il M.R.P. andava eseguendo, (tranne la già esaminata confidenza del DE FELICE all'ALEANDRI, riguardante fumosi propositi del confidente), ma soltanto personali giudizi valutativi improntati

al sospetto di essere stati strumentalizzati dai loro sodali.

E' infine appena il caso di osservare che la intricata illustrazione della figura e dell'opera del DE FELICE in ambito ordinovista e fuori di quell'ambito, che si legge nei motivi di impugnazione in esame (p. 34 e segg. ) non va oltre la prospettazione di elementi idonei ad evidenziare aspetti negativi della personalità del soggetto e riprovevoli della sua azione politico-eversiva, ma non propone alcuna circostanza idonea anche indiziariamente ad avvalorare l'ipotesi che egli, insieme con gli altri vertici di "Ordine nuovo", oltre ad operare eversivamente in forma palese nella cerchia del gruppo di appartenenza, si fosse associato in forma latente, col GELLI, gli uomini dei servizi e gli esponenti di "Avanguardia nazionale" (questi ultimi in perenne dissidio con gli ordinovisti, salvo un esperimento di unità di azione, nato ad Albano Laziale nel 1975 e dissoltosi a Nizza nel 1976), per dar vita ad una specie di rettorato o protettorato occulto di tutto il panorama (o "arcipelago) del

rivoluzionarismo violento della destra extraparlamentare).

Quanto alle censure mosse dal Procuratore Generale all'assoluzione del DE FELICE è da notare che il nome di quest'ultimo come appartenente alla "cupola" che l'appellante ritiene doversi per necessità logica ipotizzare come presente dietro lo stragismo ricorrente nel Paese e l'imperversante terrorismo di destra, ricorre una sola volta (pag. 23} per attribuirgli la funzione di "coesione del gruppo" mediante pubblicazioni finanziate dal GELLI, un attributo, questo, sfornito di ogni elemento di prova.

La sentenza impugnata (p. 1565 e segg.) dedica un lungo spaccato (ripreso qua e là nelle motivazioni delle censure avverso di essa proposte) alla figura del SEMERARI per sottolineare il raccordo verificatosi per il tramite del defunto criminologo tra il mondo della criminalità organizzata, quello della eversione di destra, dei servizi deviati e della

P2, ad ognuno dei quali egli sarebbe stato in vario modo più o meno strettamente collegato, venendo così a rappresentare un referente

personale di rilievo della sovrastruttura associati va di cui è processo.

Ovviamente, non è questa la sede per verificare la fondatezza di quanto viene ascritto al personaggio, ma non può sfuggire a verifica la significatività dei comportamenti a lui attribuiti nel senso preteso dagli appellanti.

La significatività del fatto che il SEMERARI coltivava il proposito di compiere sequestri a scopo di estorsione avvalendosi di malavitosi di sua conoscenza beneficiati da perizie psichiatriche compiacenti, per finanziare l'attività eversiva di "Costruiamo l'Azione" è nulla rispetto all'oggetto da provare e lo stesso deve dirsi quanto all'episodio della consegna di armi fatta all'ALEANDRI dal malavitoso GIUSEPPUCCI, legato al SEMERARI, nonché quanto all'episodio del sequestro personale dell'ALEANDRI ad opera del GIUSEPPUCCI, che ne seguì allorché fu riscontrata la mancanza di una parte di quelle armi.

E' fin troppo evidente inoltre che l'avere intrattenuto rapporti personali con uomini dei servizi, secondo quanto assicura l'ALEANDRI per

averlo appreso dallo stesso SEMERARI, non implica e non indica la natura associativa di tali rapporti, tanto più in quanto, a stare a quelli intrattenuti col colonnello Michele SANTORO e col criminologo FERRACUTI, uomini legati ai servizi, ma non ad essi intranei, si deve osservare che semmai il dato si presta ad inferirne che il SEMERARI non era associato con i vertici del SISMI e del SISDE: se così fosse stato, non si comprende la necessità che egli avesse di consegnare al FERRACUTI la lettera in codice a firma "Mister Brown" di cui quegli ha parlato affinché per suo tramite il documento allusivo al sequestro MORO, pervenisse al SISDE.

L'appartenenza (per la verità non documentata) del SEMERARI alla P2 è inconferente giacché per trarne qualche elemento di giudizio in ordine ad uno specifico vincolo associativo col GELLI (diverso da quello della comune osservanza massonica in quella loggia segreta) occorrerebbe esser certi che il criminologo vi fosse stato ammesso non per il prestigio professionale e la sua elevata posizione sociale, bensì per la sua propensione a violente attività

eversive, laddove la chiave interpretativa del rapporto col GELLI è fornita eloquentemente dal figlio di quest'ultimo, Raffaello, allorché dice al GEIROLA, desideroso di ottenere una perizia psichiatrica (verosimilmente di favore), che si poteva far capo al SEMERARI "perché era una persona fidata alla quale essi (cioè lui e il padre) si rivolgevano quando ne avevano bisogno perché era disponibile", dunque, all'occorrenza, e non per stabile rapporto associativo.

Dopo di che il fatto dell'avere il SEMERARI annotato su un calendario da tavolo, la data del 12.6.1980, ore 16, "GELLI" è del tutto insignificante e relega nel campo delle congetture l'idea che il programmato colloquio tra i due potesse avere attinenza alla ipotizzata loro associazione eversiva.

In conclusione, la funzione "circolare" di raccordo e reciproca strumentalizzazione (f.31 motivi di appello del Procuratore della Repubblica) tra le componenti associative assegnata al SEMERARI dal teorema accusatorio è affatto evanescente, né la esistenza di un patto sociale può logicamente desumersi dalla

proteiforme attività di una persona in campi disparati, leciti ed illeciti, in virtù dei rapporti da essa allacciati con persone operanti in quei campi.

In particolare il rapporto col DE FELICE, richiamato dall'Avvocato dello Stato nei suoi motivi di impugnazione, (f. 33) per segnalare come, nel momento del bisogno, il SEMERARI indicando il DE FELICE come vertice dell'organizzazione che aveva ordito l'omicidio del dr. AMATO, aveva inteso chiamare a proprio soccorso l'intera organizzazione, può valere ad illuminare sull'esistenza del gruppo eversivo dal quale il detenuto SEMERARI avrebbe inteso invocare protezione, ma non più di ciò e, d'altro canto, l'argomento è suscettibile di controdeduzione giacché potrebbe osservarsi che nelle condizioni fisiopsichiche prossime al cedimento in cui il criminologo versava avrebbe elevato la sua richiesta di soccorso a ben più autorevoli personaggi (GELLI, i vertici dei Servizi) se egli per davvero fosse stato associato con loro nella realizzazione di un programma eversivo.

 

5. La componente Avanguardista

Alla componente avanguardista dell'ipotizzata super struttura associativa la sentenza impugnata e l'appellante Procuratore della Repubblica dedicano una dettagliata trattazione, tracciando una meticolosa biografia politica del suo capo riconosciuto, STEFANO DELLE CHIAIE, per porre in evidenza aspetti, momenti ed episodi della di lui attività, all'interno e all'estero, dai quali si dovrebbe ricavare, non tanto il dubbio professato dal primo giudice, quanto il convincimento certo non solo della esistenza di occulto supremo governo delle imprese eversive di ispirazione neofascista verificatesi nel Paese a partire dalla strage di Piazza Fontana fino alla strage della stazione ferroviaria di Bologna, ma anche della eminente partecipazione ad esso del DELLE CHIAIE.

Questo convincimento potrebbe dirsi frustrato in partenza dalla posizione contradditoria in cui il DELLE CHIAIE si presenta rispetto all'imputazione in relazione a certe risultanze del processo, giacché mentre quella inserisce nel

progetto associativo la copertura e la garanzia dell'impunità agli autori degli attentati, verosimilmente ad opera degli associati uomini dei Servizi, risulterà, al contrario, che proprio da questi ultimi provengono indicazioni del nominativo del DELLE CHIAIE come stratega dell'eversione nera.

Di questa contraddizione non si son fatti carico gli organi dell'accusa pubblica e privata, ma essa non è sfuggita alla sentenza impugnata (f. 1707) che si è ingegnata di trovare una spiegazione con l'osservare che il SISMI era astretto dalla necessità di profilare una pista internazionale di indagini per deviare gli investigatori da quella interna e perciò aveva trovato conveniente indirizzarle temporaneamente verso il DELLE CHIAIE che, standosene comodamente in Sudamerica, non avrebbe corso pericolo di essere arrestato.

La spiegazione non convince perché, a tacer d'altro, da un lato non era affatto necessario che per perseguire l'intento deviatorio venisse tirato in ballo il nome di un (presunto) associato con conseguenze imprevedibili per la

sorte dell'associazione, dall'altro lato, mettere allo scoperto il DELLE CHIAIE significava arrecare un colpo all'organizzazione di Avanguardia Nazionale e agli esponenti di essa che stavano in Italia, tra i quali il TILGHER, il BALLAN, che pure, secondo l'accusa, avrebbero fatto parte della super associazione.

La contraddizione perciò resta e fa sì che non solo il versante "avanguardista" della occulta compagine associativa venga a profilarsi per lo meno di dubbia sussistenza, ma anche che gli elementi di giudizio tratti dalla attività eversiva di quel versante, per accreditare l'ipotesi accusatoria della sussistenza dell'associazione, siano scarsamente probanti in tal senso.

Tuttavia, per esigenza di completezza valutativa di tutto il quadro accusatorio, conviene passare in rassegna almeno quei dati che presentano un apprezzabile tratto di pertinenza

al "thema probandum", sottolineando ancora una

volta l'estraneità ad esso di tutto ciò che concerne l'attività eversiva del DELLE CHIAIE e dei suoi seguaci, che forma o ha formato oggetto

di altri procedimenti penali.

Pertanto, può anche sottoscriversi senza particolari approfondimenti tutto quanto si legge nella sentenza (da p. 1593) a proposito degli atteggiamenti assunti dal DELLE CHIAIE rispetto al "golpe Borghese", al delitto Occorsio, alla strage di Peteano, alle imprese dei "NAR", nonché a proposito degli aiuti da lui forniti all'estero ad eversori fuorusciti, del tentativo effettuato tra il 1979 e il 1980 di egemonizzare attraverso "Avanguardia Nazionale", tutta l'area della eversione di destra romana mediante l'opera di ricompattamento delle sparse frange di essa, svolta dal suo emissario Francesco MANGIAMELI, appositamente finanziata in vista della esecuzione di attentati.

Ma appare evidente che le risultanze riguardanti tutti gli oggetti testé elencati non recano alcun contributo alla soluzione del "thema decidendi", potendo soltanto lumeggiare la statura eversiva del personaggio, la sua vocazione rivoluzionaria (del resto da lui stesso conclamata), i maneggi esperiti per estrinsecarla, all'interno e all'estero,

nell'ambiente della destra di identica professione, ed in ultima analisi, la consistenza del titolo che egli aveva, in quanto capo di un cospicuo settore del sovversivismo di destra, per stabilire alleanze con capi di altri settori dello stesso sovversivismo e con capi di organismi di questo consentanei; il che però non significa che l'alleanza ipotizzata dall'accusa fosse stata effettivamente costituita.

Pertinente, invece, al "thema probandum" è l'esplorazione che la sentenza fa dei rapporti intercorsi tra il DELLE CHIAIE e il SID (p. 1606 e segg.).

Ma bisogna dire che il risultato cui essa approda, criticamente vagliato, è deludente.

L'episodio che dovrebbe proiettare luce indiziaria sulla "internità" - espressione peraltro alquanto approssimativa - del DELLE CHIAIE al SID (si badi non al SISMI, all'epoca di là da venire), è costituito da un contatto stabilitosi a Barcellona tra il 30 novembre e il 2 dicembre 1972 tra l'esponente di Avanguardia Nazionale (che colà si trovava) ed il cap. LABRUNA del SID, accompagnato da MAURIZIO GIORGI

(anch'egli "avanguardista", fuoriuscito dall'Italia e all'uopo munito di passaporto dal SID per scortare il LABRUNA, essendo divenuto collaboratore di quel servizio).

Stando alle dichiarazioni rese dal DELLE CHIAIE (contrastate inattendibilmente dal LABRUNA} nel corso dei colloqui quest'ultimo aveva chiesto un aiuto per l'evasione di FREDA e VENTURA e per fornire ospitalità al POZZAN (i tre erano implicati nella strage di Piazza Fontana);

aveva altresì ammesso che la vicenda dell'arsenale di Camerino (deposito di armi ivi effettuato per farne attribuire la responsabilità a eversori della sinistra) era stata architettata dal SID ("Camerino lo abbiamo fatto noi").

Da questa risultanza processuale si è tratto spunto per inferirne che il LABRUNA non sarebbe stato così esplicito verso il DELLE CHIAIE se non avesse potuto contare sulla di lui "collaudata" affidabilità, rischiando diversamente di esporre il SID a manovre ricattatorie, e da questa prima inferenza se ne è tratta una seconda: che per essere stato destinatario di quelle richieste di aiuto e di quella rivelazione compromettente il

DELLE CHIAIE fosse in qualche modo legato al SID.

Quanto fragile sia cotesta doppia inferenza si può apprezzare se si considera che qualora già il DELLE CHIAIE fosse stato un collaboratore del SID il LABRUNA non avrebbe avuto bisogno della mediazione del GIORGI per accedere a lui nel soggiorno estero.

E' più realistico pensare che il LABRUNA si fosse mosso ad incontrare il potente fuoriuscito per ottenerne o una stabile collaborazione informativa o una contingente collaborazione operativa negli affari cui il SID era interessato (l'evasione del FREDA e del VENTURA e l'ospitalità da dare al POZZAN) e che per ragioni intuibili, trattandosi di iniziative di stampo deviatorio, preferiva non gestire direttamente, oppure per ottenere l'una e l'altra cosa, se è da credere al LABRUNA quando afferma di aver ricevuto dal DELLE CHIAIE una "risposta interlocutoria (p. 1612), condizionando egli l'eventuale collaborazione all'assicurazione da parte del gen. MALETTI (superiore del LABRUNA) circa il "contesto politico" in cui essa si sarebbe dovuta svolgere.

Certamente nel fare la confidenza sull'arsenale di Camerino, peraltro in un contesto colloquiale e motivazionale non ricostruibile, il LABRUNA si espose al rischio di manovre ricattatorie, rischio però già presente nel fatto stesso di essere andato a proporre al DELLE CHIAIE di collaborare ad attività illecite del servizio; ma si trattava di rischio calcolato giacché il destinatario della proposta e della confidenza era interessato quanto lui al riserbo sull'incontro con un emissario del SID (che avrebbe costituito una macchia sull'immagine di rivoluzionario puro che di sé coltivava il DELLE CHIAIE).

E del resto, la stessa sentenza nota che da quel riserbo il DELLE CHIAIE fu costretto ad uscire solo alcuni anni dopo, quando l'episodio era venuto alla luce nel corso del procedimento penale relativo alla strage di Piazza Fontana.

Sicché, pare proprio che la valutazione di affidabilità dell'interlocutore fatta dal LABRUNA non costituisca spia di una già esistente "internità" del primo al SID, ma frutto di una prognosi non aleatoria retta dal comune interesse

al riserbo fatta dall'uomo dei servizi.

Comunque sia, l'episodio fa fede del tentativo del SID di agganciare il DELLE CHIAIE per un'attività collaborativa specifica o anche permanente, ma il suo valore indiziario non può estendersi al fatto da provare (la particolare super associazione eversiva di cui all'imputazione, di molti anni dopo e con uomini del SISMI), tanto più se si considera che con l'intervista concessa nel 1976 al giornalista Romano CANTORE (p. 1616) il DELLE CHIAIE, uscito allo scoperto, si era posto in una condizione conflittuale con gli uomini dei Servizi del tempo e sembra incredibile che quelli del SISMI, peraltro piduisti come i loro antecessori, gli potessero concedere tanta fiducia da associarselo nella realizzazione della strategia eversiva prospettata dall'accusa.

Che poi, dopo l'incontro barcellonese del 1972, il DELLE GHIAIE manifestasse il proposito, attraverso il GIORGI, di reincontrare il LABRUNA in occasione dei funerali di Junio Valerio BORGHESE nella tarda estate del 1974 e che nel maggio dell'anno successivo il LABRUNA si fosse

trovato in un bar di Parigi ove Clemente GRAZIANI (ex capo di Ordine Nuovo) si doveva incontrare con il DELLE CHIAIE, siano episodi che suffragano il convincimento che il SID abbia mantenuto contatti con l'organizzazione di Avanguardia Nazionale (a quel tempo non ancora legalmente disciolta), come ha deposto il Gen. MALETTI ("a scopo informazioni" secondo lui) può anche ammettersi, ma è convincimento che non fa compiere alcun passo avanti sul cammino della dimostrazione della sussistenza della associazione di cui è processo, a meno che non si scambi per tale ogni relazione intrattenuta anche sistematicamente da una persona con esponenti dei servizi segreti nell'ambito dell'attività di informazione.

Il collegamento del DELLE CHIAIE con il SID è stato anche dedotto dal l'aver egli durante la latitanza in Spagna intrecciato rapporti con i servizi segreti di quel Paese.

Ma se anche il fatto debba considerarsi provato dalle notizie di seconda mano fornite dall'IZZO, dal TISEI e dal CALORE e dal fugace accenno del BALLAN (p. 1618 seni.) esso non

autorizza se non a livello congetturale a trarne l'illazione che il DELLE CHIAIE fosse stato accreditato presso quei servizi da quelli italiani.

Come anche è visibilmente una serie di congetture quella che porta la sentenza (p. 1619 e segg.) ad ascrivere le fortune incontrate dal fuoriuscito in Argentina, Cile e Bolivia - fino a divenire in poco tempo dal 1977 al 1980, da un'iniziale condizione di disagio economico, uomo potente, vicino o anche interno ad apparati militari e civili di quei paesi - ai collegamenti con LICIO GELLI, che in Argentina era di casa, tanto da divenirne console onorario in Italia e, da un giorno all'altro, essere in grado di procurare, a richiesta del piduista gen.GRASSINI, capo del SISDE, contatti tra questo servizio e quello argentino in Italia.

L'onnipresenza del GELLI non può costituire la chiave esplicativa di ogni vicenda, sì da poter supplire, a guisa di canone dogmatico di giudizio, al necessario rigore della prova storica o logica e da colmarne i vuoti.

Ed invero, come abbia fatto il DELLE CHIAIE

ad assurgere ai fastigi sudamericani menzionati nella sentenza, non è dato stabilire attraverso le risultanze del processo; si può anche sospettare lo zampino del GELLI, ma oltre questo livello esplicativo non può giungersi, di tal che il dato è privato della valenza indiziante che gli si vuole attribuire addirittura rispetto ad un rapporto associativo corrente tra i due personaggi.

Se ne rende conto la stessa sentenza, che si dà carico di trovare per lo meno un supporto probatorio ai supposti rapporti personali tra i medesimi - e ritiene di trovarlo nella testimonianza di Nora LAZZERINI, che per non breve tempo aveva frequentato il GELLI e tra varie notizie riferite sul medesimo (una delle quali all'apparenza fantasiosa rivelatasi veridica concernente il regalo da lui ricevuto di un telefono d'oro da parte del Presidente della FIAT, AGNELLI) aveva anche parlato di contatti telefonici avuti con lui dal DELLE CHIAIE, su una linea telefonica di cui il GELLI disponeva in esclusiva nel suo alloggio presso l'albergo Excelsior di Roma, linea che non passava per il

centralino e sulla quale vi erano state comunicazioni, di cui in una prima deposizione la donna indicava il numero (due) e l'anno (1977), successivamente affermava che si erano protratte fino alla fine del 1979 o all'inizio del 1980.

Orbene la testimonianza della LAZZERINI non è di quelle che possano recepirsi senza perplessità, stante la inimicizia intervenuta tra lei ed il GELLI nel corso dei loro rapporti, la tendenza della donna a strumentalizzare le notizie in suo possesso per trame vantaggi e la sospetta documentazione di esse a tale scopo.

Questa perplessità, che peraltro insorse anche negli ambienti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia P2 e dissuase dall'esaminare la donna, non è vinta dalle osservazioni fatte dalla sentenza per accreditarla (pag. 1627 e segg.).

Non vale infatti osservare genericamente che nessuna delle molte circostanze riferite dalla LAZZERINI si era rivelata falsa, in mancanza di verifica della fondatezza di ognuna di essa, e non bastando la verifica positiva di uno (quella relativa al telefono d'oro) a far attribuire fede

incondizionata alla fonte informativa.

Quanto poi alla verifica effettuata sulla notizia delle telefonate del DELLE CHIAIE al GELLI, nemmeno essa può ritenersi tranquillante perché:

1) secondo la LAZZERINI le comunicazioni telefoniche erano state fatte direttamente dal DELLE CHIAIE al GELLI ed ella ne era venuta a conoscenza perché aveva ascoltato quest'ultimo chiamare per nome (Stefano) e/o per cognome (Delle Chiaie) l'interlocutore; ma non si riesce a credere da un lato che il cauto DELLE CHIAIE, fuggiasco all'estero, a quel tempo (1977) in Argentina ove occultava la sua identità sotto il nome di Alfredo GORLA, si spingesse a telefonare al GELLI enunciando il suo nome, dall'altro lato che il GELLI fosse tanto sprovveduto da rendere palese l'identità di un così compromettente suo interlocutore che secondo l'assunto accusatorio sarebbe stato associato a lui in imprese eversive;

2) posto anche che la LAZZERINI fosse venuta a conoscenza in quel modo occasionale e disinteressato delle due telefonate del 1977 (le

uniche delle quali ella in un primo tempo parlò) non si vede, ignorandone il contenuto, quale interesse dovesse spingerla a farne menzione nella lettera del 2/12/1977 "da consegnare al sig. Roberto Fabiani.. in caso che mi succeda qualche cosa";

3) l'accertamento da parte della polizia scientifica (p. 1633) che la stesura della lettera risalga effettivamente alla data in essa richiesta è tutt'altro che tale, essendo formulato in termini di semplice possibilità con riferimento alla carta del foglio e della busta, possibilità che vale quanto quella che in epoca successiva la LAZZERINI usasse carta del passato non tanto lontano, mentre l'altra possibilità pure configurata dalla polizia che la scrittura fosse stata stilata in epoca corrispondente alla data resta confinata nella sfera dell'opinabile;

4) l'incertezza non è risolta dal deposto del giornalista FABIANI, cui in un incontro riservato la donna disse di avere delle carte che gli avrebbe fatto recapitare se le fosse accaduto qualcosa perché non si sa di quali carte la donna intendesse parlare: certo o che ella non gli

consegnò la lettera e tra le cose che disse non è compresa la rivelazione dei rapporti tra il GELLI ed il DELLE CHIAIE; il fatto poi che alcune delle cose dette risultano tra quelle scritte nella lettera è del tutto compatibile con la possibilità che questa fosse compilata in epoca successiva all'incontro col Fabiani;

5) vero o che il 21/6/1982 la donna riferì all'addetto alla segreteria della Commissione parlamentare sulla P2 dr. Giovanni DI GIOMMO LAURORA che il GELLI aveva continui contatti telefonici col DELLE CHIAIE e ciò, secondo quanto il teste ha dichiarato, per mettere in risalto la vasta gamma delle persone con cui il GELLI intratteneva rapporti; ma è da dire che a quel tempo la LAZZERINI era in acerba rotta con il tramontato astro della P2 e la sinistra figura del DELLE CHIAIE era già più volte balzata ai fastigi della cronaca giornalistica in relazione per esempio alla strage di Piazza Fontana, anche se le rivelazioni del CIOLINI sul collegamento tra la fantomatica superloggia di Montecarlo creata dal GELLI e l'"orchestra nera" diretta dal DELLE CHIAIE troveranno eco nell'articolo di

"Panorama" del 23 agosto 1982, ma non è detto che già esse non avessero trovato diffusione da parte di altri organi di stampa, si che la LAZZERINI potesse esserne edotta allorché parlò col DI GIOMMO;

6) un segnale non trascurabile della

insincerità della LAZZERINI è offerto dall'aver ella, in uno scritto datato 12/7/1980, usato la l'espressione "prima che scoppiasse la bomba della P2" per un fatto accaduto l'anno dopo mostrando cosi che l'appunto era stato in realtà redatto in tempo successivo a quello indicato.

Nel dibattimento di primo grado, su contestazione del difensore del DELLE CHIAIE (verbale del giorno 21/10/1987 pag.21 e segg.), la donna non riuscì a spiegare l'incongruenza se non con l'inconsistente affermazione che il GELLI già da anni andava preconizzando la sua detronizzazione.

Come si vede, la perplessità di giudizio menzionate non sono di poco conto, ma anche a volerle accantonare e a dare per certo che il DELLE CHIAIE ed il GELLI si conoscessero e si telefonassero non sembra proprio che ciò possa

costituire indizio di una loro associazione in imprese eversive italiane e non piuttosto di una loro cointeressenza o intesa in affari anche politici sudamericani.

Quanto infine alle argomentazioni profilate dal versante accusatorio degli appellanti non si fa con esse un passo avanti rispetto agli elementi rassegnati dalla sentenza a sostegno della conclusione dubitativa del giudizio.

Ed invero, evocare, come fa il Procuratore della Repubblica con i suoi diffusi motivi, il "currlculum" eversivo del DELLE CHIAIE e ricucire episodi che lungo di esso lo colgono in amicizia o in contatto con questo o quell'uomo delle istituzioni (Federlco Umberto D'AMATO, dirigente l'ufficio affari riservati del Ministero dell'Interno) o dei servizi di sicurezza o della massoneria piduista, dando tal ora per certo e ciò che dovrebbe essere provato o è ancora "sub indice" o configurando collegamenti personali in forza di una sorta di proprietà transitiva per cui il contatto con una persona è richiamato a dimostrazione del contatto con altra con cui quella persona era in contatto, non basta a

fornire la prova dello specifico rapporto associativo di cui è processo che, come già si è notato, va dimostrato a livello di effettività e non di mera potenzialità.

Ed ancora, quanto implausibile sia l'identificazione del tramite associativo nel fatto che nell'indirizzario di una rivista di area "avanguardista" quale "Confidentiel" figurino il CELLI ed altre personalità del suo corteo piduista, si giudica da sé, come se una comunanza ideologica tra redattori e destinatari di una pubblicazione possa far fede di relazioni personali o addirittura di vincoli associativi e collegamenti operativi tra i medesimi.

Il quadro impressionante, ma in realtà impressionistico, che il P.M. appellante, traccia dei rapporti che sarebbero intercorsi in Argentina ed in altri paesi esteri con uomini politici, dei servizi, delle ambasciate e di organismi militari per farne discendere la certezza di un immanente collegamento col GELLI in funzione protettiva e sponsorizzatrice per il semplice fatto dell'influenza che quegli esercitava massonicamente e carismaticamente

sulle politiche e su personalità eminenti di quei paesi è in buona parte frutto di presunzioni che detraggono alle notevoli capacità di "entratura" autonoma del DELLE CHIAIE in certi ambienti congeniali alle sue idealità politiche o sensibili ai suoi maneggi.

Né l'associazione col GELLI in affari eversivi italiani può desumersi da rapporti intrattenuti anche a scopo affaristico con persone (Federici, Von Berger, Giunchiglia) orbitanti intorno al capo della P2 e meno che mai col CIOLINI, di questo ambiguo e screditato personaggio, che diverrà interessato accusatore dello stesso DELLE CHIAIE circa la strage di Bologna.

Infine l'attività che il DELLE CHIAIE avrebbe esplicato "a ridosso" (p. 51 motivi di appello) di tale esecrabile delitto esula dalla cognizione di questa Corte (pendendo al riguardo un filone di indagini processuali in altra sede) e qui se ne parla soltanto per evidenziare che, quand'anche essa dovesse essere accertata, non potrebbe considerarsi da sola dimostrativa dell'avere il DELLE CHIAIE operato per attuare

una strategia eversiva concordata nell'ambito di un'associazione precostituita col GELLI e gli altri coimputati di questo reato, ben potendo l'attività di cui trattasi essere il portato di individuali e autonome risoluzioni e piani eversivi maturati nell'area rivoluzionaria di appartenenza e ad essa circoscritti.

Le motivazioni degli appelli del Procuratore Generale e dell'Avvocatura dello Stato non si discostano da quelle esaminate dell'appello del Procuratore della Repubblica né prospettano elementi di giudizio integrativi di quelli enunciati in sentenza.

 

6. La posizione di TILGHER ADRIANO

Di ADRIANO TILGHER la sentenza impugnata (p. 1639 e segg.) pone in rilievo l'opera svolta nel 1979 di arruolamento di giovani nell'ambito della riorganizzazione di Avanguardia Nazionale per l'attuazione di un programma di lotta armata rivoluzionario unitaria ed il tentativo effettuato di attrarre in essa per tramite del DI MITRI, Giusva FIORAVANTI e Ualter SORDI.

Su questa attività del TILGHER pende

procedimento penale in altra sede.

Qui se ne parla soltanto per notare che anche a considerare certi in base ai dati esposti in sentenza la suddetta attività, e il disegno eversivo ad essa sotteso, non perciò sarebbe lecito indurne, se non sul solito filo congetturale, il piedistallo associativo col GELLI e gli altri coimputati sul quale l'iniziativa del TILGHER avrebbe preso corpo nell'ambito di una strategia con essi concordata e con l'assicurazione di ricerverne sostegno e copertura.

Per il TILGHER peraltro non è neppure configurato un tratto di collegamento personale col GELLI (la sua appartenenza alla P2 di cui è cenno nei motivi di appello del Procuratore Generale - p.23 - o frutto di travisamento giacché il TILGHER piduista è il padre dell'imputato), ne tale collegamento può seriamente affermarsi per il solo fatto, già menzionato, della presenza del nominativo del GELLI nell'indirizzario della rivista "Confidentiel" rinvenuto nello studio del TILGHER di via Alessandria, fatto che, a ben vedere,

sembrerebbe più idoneo a dimostrare l'inesistenza del segreto rapporto associativo ipotizzato dall'accusa, che, se sussistente, avrebbe dovuto spingere il TILGHER a non rendere palese quel compromettente nominativo.

Nei motivi del P.G. si fa anche parola della

società ODAL gestita dal TILGHER, quale "strumento di azione e copertura di Avanguardia Nazionale" e che sarebbe stata collegata con la società ASCOFIN, a sua volta agente a copertura dei servizi segreti; ma, a parte ogni questione

sulla positiva verifica di tali proposizioni

assertorie, la prima attiene al rapporto tra

l'ente e la formazione eversiva che se ne sarebbe giovato come rivestimento legale e dunque nulla consente di inferire circa la sussistenza di quell'altra superiore ed occulta formazione di cui il TILGHER avrebbe fatto parte; la seconda proposizione pretende di risalire induttivamente a quest'ultimo assunto attraverso un percorso cosparso di sospetti; che essendo l'ASCOFIN un soggetto anche esso fittizio (creato per esigenze dei servizi di sicurezza) ed avendo avuto rapporti con l'ODAL (creatura di Avanguardia

Nazionale) siano entrambe emanazione o agenzie di un unico rettorato e protettorato occulto dell'intero schieramento della destra eversiva italiana, impersonati dal GELLI e dagli uomini dei servizi a lui associati nella P2, laddove è altrettanto consentito pensare che le società svolgessero reale attività nel campo degli affari per cui erano state costituite; che avessero allacciato relazioni economiche sulla base di conoscenze personali o anche di affinità ideologiche tra i rispettivi soci e che ad una di esse (l'Ascofin) fossero interessati i servizi di sicurezza per proprie esigenze funzionali.

D'altro canto non è dato capire a quale strategia eversiva dovessero rispondere i due organismi fittizi e a quale finalità dovesse ubbidire il collegamento per giunta non occultato (risulta da scritture contabili) tra di loro.

Quel che comunque non può affermarsi è che il TILGHER, presunto associato al rettorato/protettorato configurato dall'accusa, ne abbia tratto benefici, essendo stato più volte denunciato, incarcerato e processato per fatti relativi alla formazione politico-rivoluzionaria.

 

7. Le posizioni di BALLAN e GIORGI

Le pagine che la sentenza dedica alla illustrazione della posizione del BALLAN (p. 1645 e segg.) sottolineando i rapporti intercorsi tra il medesimo, il TILGHER, il MAGNETTA, il FIORAVANTI, il CAVALLINI, il FACHINI e il DELLE CHIAIE, nel mentre focalizzano episodi in cui l'uno e l'altro o più di uno di loro si trovano accomunati in imprese delittuose (rapina alla Chash Manhattan Bank, favoreggiamento dell'evaso CAVALLINI, custodia di armi), non contengono un solo elemento di giudizio riferibile al "thema probandum" (l'esistenza della superassociazione che è cosa diversa da quella specie di "joint venture" in attività paraeversive menzionate dalla sentenza).

Né qualche elemento indiziariamente rilevante è dato trarre dalle deduzioni impugnative del versante accusatorio, che trattano del BALLAN unicamente come seguace del DELLE CHIAIE e del TILGHER in Avanguardia Nazionale.

Lo stesso discorso va fatto per GIORGI MAURIZIO, altro illustre seguace del DELLE

CHIAIE, stabilitesi in Sudamerica dal luglio 1977 all'ottobre 1981, essendo evidente che la collaborazione dal medesimo prestata al SID e l'esser stato redattore e diffusore in Sudamerica della rivista "Confi denti al", propugnatrice della internazionalizzazione della lotta rivoluzionaria, non consentono di evincerne che tali attività egli compisse quale associato nella formazione occulta di cui è processo.

 

8. La posizione del PAZIENZA

Di FRANCESCO PAZIENZA, quale esponente di rilievo della componente del SISMI deviato in seno alla superassociazione profilata dall'accusa, la sentenza impugnata pone cura (p. 1655 e segg.) nell'accertare l'epoca dell'ingresso negli uffici romani del SISMI e la determina sulla base dei ricordi dei testi LALLE, NOTARNICOLA e COGLIANDRO tra la primavera e l'estate del 1979, respingendo l'assunto dell'imputato che la sposta di alcuni mesi in avanti, non senza qualche fondamento (il gen. LUGARESI alla Commissione parlamentare sulla P2 affermò che il PAZIENZA era approdato

"stabilmente" al servizio verso la metà del 1980;

il gen. CHIARI nel rapporto in data 24/11/1981 fa risalire all'inizio del 1980 il trasferimento del PAZIENZA da Parigi a Roma; la circostanza che egli cominciò a far uso di aerei CAI del servizio solo negli anni 1980 e 1981).

L'accertamento, che ha un valore limitato, come si dirà, al fine di stabilire la responsabilità dell'imputato nel delitto di calunnia aggravata, non ne ha alcuno al fine di assodare se la suprema alleanza tra il GELLI, i capi della destra eversiva e gli uomini dei servizi tra i quali il PAZIENZA, andava a collocarsi (nel 1979 o nel 1980) fosse realmente esistita.

Certo è che da nessuna emergenza processuale risulta che a costituirla, a organizzarla, a dirigerla fosse stato il nuovo fiduciario astro del SISMI, che alla sua apparizione, secondo l'ampia prospettiva accusatoria, l'avrebbe trovata già viva, risalente e operante; come anche è certo, nulla essendo emerso in contrario, che il PAZIENZA avesse di già, prima dell'ingresso al SISMI, relazioni con esponenti

dell'eversione nera (SIGNORELLI, DELLE CHIAIE) o che di poi le avesse stabilite.

Resta così soltanto il rapporto con il GELLI che la sentenza dà per certo, ma che non è affatto tale in base agli elementi di giudizio da essa esposti.

Ed invero, la testimonianza della solita LAZZERINI, diarista talora di fatti non ancora accaduti (come del caso Moro e del caso Ambrosoli), il che segna la misura della sua credibilità, contiene in sé il germe dell'inattendibilità quando, facendo il calcolo mentale delle volte che aveva visto il "noto" PAZIENZA stazionare nel Salone dell'Excelsior "in

attesa del GELLI" (e perché non di altri?) o entrare nel salotto più piccolo ove il GELLI riceveva (opportuna correzione focalizzatrice della precedente immagine sfocata), la teste si dichiara sicura - per esclusione dell'anno 1980 in cui ella non aveva visto il PAZIENZA e dell'anno 1981 in cui ella aveva visto una sola volta il GELLI, senza vedere il PAZIENZA - che le presenze di quest'ultimo all'Excelsior risalivano al 1979.

Il germe dell'inattendibilità di questo ricordo è insito nel rilievo che, fosse o meno già nel 1979 il PAZIENZA venuto in Italia e approdato al SISMI, certamente non era un personaggio allora notorio, tale da attirare l'attenzione e la curiosità della donna ed imprimersi nella sua memoria, né appare realistico pensare che, acquisita la notorietà, la di lui immagine ritornasse alla mente della donna, tra le tante di coloro che venivano a colloquiare col GELLI.

Quanto alla dichiarazione resa da Michele SINDONA al giudice istruttore milanese circa la prospettazione che il PAZIENZA avrebbe fatto al banchiere in disgrazia di poterlo aiutare in quanto esso PAZIENZA era amico del GELLI, non si comprende perché si i debba credere al SINDONA e non al PAZIENZA che ha smentito di aver detto quanto l'altro gli attribuisce; e per la verità si comprende ancor meno quale necessità avesse il SINDONA dei buoni uffici del PAZIENZA per accedere all'aiuto del GELLI al di là del diretto canale piduista utilizzabile per quello scopo.

Il terzo elemento di giudizio che dovrebbe

rendere edotti del collegamento tra il GELLI ed il PAZIENZA (la rapida e folgorante ascendenza da quest'ultimo realizzsata nel SISMI piduista) non si solleva da una valenza puramente ipotetica e nulla concede alla capacità del PAZIENZA di farsi strada da sé in virtù di proprie iniziative e risorse anche carismatiche, tratte dalle vaste conoscenze di persone autorevoli che egli possedeva (o affermava di possedere) in ambienti politici, economici e culturali interni (fu lui ad organizzare un viaggio dell'On.PICCOLI negli Stati Uniti) ed esteri (perfino in Vaticano) ed anche nel mondo dei servizi di sicurezza estera (fu lui a porre in contatto il SANTOVITO con i servizi segreti francesi).

Ed ancora, se effettivamente al "salvataggio massonico" del GELLI (p. 1661) dopo la perquisizione di Castiglion Fibocchi ed il rinvenimento delle liste degli iscritti alla P2, prese parte il PAZIENZA, come questi ebbe a dichiarare al giornalista BARBERI, ciò non significa che tra loro corressero pregressi rapporti personali e tanto meno associativi giacché in quella dichiarazione il PAZIENZA fece

presente di non conoscere il GELLI e di essersi mosso per conto di altri, mentre è priva di ogni fondamento obiettivo l'opinione manifestata in sentenza che l'operazione mirasse ad un affiancamento o ad una successione del GELLI da parte del PAZIENZA alla testa dell'"impero" creato dal primo.

Palesemente arbitraria è poi l'altra opinione che il successivo conflitto verificatosi tra i due personaggi implicasse una pregressa compenetrazione di interessi, apparendo evidente che situazioni conflittuali possono insorgere anche tra persone che non hanno tra loro relazioni, per effetto, come sarebbe avvenuto nella specie, secondo il punto di vista espresso dal PAZIENZA, di iniziative assunte da terzi interessati a beneficiare il GELLI a discapito del PAZIENZA.

E' infine appena il caso di rilevare l'assoluta irrilevanza dell'argomento che pretende indurre dalla frequentazione dei medesimi ambienti interni e internazionali da parte dei due prevenuti e dai rapporti che essi intrattenevano con le medesime persone, una loro

relazione personale e addirittura associativa.

In conclusione, anche dalla disamina della posizione del PAZIENZA svolta dalla sentenza impugnata, le cui argomentazioni si ritrovano sostanzialmente, senza diverse ed ulteriori integrazioni, nelle deduzioni degli appellanti del versante accusatorio pubblico e privato del processo, non è dato ricavare elementi di prova circa la sussistenza dell'associazione sovversiva dedotta in giudizio e ciò quand'anche si potesse ritenere dimostrato il collegamento del PAZIENZA col GELLI in ambito SISMI e fuori di esso giacché occorrerebbe pur sempre che la prova investisse l'accordo di entrambi con gli uomini del SISMI e quelli dell'eversione nera volto al compimento dì atti di violenza finalizzati allo stravolgimento dell'ordinamento costituzionale, finalità, questa, che appare piuttosto dissonante con il vantaggioso e gratificante assetto di potere raggiunto dal PAZIENZA nell'attuale sistema di relazioni politiche.

 

9. La posizione di MUSUMECI E BELMONTE

Passando a definire la posizione del MUSUMECI

e del BELMONTE quali esponenti del SISMI deviato, all'ombra, come si sostiene, del GELLI e del PAZIENZA (ma senza adeguato supporto di prova, secondo quanto sarà detto a suo luogo), la sentenza (p. 1664 e segg.) si sofferma a porre in rilievo alcuni precedenti di carriera dei due ufficiali dei carabinieri e alcuni loro comportamenti o atteggiamenti, che manifestamente non sono pertinenti all'oggetto da provare, ma possono tutt'al più avvertire della capacità prevaricatrice dei medesimi, del resto estrinsecatasi nel grave fatto di peculato per il quale hanno riportato condanna definitiva e in quello di calunnia loro attribuito nel presente procedimento.

Così è del fatto che fra il "71 ed il "74 il MUSUMECI fece parte, nell'ambito della divisione di appartenenza, di un "gruppo di potere al di fuori della gerarchia" annoverante alcuni ufficiali "piduisti" come lui o coinvolti in operazioni deviatorie relative alla strage di Peteano.

Quanto al BELMONTE giova poco o punto sapere (al fine della prova dell'associazione eversiva

di cui è processo), dei suoi stretti rapporti col MUSUMECI, del tentativo da questi esperito di farlo iscrivere alla P2, delle confidenze fatte al maresciallo SANAPO sulla dominante posizione del PAZIENZA nel SISMI.

Anche quelle che la sentenza (p. 1667 e segg.) propone come "ulteriori tessere del mosaico probatorio" all'analisi critica si rivelano illusorie.

Se anche è da credere all'IZZO al CALORE e al SODERINI circa le profferte d'aiuto che il GELLI avrebbe fatto pervenire a VALERIO FIORAVANTI attraverso l'avv. Di Pietropaolo in cambio di un contegno processuale che permettesse al GELLI di star tranquillo in ordine alla vicenda dell'omicidio Pecorelli, la conclusione che se ne può trarre riguarda i rapporti intercorsi tra il giornalista ucciso, il sospetto uccisore e il sospetto mandante, che formano oggetto di indagini processuali in altra sede, mentre nella presente sede l'episodio si presta semmai ad una riflessione in senso contrario alla sussistenza dell'associazione ipotizzata dall'accusa giacché se per davvero questa fosse sussistita e il

FIORAVANTI ne fosse stato uno dei bracci armati autore anche della strage alla stazione ferroviaria di Bologna, il GELLI si sarebbe dovuto preoccupare più di questo che di tutto il resto e non sarebbe stato neppure necessario che egli promettesse aiuti, ciò essendo implicito nell'accordo associativo, finalizzato, secondo l'accusa alla programmatica protezione degli eversori neri.

Della rivista "Confidentiel", diretta dal giornalista Mario TILGHER, iscritto alla P2 e padre dell'imputato Adriano, nei cui uffici fu rinvenuto l'indirizzario degli abbonati, già si è detto: la sentenza vi ritorna per sottolineare che tra di essi oltre al GELLI e ad alti ufficiali figurava anche il CIOLINI.

Orbene qui delle due l'una: o la rivista si considera organo dell'associazione ed allora sembra quanto mai inverosimile che gli occulti soci se ne facessero palesemente abbonati; o essa si considera organo di una determinata cultura ideologico-politlca ed allora l'abbonamento ad essa può riflettere l'interesse dell'abbonato a siffatto messaggio culturale ma non può valere a

dimostrare l'esistenza di un'associazione tra redattori e destinatari della pubblicazione allo stesso nodo che la sottoscrizione di un abbonamento ad un periodico di partito non può significare la iscrizione ad esso.

Dunque la presenza, tra gli abbonati, del CIOLINI che peraltro per qualche tempo ebbe relazioni col DELLE CHIAIE, prima di divenirne nemico, non ha alcun particolare significato con riferimento al "thema probandum". E lo stesso deve dirsi della presenza del GELLI, verosimilmente spiegabile col fatto che direttore della rivista era un affiliato alla P2.

Tra le tessere del "mosaico probatorio" la sentenza annovera (p. 1670) anche la "riflessione" cui addivennero l'ALEANDRI e il CALORE sui loro rapporti col DE FELICE, col SEMERARI e col giornalista SALOMONE (interessati al salvataggio giudiziario del costruttore Genghini per riceverne ricompense da certi ambienti politici legati al costruttore), riflessione dalla quale essi trassero il convincimento di essere stati strumentalizzati (nella loro condotta eversiva) da LICIO CELLI e

lo stimolo a sopprimere quest'ultimo.

Ma se tessera probatoria è questa, seppure costituita da un mero opinamento, essa riguarda

il mosaico dell'attività eversiva di "Costruiamo l'azione" che ha un suo apposito luogo processuale e non quello della superassociazione di cui è qui processo, la quale, anche se implicata dalla riflessione dei due eversori pentiti, lo è sul filo ininfluente di un semplice sospetto.

Palesemente ininfluente è ancora il travaso di enunciati rivoluzionari del manuale "Formazione elementare" di matrice avanguardista sequestro a MARCO BALLAN, nelle "norme generali" allegate al secondo "foglio d'ordini" di Ordine Nuovo.

La parentela ideologica e la continuità operativa dei due tradizionali ceppi più attivi dell'eversione di destra, la loro tentata unificazione, il mantenimento di rapporti personali e politici tra gli esponenti di vertice delle due organizzazioni, la reciproca opera auslliatrice in Italia e all'estero, la partecipazione di adepti dell'uno e dell'altro a

rapine di autofinanziamento e quant'altro attiene al mondo variegato e intrincato del rivoluzionariemo e del terrorismo di stampo neofascista, costituiscono dati di fatto che, né individualmente, né "sinotticamente" considerati, autorizzano se non a livello di non consentito congetturalismo l'illazione che, ad onta delle apparenti divisioni e del frazionismo di facciata, gli uomini più rappresentativi delle forze operanti in campo trovassero un momento e un luogo occulti di convergenza e coesione associativa (ignoti anche ai loro adepti impegnati in azioni terroristiche, come il Vinciguerra, il CALORE, l'ALEANDRI, per tacer di altri, prima che, a giochi fatti, costoro, a dir loro, aprissero gli occhi) nell'alleanza col GELLI, e con operatori del cosiddetto "SUPERSISMI" deviazionista, per sconvolgere sotto l'ala protettiva di tali potenti alleati (da supporre interessati quanto loro al risultato) l'ordine costituzionale vigente, attuando in tal modo quanto non erano riusciti o non riuscivano a compiere violentemente.

Né, per finire, allo stabilirsi di una tale

ipotetica intesa, può recare un apprezzabile contributo conoscitivo l'analisi postuma dello stragismo fatta da uno (il Vinciguerra) che ne aveva fatto pratica con la strage confessata di Peteano, se criticamente vagliata.

L'analisi del VINCIGUERRA, corrente, anch'essa, sui binari del sospetto anziché della concretezza dei dati di giudizio, non giunge a postulare che lo stragismo sia stato emanazione di una struttura associativa occulta del tipo di quella prospettata dall'accusa.

Partito dall'idea che allo stragismo fossero estranee sia "Avanguardia Nazionale" che qualsiasi altra formazione di estrema destra in quanto tale, egli si era convinto che le stragi fossero opera di elementi mimetizzatisi in dette formazioni per conto dei servizi di sicurezza.

Di questo suo convincimento di fondo egli intendeva trovare conforto in un confronto chiarificatore con il gruppo dirigente di A.N., ma rimase deluso a causa dell'indifferenza e

dell'ostilità in quegli ambienti incontrate, dal che affermava (p. 1673) di aver "tratto le debite conclusioni".

Quali queste siano non è dato conoscere: egli in un incontro col BALLAN, come da costui riferito, aveva affermato di essere in possesso di elementi precisi e circostanziati in ordine all'implicazione del SIGNORELLI, del FACHINI e di altri ordinovisti in una struttura occulta che utilizzava gli ambienti di destra in sintonia con apparati istituzionali (suscitando nell'interlocutore l'idea di trovarsi di fronte a un altro CIOLINI, cioè ad un mitomane calunniatore), ma il vero è che di quegli elementi se pur da lui posseduti, non ha ritenuto di far parola ai giudici, con conseguente inuti1izzabilità processuale del dato rivelato dal BALLAN.

A questo punto, tirando le fila della lunga rassegna critica degli elementi di giudizio sulla base dei quali la sentenza impugnata ha ritenuto di poter formulare un legittimo ragionevole dubbio circa la sussistenza della struttura occulta associativa postulata dall'accusa

(incontrando le censure degli appellanti di tale versante, secondo cui quel dubbio non sarebbe giustificato) deve dirsi:

1) che nessuno degli elementi stessi (anche nella versione integrata e sviluppata dagli appellanti) necessaria alla stregua della valutazione singolarmente fattane nelle pagine precedenti, ha la necessaria consistenza di indizio grave e preciso per concorrere alla formazione della prova logica ipotizzata dalla regola di giudizio di cui all'art.192 secondo comma c.p.p. giacché il dato processuale da cui l'elemento è tratto è costitutivamente incerto, o è non pertinente al "thema decidendi", o è di significato ambiguo o ha portata meramente congettuale o è strutturalmente inidoneo in quanto espressivo non di una circostanza di fatto, ma di un opinamento personale;

2) che, anche a prescindere dalla qualità dei dati, nemmeno dalla loro combinazione in una visione e valutazione di insieme, il fatto ignoto da provare - e cioè l'essersi formato tra le persone imputate uno stabile vincolo associativo intorno ad un concordato programma di azioni

violente mirate all'eversione dell'ordinamento costituzionale - emerge per via di logica (e cioè necessaria) induzione dai fatti noti

(processualmente accertati), dal complesso dei quali è lecito soltanto inferire che nel tumultuoso panorama della vita civile politica sociale e economica del Paese, contrassegnato a partire dalla metà degli anni sessanta, da sussulti golpisti, opposti estremismi, azioni terroristiche di varia provenienza, fenomeni stragisti di non acclarata matrice, aspre lotte politiche e sindacali, fermenti militaristi, trame affaristiche, e da sacche di potere occulto annidatesi in apparati istituzionali, uomini succedutisi al vertice dei servizi di sicurezza, alcuni dei quali di ispirazione piduista, prevaricarono di volta in volta dai loro compiti, non assecondando, contrastando o deviando l'opera di accertamento delle responsabilità connesse agli eventi delittuosi sopra cennati o, in alcuni casi, favoreggiando estremisti di destra per essi incriminati.

3) che ogni altra induzione esorbitante dal limile sopra individuato, travalica dai canoni della prova logica di reità, prendendo l'incerta e non consentita via dei giudizi politici, quale è quella che porta a ravvisare nella ipotizzata

alleanza tra massoneria piduista, servizi segreti deviati e forze eversive della destra extraparlamentare in funzione di sbarramento all'avanzata delle forze di sinistra l'immanente chiave esplicativa dell'intera gamma dei fenomeni sopra menzionati, laddove tutt'al più, alla luce delle emergenze processuali, questi sono riconducibili, lungo la linea del loro svolgimento, a determinazioni contingenti o anche ricorrenti di persone o di gruppi agenti in "contiguità", ancorché per scopi propri e diversi (logiche di potere occulto, e di "solidarietà" massonica all'interno e all'esterno delle istituzioni; politiche o tecniche dei Servizi di sicurezza; ideologie sovvertitrici);

4) che l'agire in contiguità - secondo l'opinione cui conclusivamente è pervenuta la sentenza impugnata - ma in mancanza di un previo stabile accordo programmatico, tra i soggetti agenti, che costituisce il nucleo essenziale di una fattispecie associativa, ancorché per la formazione di esso non si richieda una espressa pattuizione con reciproche formali promesse "sinallagmatiche" bastando anche tacite intese

nascenti da fatti concludenti, non integra la ipotesi criminosa di cui all'art. 270 bis c.p. per difetto di un elemento costitutivo e perciò l'assolutoria degli imputati di tale reato deve avvenire con la formula perché il fatto non sussiste.

Non può peraltro condividersi la tesi esposta dagli appellanti del versante accusatorio, secondo cui la tacita intesa associativa tra gli imputati si sarebbe formata in via di fatto e in virtù di una "compenetrazione di interessi e di identità dei medesimi" (così l'Avvocatura dello Stato: p.22 dei motivi} rivelatrice del comune proposito di realizzare mediante atti di violenza l'eversione dell'ordine democratico, con ripartizione di compiti tra "vertice strategico" ispirativo e "centro gestionale" della violenta attività eversiva e dei frutti di essa relativamente alla campagna di attentati del 1978, 1979 e 1980 ed altresì in virtù del ricorrente congegno di un favoreggiamento

"richiesto - offerto nonché accettato - corrisposto sia per la strage di Bologna che per quelle precedenti.

La ragione della non condivisibilità della tesi sta nel fatto che essa dà per dimostrati gli assunti sui quali è imbastita e cioè, per scendere al concreto, che il GELLI ed i suoi adepti nel SISMI (ma anche nel SISDE e nel SID se non anche nel SIFAR) ancorché manchi imputazione al riguardo) avessero interesse, al pari dei presunti associati, alla violenta eversione del sistema che pur consentiva loro una posizione dominante di potere occulto, che fossero essi gli strateghi del piano eversivo; che ne avessero devoluto la gestione tattica ai loro associati e che questi l'avessero curata personalmente o attraverso loro emissari, forti dell'aspettativa se non della preventiva assicurazione di trovare copertura da parte del direttorio strategico.

Si tratta di assunti che si basano manifestamente su sospetti e generalizzazioni, giacché, ancora scendendo al concreto, le stragi di piazza Fontana (1969), di Peteano (1972) e del treno Italicus (1974) avvennero in epoca nella quale il potere occulto del GELLI non era consolidato e al vertice dei servizi segreti sedevano personaggi diversi da quelli

incriminati, né risultano in esse coimplicati i vertici ordinovisti e avanguardisti che ne avrebbero gestito i frutti, peraltro ignorandosi in quali modi; quanto alla campagna di attentati del 1978, 1979 e 1980 (verificatisi in epoca SISMI) da nessuna fonte risulta che questo servizio sia intervenuto a fornire coperture o a deviare il corso degli accertamenti di polizia giudiziaria, di tal che l'unico fatto concludente da cui si dovrebbe desumere l'accordo associativo ipotizzato dall'accusa resta l'attività deviatoria commessa dagli esponenti del SISMI rispetto agli accertamenti giudiziari relativi alla strage di Bologna.

Orbene, anche a prescindere dalle decisioni assolutorie adottate da questa Corte d'assise d'appello in ordine alla responsabilità per tale delitto (e per quello di banda armata) del SIGNORELLI e del FACHINI, che avrebbero ricoperto ruoli di "snodo" tra l'associazione eversiva e l'attuazione della programmata violenza eversiva (assoluzioni che vengono a privare la tesi in esame del precipuo sostegno argomentativo), la suddetta attività deviatoria (nei limiti e per

gli scopi anche da questa Corte riconosciuti) non è affatto riferibile necessariamente ad un'intesa formatasi anche tacitamente in sede associativa prima che si verificasse il fatto delittuoso intorno al quale le manovre depistanti "presero corpo, ben potendo queste essere state originate da circostanze sopravvenute al tragico evento ed essere state perseguite per finalità di favoreggiamento personale, illecito profitto ed interesse politico.

Non va dimenticato infatti che, come risulta dal deposto in questo processo del dr.Ugo SISTI, Procuratore della Repubblica di Bologna all'epoca della strage, fu per interessamento del medesimo allorché egli era cessato dalla carica, e su sollecitazione personale dei giudici istruttori dr.GENTILE e dr.FLORIDIA, che si verificò l'intervento del SISMI nelle investigazioni processuali, intervento che in un primo momento il gen. SANTOVITO capo del servizio fu alieno dal disporre, il che manifestamente stride con la

tesi accusatoria di un programmatico preventivo protezionismo assicurato ai presunti associati dell'eversione nera, alcuni dei quali

(SIGNORELLI, FACHINI, SEMeRARI) erano stati già colpiti da misure restrittive: se associazione vi fosse stata il settore deviato del SISMI non avrebbe mancato di attivarsi da sé, senza attendere le sollecitazioni dei magistrati e senza esitare di fronte ad esse.

 

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Capitolo Nono

LA CALUNNIA

 

1. La posizione di MUSUMECI e BELMONTE

La motivazione della sentenza impugnata ha

seguito, anche per questo capo di imputazione, il

metodo dello "sguardo d'insieme", della utilizzazione, cioè, di una congerie di dati ed avvenimenti che servirebbero a delineare linee di tendenza e comportamenti di gruppi e centri di potere.

Metodo suggestivo e spesso convincente che, però, rivela i suoi limiti di efficacia e concludenza nel momento della messa a fuoco di condotte individuali e di responsabilità personali.

Per il pieno raggiungimento di tali ultimi obiettivi è sempre necessario stringere l'indagine più con gli strumenti probatori tecnico-processuali che con le ampie sintesi logiche e con le valutazioni critiche.

L'analisi della sentenza rivela i seguenti segmenti motivazionali.

Partendo da considerazione molto generale, si

afferma che la devianza dei servizi segreti nazionali, o stata una presenza costante nelle indagini intorno a gravissimi episodi criminosi e, in modo particolare, alle stragi.

Il ricorso a metodi inquinanti è stato, negli anni, ampiamente e ripetutamente, sperimentato ricorrendo ad una sapiente fusione, e confusione, di informazioni, veritiere e false, con lo scopo di confondere e sterilizzare le linee di ricerca dell'inquirente.

Una simile affermazione d'ordine generale questa Corte ritiene di poter condividere, nascendo da obiettiva considerazione di fatti che si sono ripetuti nel tempo e nel corso di vicende processuali diverse.

E' alla domanda concernente l'individuazione dell'interesse, di volta in volta, sottostante tali manovre depistanti che non è sempre possibile rispondere soddisfacentemente, anche se certamente si tratta di motivazioni che comunque contraddicono in foto le funzioni e le finalità

di un servizio di informazione posto a tutela dei superiori interessi nazionali.

La seconda constatazione della sentenza si

riferisce allo specifico oggetto delle indagini dirette alla individuazione dei colpevoli della strage di Bologna.

I nostri servizi segreti accreditarono informazioni, nell'ambito della cosiddetta "pista libanese", riguardanti, tra l'altro, gruppi d'azione tedeschi; informazioni che gli stessi vertici dei servizi sapevano essere destituite di serio fondamento e nate nell'ambito di una manovra propagandistica dell'OLP.

Sul punto non resta che richiamare, e confermare, le puntuali ricostruzioni della intricata vicenda proposte dal primo giudice.

Il passaggio successivo delinea l'anello più ristretto costituito dalle responsabilità individuali e trova massimo fondamento nel riconoscimento di quell'organismo associativo che questa Corte non ha ritenuto di poter configurare con riferimento a responsabilità individuali.

Gli autori delle attività definibili come calunniose sono stati, infatti, identificati nel

MUSUMECI, nel BELMONTE, nel GELLI e nel PAZIENZA, i quali, tutti, si sarebbero mossi in vista di quelle finalità eversive dell'ordine democratico

descritte nel capo di imputazione relativo alla associazione.

Rimasto indimostrato il comune tessuto connettivo sul quale la calunnia avrebbe assunto tutto il suo più inquietante significato di deliberato depistaggio delle indagini, le condotte criminose ascritte al MUSUMECI ed al BELMONTE, ampiamente ricostruite nella loro materialità da sentenza passata in cosa giudicata, sia pure con riferimento a diverse ipotesi delittuose, (vedi sentenza di condanna irrevocabile pronunciata dalla Corte di Assise di Appello di Roma in data 14.3.1986), restano quelle analizzate, e correttamente qualificate, dalla sentenza impugnata.

Il MUSUMECI ed il BELMONTE organizzarono e portarono a termine l'operazione, ormai nota con la denominazione "valigia sul treno", per ciò stesso, additando agli inquirenti una pista di indagine del tutto falsa ed ingannevolmente costruita.

Essi, con la citata sentenza romana, sono stati dichiarati colpevoli del delitto di peculato, con quella stessa operazione consumato.

Le medesime illecite condotte vengono ad integrare, come diffusamente provato dalla ricostruzione dei giudici di primo grado, anche il delitto di calunnia ai danni di tutti quei soggetti falsamente indicati, negli appunti trasmessi dal MUSUMECI e nei documenti collocati nella valigia, come coinvolti, a diverso titolo, in atti di terrorismo internazionale e nella stessa strage della stazione di Bologna.

L'opinione espressa dagli appellanti circa la non configurabilità del delitto di calunnia, per non essere i funzionari del SISMI tenuti a fare rapporto all'autorità giudiziaria e' erronea giacché le informative trasmesse alle autorità di polizia giudiziaria costituiscono palesemente atti di denuncia, anche se provenienti da pubblici ufficiali non tenuti a fare rapporto di reato, mentre la collocazione della valigia sul treno Taranto-Milano è manifestamente attività di calunnia "reale" attraverso la simulazione di tracce di reato a carico di innocenti.

Ed il ritrovamento, in quella valigia, di esplosivo con composizione del tutto simile a quello adoperato a Bologna, non può lasciare

residui dubbi sulle finalità e sulla collocazione dell'intera operazione, palesandosi del tutto insostenibile l'assunto difensivo del BELMONTE che vorrebbe negare collegamenti strumentali tra l'operazione "valigia sul treno" e le indagini sulla strage.

L'azione calunniatrice posta in essere da soggetti non vincolati da trame associative, ed eversive, rende non più riconoscibile la aggravante, contestata per il delitto di calunnia, di avere gli imputati agito per fini di terrorismo.

Sganciata, infatti, dall'insussistente reato di cui all'art. 270 bis c.p. , e perciò, dalla finalizzazione eversiva di questo costitutiva, la condotta calunniosa degli imputati perde cotesta connotazione aggravativa.

La finalità con essa perseguita certamente non fu quella di evertere l'ordinamento democratico, alla quale le false informazioni e incolpazioni non erano peraltro palesemente

idonee, posto che il fuorviamento degli organi di polizia e di giustizia, anche in investigazioni relative a fatti terroristici, non può valere di

per sé a caratterizzare il fatto come eversivo, ma soltanto, a misurare la gravità del comportamento criminoso degli operatori, specie se titolari di pubbliche funzioni.

Pienamente integrate e riconoscibili le altre aggravanti contestate: quella del numero delle persone, per avere il MUSUMECI ed il BELMONTE agito in concorso con altri soggetti non ancora identificati (art.112 n.1 c.p.) e quella di cui all'art. 61 n.2 c.p. (nesso teleologico), per avere commesso il delitto di calunnia per "assicurare la impunità agli autori della strage verificatasi in Bologna il 2.8.1980 e agli autori dell'attentato del 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano".

Quanto a quest'ultima aggravante, ritiene la Corte che la finalità primaria di illecito profitto patrimoniale, perseguita attraverso la consumazione della calunnia, anche se necessitava di false indicazioni di nominativi di sospettabili e di piste di indagine, non può essere disgiunta, con riferimento all'elemento soggettivo che sorreggeva le condotte illecite, anche dalla piena consapevolezza, negli agenti,

dell'ulteriore effetto della loro azione, e cioè, della copertura, attraverso lo sviamento delle indagini, dei veri autori di quei clamorosi fatti criminali.

Un'ultima considerazione ritiene questa Corte di dover fare a proposito della lunga memoria difensiva presentata dal BELMONTE nel corso del giudizio di appello.

La puntigliosa contestazione argomentativa si indirizza soprattutto sul deposto del SANAPO e sulla ricostruzione della vicenda da questi proposta.

Ma, osserva la Corte, a prescindere dalla convincente motivazione che sul punto hanno dato i primi giudici, che hanno concluso per la attendibilità del SANAPO, le diffuse argomentazioni del BELMONTE non inciderebbero, sul piano probatorio, riguardo alle accertate sue responsabilità, proponendo, semmai, compartecipazioni illecite dello stesso SANAPO.

La conferma della dichiarazione di colpevolezza del MUSUMECI ed del BELMONTE in ordine al reato di concorso in calunnia pluriaggravata, (esclusa la aggravante speciale

di cui all'art. 1 Legge 6.2.1980 n. 15), e l'unificazione in unico reato continuato con i reati in ordine ai quali i medesimi hanno riportato condanna irrevocabile (sentenza 14.3.1986 della Corte di Assise di appello di Roma), rispettivamente, alla pena di anni tre, mesi undici, giorni 15 di reclusione e lire 1.200.000 di multa ed alla pena di anni tre, mesi cinque giorni 15 di reclusione e lire 1.000.000 di multa, porta questa Corte ad aumentare, a ciascuno degli imputati, le suddette pene di anni tre di reclusione, e quindi, a determinare unitariamente la pena, quanto al MUSUMECI, in anni 6, mesi undici e giorni 15 di reclusione e lire 1.200.000 di multa e, quanto al BELMONTE, in anni 6, mesi 5, giorni 15 di reclusione e lire 1.000.000 di multa.

Pene complessive che debbono essere condonate, ciascuna, nella misura di anni tre di reclusione.

Il BELMONTE ed il MUSUMECI, debbono essere condannati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili VALE Giorgio,

GAROLFI VALE Anna Antonia, FIORE Roberto, ROSSI Giovanni ed AFFATIGATO Marco; spese che si liquidano, quanto alla difesa del VALE e della GAROLFI, in lire 3.000.000 per onorario; quanto alla difesa di AFFATIGATO e ROSSI, in lire 1.000.000 per onorari ; e quanto, infine, alla difesa di FIORE, in lire 1.160.000, di cui lire 1.000.000 per onorari; al netto di I.V.A. e Cassa Previdenza Avvocati.

Con riferimento alla condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, è stata avanzata la richiesta di assegnazione di somme a titolo di provvisionale.

La Corte non ha gli elementi per stabilire anche in via presuntiva l'entità dei danni subiti dalle persone falsamente incolpate e procedere ad una liquidazione anche parziale dei medesimi.

Le richieste vanno perciò respinte.

 

2. GELLI e PAZIENZA nel delitto di calunnia pluriaggravata ascritto al MUSUMECI e al

BELMONTE.

Gli appelli proposti dal GELLI e dal PAZIENZA, che qui si esaminano congiuntamente per la connessione della posizione degli appellanti secondo la prospettiva accusatoria recepita in sentenza (p. 1203 e segg.) sono fondati.

Già la piattaforma associativa su cui si regge l'affermazione della responsabilità concorsuale dei due imputati in ordine al reato di calunnia commesso dal MUSUMECI e dal BELMONTE, rientrante secondo l'impianto accusatorio nella cornice del reato associativo, come una tra le varie attività eversive programmate dagli associati, deve ritenersi insussistente, perché non raggiunta da prova in base alle considerazioni già espresse in altra parte della presente sentenza.

Ma pur staccata da quella piattaforma, occorre verificare se, in mancanza di una prova diretta, sussista una prova indiziaria valevole ai sensi del l'art.192 secondo comma c.p.p. a fornire la certezza del "factum probandum", che

consiste nella identificazione di una delle forme tipiche di concorso morale (determinazione, istigazione, accordo) del GELLI e del PAZIENZA nel l'agire calunnioso ascritto materialmente agli esponenti del SISMI.

E' di tutta evidenza che la identificazione del rapporto di concorsualità morale non può conseguirsi facendo perno sulla mera posizione di ascendenza massonica esercitata dal GELLI e di prestigio personale conquistato dal PAZIENZA, nei riguardi degli autori dei comportamenti calunniosi, posizione che può soltanto aprire la porta ai sospetti o alle illazioni generalizzatorie fondate sulla presunzione che ogni iniziativa assunta dai dirigenti del SISMI nascesse da una direttiva impartita dal GELLI o fosse a lui partecipata o da lui consentita o con lui concordata anche nelle modalità esecutive, oppure filtrasse dall'ingegno del PAZIENZA o fosse attuata in collaborazione operativa del medesimo, o perché questi era di casa nella sede

del SISMI e avesse incondizionato accesso nell'ufficio del suo direttore SANTOVITO e dimestichezza di relazioni col MUSUMECI e col

BELMONTE.

Un'altra prospettiva erronea da cui bisogna guardarsi e dalla quale la sentenza non è immune è quella di attingere la prova del concorso del GELLI e del PAZIENZA nella calunnia dagli elementi di giudizio utilizzati per ritenere provata la sussistenza del reato associativo di cui all'art.270 bis e viceversa (l'associazione prova la calunnia e la calunnia prova l'associazione) sul riflesso che i due reati sarebbero vicendevolmente funzionali, essendo la trama calunniatrice, nel suo dispiegarsi inquinatorio del processo (tra false informative del SISMI e collocazione della valigia sul treno Taranto-Milano il 13/1/1981) mirata a proteggere la componente eversiva del supposto sodalizio, e, di converso, essendo questo mirato a proteggere gli eversori. Occorre evadere da cotesta evidente viziosa circolarltà di giudizio e valutare senza apriorismi i dati processualmente acquisiti per stabilire in quale effettiva posizione si

collochino i due personaggi rispetto all'attività inquinatrice e calunniosa.

Quanto infine ai rapporti intercorsi tra il

GELLI e il PAZIENZA occorre ricordare quanto già si è detto a proposito della loro presunta associazione: tali rapporti non sono emersi apprezzabilmente a misura di certezza processuale, a tanto non bastando l'infido deposto della LAZZERINI che peraltro non va oltre l'attestazione di visite fatte dal PAZIENZA al GELLI nell'albergo Excelsior, né essendo risultato che il primo fosse associato massonicamente al secondo nella P2 o destinato a prenderne il posto alla testa di tale loggia massonica coperto o si fosse adoperato per il "salvataggio" del medesimo allorché ne declinò la buona sorte dopo la scoperta delle liste degli associati, tutte cose, queste, pur prospettate, ma rimaste indimostrate.

Fatte queste premesse di metodo, si può passare alla verifica critica delle argomentazioni sulla scorta delle quali la sentenza è pervenuta al convincimento, di correità del due prevenuti (p. 1304 e segg.).

Si esordisce col citare l'articolo giornalistico pubblicato l'1/9/1980 sul notiziario "Agenzia Repubblica" curato da Lando

Dell'Amico, in cui, avendo la magistratura bolognese nelle investigazioni sulla strage cominciato a battere la pista del neofascismo eversivo, sulla base di dati di provenienza SISDE al quale erano state rivolte parole di elogio per il contributo prestato al riguardo, si criticava la manifestazione elogiativa in quanto immeritata giacché il SISDE non aveva fatto altro che trasferire da Roma a Bologna vecchie pratiche sull'eversione neofascista.

Poiché il Dell'Amico all'interno del SISMI, secondo quanto da lui dichiarato, aveva come fonte il PAZIENZA ed un ufficiale che si faceva chiamare "il maggiore" e poiché il PAZIENZA nello stesso torno di tempo si era lamentato col giornalista BARBERI per gli immeritati elogi ricevuti dal SISDE, mentre il SISMI a suo giudizio aveva fatto di più, tanto che, a dimostrazione dell'assunto venivano mostrati al giornalista fascicoli riservati del servizio, la sentenza ne inferisce che l'articolo pubblicato dal Dall'Amico era stato ispirato dal PAZIENZA.

E fin qui non vi è alcunché da eccepire.

E' invece sulla finalità che il PAZIENZA,

ispirando l'articolo, avrebbe inteso perseguire, che si profilano le prime incertezze. La sentenza esclude che l'iniziativa del PAZIENZA nascesse da inammissibile spirito di corpo e intravvede in essa il primo dei messaggi inquinatori delle investigazioni processuali diretti dal SISMI ai giudici. L'esclusione, per vero poco realistica non è convincente, sorretta com'è su un mero giudizio etico (l'inconcepibilità della rivalità tra due apparati di sicurezza dello Stato) e sull'opinione che la rivalità fosse "più scenografica che sostanziale". Ma è senz'altro inaccettabile la conclusione che si è tratta dalla premessa e cioè che lo screditamento del SISDE avesse lo scopo di deviare il corso del processo, una conclusione che nasce da semplice congettura e non da rigore logico.

Basta al riguardo considerare la inadeguatezza del mezzo (il notiziario di un organo di informazione a diffusione limitata) rispetto allo scopo che si sarebbe voluto

raggiungere, tanto più se, stando alla linea accusatoria, a conforto della quale il dato viene valorizzato, dietro l'iniziativa del PAZIENZA

dovesse riconoscersi l'intesa col GELLI che avrebbe avuto la disponibilità di ben larghi e autorevoli canali informativi, intesa, d'altro canto, affatto inverosimile perché la critica dell'articolista era rivolta all'operato del SISDE pure rientrante nella sfera d'influenza del GELLI (il gen.Grassini che ne era a capo era, come il gen.SANTOVITO capo del SISMI iscritto alla P2).

Ma, posto anche che il mezzo scelto, avesse raggiunto l'obiettivo propostosi dal PAZIENZA e cioè screditare il SISDE presso l'autorità giudiziaria che procedeva a carico dei neofascisti catturati, non si vede quale intendimento inquinatorio con quel mezzo il PAZIENZA avesse inteso conseguire facendo scrivere al Dell'Amico che il SISDE si era avvalso di notizie già in suo possesso sul neofascismo eversivo, senza fornirne di prima mano e di attuali, anzi avrebbe compiuto opera meritoria avvertendo i giudici di stare attenti a vagliare gli elementi forniti da quel servizio e conunque un gesto che o agli antipodi di un progetto calunniatorio.

LICIO GELLI fa sentire più direttamente la sua voce avvertendo il piduista funzionario del SISDE Elio Cioppa che si stava indagando su una pista sbagliata e che la pista giusta era quella internazionale.

Di questo colloquio non si sa più di quanto ne ha fatto sapere il CIOPPA ed il dato è stato già preso in esame nel trattare della posizione del GELLI rispetto al configurato reato associativo: qui se ne deve ancora parlare per porre in evidenza la sua non concludenza anche in ordine al reato di concorso in calunnia ascritto al GELLI.

Si era a circa un mese dalla strage e in questo frattempo nella pubblicistica nazionale si erano affacciate ipotesi diverse sulla matrice del crimine, non escluse quelle di complotti orditi all'estero.

Il GELLI non per sua iniziativa, ma su richiesta del funzionario del SISDE, che lo sa uomo di potere occulto, conoscitore di uomini e cose, all'interno e all'estero esprime la sua veduta, propendendo per la necessità di battere nelle indagini la pista internazionale.

Non si saprà mai la motivazione di questa sua veduta, la cui manifestazione rieccheggerà a distanza di tempo nel processo nella scarna e sibillina forma di un responso oracolare, per bocca di colui che lo aveva raccolto che non ha saputo o voluto dire di più.

Da questa forma si può soltanto desumere che nemmeno il GELLI, pur convinto che la direzione presa dalle indagini verso l'area del neofascismo eversivo non fosse quella giusta, era in grado di fornire qualche elemento che potesse indirizzare l'investigazione verso questo o quel settore, tra i tanti possibili (terrorismo mediorientale, terrorismo rosso o nero europeo, servizi segreti stranieri) coinvolti dalla indicazione generica di una pista internazionale da battere in alternativa a quella interna.

Che l'intenzione dell'autore di cosi sparuta consulenza fosse quella di "intossicare" sul nascere l'istruttoria del processo e di preparare le basi di una trama calunniosa concordata o da

concordare con gli uomini del SISMI, è opinione formulabile soltanto sul filo di un apriorismo congetturale che non può essere scambiato per

conduttore indiziario di verità processuale.

Allo stesso genere di congetturalismo è improntata in sentenza (p. 1308 e segg.) la valutazione di quello che per brevità può denominarsi l'affare BARBERI.

Il nucleo oggettivo della vicenda, per come emerso in questo processo dalla testimonianza del giornalista, è che egli dal SANTOVITO e dal PAZIENZA fu ammesso a consultare fascicoli contenenti documenti riservati concernenti l'attività informativa del SISMI nel campo del terrorismo internazionale per dimostrare che anche questo servizio nella sfera delle proprie competenze al pari del SISDE non era rimasto inerte nelle investigazioni diramatesi dal recente avvenimento stragistico.

I due esponenti del SISMI erano indignati per l'elogio che il SISDE aveva ricevuto dall'autorità giudiziaria bolognese, ma non pretesero, mostrando i fascicoli, di aver risolto il caso.

Il PAZIENZA, dal canto suo, affermò di non essere ad esso interessato, di non saperne niente, ma che si stava lavorando intorno ad una

"strategia di medio e lungo percorso". Egli andava peraltro sostenendo che le radici del terrorismo a suo giudizio andavano ricercate nell'eversione rossa e nei collegamenti di questa con i paesi socialisti: ed in realtà i documenti esibiti al giornalista contenevano dati esclusivamente significativi in cotesta direzione (salvo quelli riguardanti tal Durand operante come eversore della destra).

Orbene porre questa vicenda nei termini in cui è delineata processualmente come elemento di prova indiretta di un disegno inquinatorio e calunniatorio del PAZIENZA è francamente un fuor d'opera.

Se nel successivo episodio del 13/1/1981 riguardante la collocazione della valigia sul treno Taranto-Milano la calunnia posta in essere dal MUSUMECI e dal BELMONTE avesse investito estremisti interni ed esteri della sinistra, l'affare BARBERI di sarebbe potuto prestare ad un'interpretazione in chiave indicativa della corresponsabilità del PAZIENZA. Il fatto è che l'operazione calunniosa fu rivolta invece contro uomini della destra eversiva interna e uomini di

nazione germanica, ma non contro estremisti della sinistra, di tal che se un significato ai fini della prova potesse avere l'affare Barberi, semmai sarebbe quello di scagionare il PAZIENZA, fervido assertore dell'ascrivibilità della strage al terrorismo di marca rossa e d'importazione estera.

E perché - occorre chiedersi - negar fede alla dichiarazione resa dal col.Giovannone al G.I. (p. 1317 sent.) secondo cui la fornitura dei documenti del SISMI al giornalista non costituiva una manovra depistante bensì la risposta sollecitazioni provenienti da ogni parte e all'accusa di inefficienza di detto servizio, se non per il preconcetto che tutto quanto andava facendo il SISMI in campo internazionale avesse il preciso ed unico obiettivo di contrastare l'orientamento dei magistrati verso la pista interna neofascista?

Quel che si può affermare su base di certezza processuale è che l'opera inquinatoria delle investigazioni processuali cominciò solo dopo che i magistrati ritennero opportuno, con l'intermediazione del dr. Sisti (di cui si è fatto

cenno nel capo dedicato al delitto di associazione eversiva, ivi sottolineando che la iniziativa partì dai magistrati bolognesi e sulle prime non trovò consenso nel SANTOVITO) di coinvolgere nelle investigazioni anche il SISMI presumibilmente per allargare lo spettro dei canali informativi anche su piste internazionali, giacché quella interna segnava il passo.

Protagonisti dell'opera inquinatoria e calunniatrice furono il MUSUMECI e il BELMONTE secondo quanto si è detto nel trattare della loro posizione.

Che essi abbiano agito su istigazione, consiglio, mandato o in accordo col GELLI non risulta da alcun elemento di giudizio processualmente accertato. Il filo che li lega a lui è una mera presunzione: che, avendo egli ascendenza massonica sul Santovito e sul MUSUMECI e interferendo o anche sovrapponendosi ad essi nella loro attività (tra l'altro anche ciò non è provato "per tabulas" attraverso circostanze di fatto significative) non poteva essere rimasto estraneo alla macchinazione, volta anche a trarre dagli impicci personaggi dell'eversione nera a

lui vicini (De FELICE, SEMERARI).

Ora che il GELLI attraverso la P2 si fosse infiltrato nei poteri istituzionali e avesse la possibilità di influenzarne le decisioni è un dato di fatto che può considerarsi pacifico, ma tale possibilità non basta da sola a dimostrare che ogni decisione, anche una scelta operativa, un modo di procedere, una condotta antigiuridica di funzionari iscritti alla P2, sia stata in realtà da lui determinata o con lui concordata, quasi in virtù di una regola di giudizio fondata sul dogma dell'onnipotenza e dell'onnipresenza dell'autorevole e potente personaggio.

Posto anche dunque che la veduta gelliana di dover seguire una pista internazionale di indagini fosse trasmigrata dal SISDE, ove era stata trapiantata e aveva trovato credito, al SISMI, che si sarebbe attivato nella direzione suggerita su impulso di chi l'aveva formulata (ma non era il solo giacché non erano mancate negli organi di stampa supposizioni di trame estere)

non perciò può dirsi accertato che dietro ogni operazione lecita o illecita degli uomini del SISMI si nascondesse l'ideazione e la direzione

del GELLI e che gli operatori non avessero avuto altro movente o scopo che quello di ubbidire servilmente all'occulto direttore. Il quale poi avrebbe smentito sé stesso o assistito all'infedeltà dei suoi agenti, quando questi nelle false o inadeguate o fuorvianti informazioni fornite ai giudici e soprattutto nell'operazione denominata "terrore sui treni" avevano finito non solo per accreditare la pista del neofascismo eversivo, quanto per mettere sotto l'occhio degli inquirenti nominativi di persone operanti in cotesta area (quali Dantini, NALDI, prof.Rossi di Arezzo, ADINOLFI, Vale e gli stessi FIORAVANTI e MAMBRO che si sapeva esser legati al Vale, per non dire poi il DELLE CHIAIE, a cui era agevole pensare tra le righe dell'appunto SISMI del 30/1/1981 relativo alla pista libanese, quando ivi si tira in ballo l'"Alfredo" - sotto il quale nome operava appunto il DELLE CHIAIE - che avrebbe in un campo di addestramento falangista di terroristi di varia

nazionalità segnalato Bologna come città in mano ai comunisti da combattere.

La sentenza fa anche leva sulla figura del

SEMERARI (p. 1935 e segg. sent.) per confortare l'assunto dell'interesse e della partecipazione del GELLI alla trama calunniosa, la quale avrebbe trovato uno dei moventi nella esigenza di evitare che il SEMERARI, prostrato dalla carcerazione, alla vigilia di un cedimento nervoso, potesse fare rivelazioni compromettenti per il GELLI, come attraverso messali indiretti avrebbe mostrato di accingersi a fare, rendendo così impellente la necessità di una sua scarcerazione e perciò di creare imbarazzo nei giudici con un'operazione depistante che potesse favorirla.

Ha anche qui si versa palesemente sul terreno delle supposizioni, che non possono escludersi, ma che nemmeno possono scambiarsi per verità accertate, tanto più se si pensa che a quel tempo (fine del 1980) le investigazioni processuali relative alla pista neofascista già languivano e non occorrevano clamorose vicende per creare imbarazzo nei giudici ed anzi l'operazione "terrore sui treni" avrebbe potuto, cosi come congegnata (come fenomeno di terrorismo nero) rinverdire la pista inizialmente battuta.

A quest'ultimo riguardo la sentenza (p. 1347

e segg.) si adopera a confutare la tesi esposta dalla difesa del FIORAVANTI e della MAMBRO, secondo cui da una certa lettura di quella operazione (il far partire la valigia da Taranto ove i due terroristi avevano stabilito un covo, la falsa informativa sul Legrand e sul Dimitriev intestatari dei biglietti posti nella valigia, con descrizione di fattezze dei medesimi in qualche misura corrispondenti a quelle del FIORAVANTI e del CAVALLINI, la indicazione sui tabulati dei voli in partenza da Milano per Parigi e per Stoccarda, meta dei falsi intestatari dei biglietti, dei nominativi FIORAVANTI e Bottacin, (col quale ultimo nominativo era conosciuto il CAVALLINI) si sarebbe potuto pervenire proprio alla identificazione di costoro come autori della collocazione della valigia (contenente esplosivo assimilabile a quello utilizzato per la strage);

ma la confutazione, peraltro non esaustiva, alquanto laboriosa e in definitiva di consistenza problematica, non toglie che, per lo meno, quel "modus operandi" del SISMI potesse volgere le investigazioni processuali verso il gruppo del

FIORAVANTI, con il che non è conciliabile il supposto interesse del GELLI a tener coperto il giovane terrorista (sospettato autore dell'uccisione del giornalista Pecorelli per conto del capo della P2).

In conclusione, la categorica affermazione che si legge in sentenza (p. 1401): "LICIO GELLI è il mandante della calunnia che si giudica" è frutto di un ragionamento apparentemente logico, ma che nella circonvoluzione delle sue sequenze si dipana da un postulato apodittico:

l'interesse del GELLI all'agire calunnioso degli uomini del SISMI e la proclività di costoro ad assecondare ad ogni costo detto interesse. In definitiva l'ipotizzato mandato non è che un mandato presunto e per giunta infedelmente eseguito.

Mancando la prova della compartecipazione materiale o morale del GELLI alla calunnia, non essendo ai sensi de ll'art.192 secondo comma c.p.p. valevoli ad integrarla gli elementi

meramente congetturali valorizzati in sentenza, l'imputato va assolto per non aver commesso il fatto.

Con la stessa formula va assolto il PAZIENZA, a proposito del quale in aggiunta a quanto già notato, occorre rilevare:

1 ) le informazioni da lui fornite al G.I. di Firenze e riportate in sentenza (p. 1368) sulle tecniche praticate per certe operazioni dai servizi segreti (è da intendere di ogni paese) col rimescolio di fatti veri e fatti falsi non autorizzano ad attribuirgli la qualifica di "teorico della tecnica di disinformazione e regista dell'articolata manovra di depistaggio". La circostanza è indiziariamente nulla.

2) l'essere stato il PAZIENZA consulente esterno del SISMI ma in realtà intraneo alla dirigenzza dell'organismo per la fiducia risposta in lui dal SANTOVITO e per l'autorevolezza da lui esercitata sul medesimo; l'essersi adoperato col suo dinamismo manageriale e le sue conoscenze di uomini di servizi segreti stranieri e di personalità politiche interne ed estere, per il rilancio dell'attività di quel servizio piuttosto stagnante, sono dati di fatto che possono fornire la misura dell'intraprendenza, al limite, della spregiudicatezza del personaggio e, se si vuole,

della sua attitudine a concepire e attuare trame deviatorie, ma certamente non possono costituire indizi dell'averle effettivamente concepite e attuate, a meno che non si voglia accedere alla configurazione di prove di stampo personologico a dimostrazione di responsabilità fondate sul tipo di autore.

3) l'essere stato il PAZIENZA presente all'aereoporto di Ciampino - reduce, insieme col SANTOVITO, da Parigi ove egli aveva posto quest'ultimo a contatto con i servizi segreti francesi - allorché il MUSUMECI ed il BELMONTE il 9/1/1981 consegnarono al gen.NOTARNICOLA all'uopo ivi convocato l'informativa relativa al terrore sui treni, non autorizza a desumerne che, lungi dall'essere spettatore casuale e passivo di questa consegna, fosse stato "supremo controllore e garante del regolare svolgimento di una messinscena di cui aveva egli stesso predisposto il copione". Cosi la sentenza (pag.1382) affetta sul punto da una vistosa petizione di principio, giacché si dà per dimostrato quanto la circostanza esposta avrebbe dovuto contriuire a dimostrare. Peraltro può comprendersi una

messinscena da parte del MUSUMECI e del BELMONTE rispetto al capo del servizio SANTOVITO e al suo fido PAZIENZA ma non ha senso che anche costoro fossero partecipi della messinscena, destinatario della quale si dovrebbe ritenere perciò il gen. NOTARNICOLA, ma allora non si vede il perché della stessa, posto che il SANTOVITO avrebbe potuto impartire a quest'ultimo, suo dipendente le direttive del caso all'interno dell'ufficio e non in concomitanza col suo arrivo all'aereoporto di Ciampino.

4) il fatto che il PAZIENZA verso la fine del 1980 e l'inizio del 1981, posto in contatto dal SANTOVITO, col dottor Francesco POMPÒ, dirigente del primo distretto di polizia della Questura di Roma, fornisse a costui notizie preconfezionate su un traffico di armi ed episodi di terrorismo dovuti ad organizzazioni straniere, riversate in appunti non protocollati, poi trasmessi al Questore di Roma e da questi all'UCIGOS, è dalla sentenza (p. 1322 e segg.) collegato

all'operazione "terrore sui treni", ma il collegamento ancora una volta è congetturale e non indiziario, siccome basato obiettivamente

soltanto sulla concomitanza temporale degli accadimenti e sulla riferibilita delle notizie fornite al POMPÒ ad attività di organizzazioni estere.

Per di più è difficile comprendere pur nella prospettiva accusatoria in cui il dato è valorizzato dalla sentenza, quale interesse potesse spingere il SANTOVITO e il PAZIENZA a far pervenire all'UCIGOS, attraverso un percorso tortuoso, informative che essi avrebbero potuto fornire direttamente a quell'organo di polizia e quale finalità essi si fossero ripromessi di perseguire con specifica inerenza alla fittizia operazione "terrore sui treni", posto che questa, secondo la prospettiva accusatoria, era diretta a fuorviare le investigazioni giudiziarie in ordine alla strage e a far liberare gli eversori di destra detenuti per tale reato.

Anche il dato in parola è dunque vago ed incerto e la valenza accusatoria di esso è perciò nulla; iI dato sarebbe stato indiziante se le informative fornite al POMPÒ avessero in qualche modo riguardato l'operazione depistante e calunniosa, ma così non è.

5) sui non provati rapporti del PAZIENZA col GELLI già si è detto in tema della loro supposta associazione a fini eversivi, ma è ancora da dirsi che non è accettabile l'opinione espressa in sentenza (p. 1383) secondo cui non sarebbe concepibile che egli avesse compiuto la "folgorante" ascesa all'interno del SISMI senza l'avallo del GELLI cui il capo di quel servizio era massonicamente legato. E' un'opinione fondata esclusivamente sulla presunzione che nulla di rilevante si facesse nel SISMI che non promanasse dalla volontà o dall'assenso del GELLI, neppure la scelta di un consulente esterno da parte del direttore che, verosimilmente ancorché piduista non può ritenersi aver abdicato ad ogni suo potere. Ed è peraltro un'opinione ribaltabile perché potrebbe osservarsi che se il PAZIENZA, come si assume, avesse con la sua prorompente personalità e la sua invadenza espropriato dei propri ruoli il debole direttore del servizio e il capo dell'ufficio controllo e sicurezza gen.MUSUMECI asservendoli alle proprie direttive ed iniziative, il GELLI sarebbe intervenuto non per favorire l'ascesa del giovane monopolizzatore

del SISMI ma semmai per arrestarla, giacché l'uomo emergente non faceva parte del suo seguito piduista e sarebbe potuto sfuggire al suo controllo, ammesso che questo fosse così penetrante come la sentenza si dichiara convinta che fosse, non però sulla base di precise circostanze di fatto, ma soltanto argomentando dalla posizione massonica piduista dei due militari.

Anche del PAZIENZA la sentenza (p. 1381 e segg.) attraverso un lungo esame della posizione del GELLI rispetto ai gran maestri del Grande Oriente massonico di Palazzo Giustiniani, Salvini e Battelli (che delegarono il maestro venerabile della P2 a compiere iniziazioni "all'orecchio") sembra voler accreditare l'idea che egli facesse parte del raggruppamento GELLI, ma è un'idea che cozza contro vari obiettivi elementi di giudizio, prima di tutto con quello documentale del non essere il PAZIENZA compreso nelle liste di Castiglion Fibocchi (ove erano censiti personaggi

di più alto rilievo che l'esordiente scalatore di poteri occulti) e secondariamente con la dichiarazione dello stesso PAZIENZA dell'essere

stato iniziato alla massoneria di Palazzo Giustiniani direttamente all'orecchio del Gran Maestro (non dunque del delegato GELLI, il quale non avrebbe mancato di annoverarlo tra i suoi seguaci se avesse proceduto all'iniziazione delegata) e di avere avuto successivamente pressioni da GELLI attraverso Calvi di iscriversi alla P2 alle quali egli aveva risposto che "la cosa era già fatta" in quanto già iscritto al Grande Oriente, dichiarazione da ritenersi attendibile giacché avvalorata dalla relativa scheda di iscrizione sotto la data del 7/5/1980, senza collocazione in alcuna loggia e con dispensa dai lavori massonici.

6) le dichiarazioni del maresciallo SANAPO riportate in sentenza (p. 1392) rieccheggiano confidenze che gli avrebbe fatto il BELMONTE, peraltro in termini allusivi, circa la figura dominante del PAZIENZA in seno al SISMI, come capo di una rete spionistica internazionale, che occorreva far salva attraverso il mendacio sulla

fonte informativa all'uopo richiesto dal BELMONTE ad esso SANAPO.

Quanto in tale confidenza sia corrispondente

al vero e quanto sia frutto di invenzione o di enfatizzazione da parte del BELMONTE per assicurarsi la compiacenza del SANAPO al fine di giustificare la criminosa operazione della valigia collocata sul treno Taranto-Milano, non è dato appurare, di tal che non può assegnarsi alla circostanza quella valenza probatoria che la sentenza ha configurato.

7) Nulla è emerso a carico del PAZIENZA, in questo processo ed in quello romano, conclusosi con la condanna definitiva per peculato del MUSUMECI e del BELMONTE, circa la sua partecipazione all'intesa ed alla ripartizione del profitto di detto reato.

Gli stessi coimputati non hanno chiamato in causa il PAZIENZA e, d'altro canto, se l'architettura dello sfruttamento peculatorio dell'operazione "terrore sui treni" fu appannaggio dei due operatori, essi si sarebbero ben guardati dal farne parola al SANTOVITO e al PAZIENZA.

Né è a dirsi che l'operazione non sarebbe stata dettata da motivi peculatori, atteso che il sistema di finanziamento delle operazioni de

SISMI consentiva di disporre di fondi senza darne conto (e dunque, non necessitava l'invenzione di una fonte confidenziale da retribuire per appropriarsi di danaro dell'ufficio); perché ciò, se mai, poteva valere per il capo del SISMI e non per coloro che in esso operavano (tenuti a far richiesta di spese straordinarie) e per lo stesso capo non mancava un controllo cosiddetto negativo (annotazione di insuccesso dell'operazione finanziata - cfr.atto di citazione del Procuratore Generale della Corte dei Conti nei confronti del MUSUMECI e di altri a pg.42 e ss. vol.Calunnia).

E'opinione di questa Corte che il piano calunnioso sia maturato nella mente del MUSUMECI e del BELMONTE (gli unici che secondo le risultanze del processo romano sono raggiunti da sicuri elementi di prova, vanamente contrastati nel presente processo dalle "memorie" inviate dal BELMONTE), essenzialmente per scopo di profitto patrimoniale, cui si sono congiunti quegli altri

per cosi dire occasionalmente propiziatori derivanti dalla congiuntura in cui i due ufficiali si trovavano ad operare, e cioè il

rapporto aperto con i giudici istruttori del Tribunale di Bologna, che si attendevano da loro informazioni, secondo quanto convenuto, per dare impulso alle investigazioni processuali, ed inoltre il rapporto emulativo verso il SISDE, che in precedenza aveva goduto di ascolto privilegiato presso i magistrati bolognesi.

Con l'opera depistatoria calunniosa tutti e tre cotesti interessi trovavano congiunto appagamento.

Ciò stante da nessun elemento di giudizio può ricavarsi che il PAZIENZA fosse ispiratore di un siffatto piano o interessato in qualche modo alla sua attuazione, postoche, com'è risultato dalle dichiarazioni rese dal Santovito e dal gen.Lugaresi alla Commissione d'inchiesta sulla P2, egli prestò collaborazione al servizio soprattutto in attività all'estero (Arabia, Algeria, America, Francia, vedi p.44 e ss.:

volume calunnia) in connessione anche con propri interessi affaristici.

E' vero che egli aveva preso a cuore la condizione di disagio del SISMI rispetto all'elogio che gli inquirenti avevano reso al

SISDE, come risulta dal menzionato contatto col giornalista Barberi, ma ribaltatasi la situazione a favore del SISMI (con il rapporto privilegiato verso questo servizio stabilito dai magistrati bolognesi) non v'è motivo e comunque non v'è ragione necessaria e sufficiente per pensare che il PAZIENZA, pur attratto dalle sue incombenze (e dai suoi affari) si fosse posto alla guida dei suoi amici del SISMI per dirigerne i passi e i movimenti, come se essi mancassero d'idee o di iniziative o di risorse proprie.

 

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Capitolo Decimo

STATUIZIONI VARIE

 

1. Sulla posizione del GIORGI in ordine ai delitti di cui ai capi 11), 12) e 13) della rubrica.

Tali delitti riguardano la codetenzione di una pistola cal. 7,65, munita di silenziatore e recante l'abrasione della matricola per occultarne la provenienza da una rapina; pistola custodita nell'abitazione di PALLADINO Carmine, cui il GIORGI l'aveva affidata.

Correttamente è stata affermata la responsabilità dell'imputato in ordine ai reati di cui agli artt. 10 della legge n. 497 del 1974, 23 della legge n. 110 del 1975 e 648 c.p. , sulla base delle dichiarazioni rese dal PALLADINO e da PINTUS Emanuele.

Il primo motivo di appello va in proposito respinto giacché l'argomentazione difensiva che se l'arma fosse stata del GIORGI, questi non

l'avrebbe lasciata nell'abitazione del PALLADINO, è palesemente inaccettabile, posto che presuppone l'interesse del GIORGI a tenere l'arma con sé,

mentre appare evidente che egli aveva interesse ad occultare l'arma, proprio lasciandola in quell'abitazione.

Né vale opporre che il PALLADINO avesse tutto l'interesse a chiamare in causa il GIORGI per sfuggire all'accusa di avere posseduto l'arma in proprio, giacché tale chiamata non sarebbe potuta valere a fare escludere la sua responsabilità di custode dell'arma stessa.

E' fondato il terzo motivo dell'appello, in esso assorbito il secondo, ritenendo questa Corte che la pena inflitta al GIORGI debba essere rideterminata per la concessione di attenuanti generiche, sia per l'incensuratezza dell'imputato, sia per la sua posizione "defilata" (così in sentenza, pag. 1652) rispetto ad altri appartenenti ad "Avanguardia Nazionale", al tempo della riorganizzazione del movimento, sia per un opportuno adeguamento della pena alla concreta gravità dei reati unificati per continuazione.

Ai sensi dell'art. 133 c.p., stimasi congrua, per il delitto continuato, la pena di anni due di reclusione e lire 1.000.000 di multa, estinta

interamente per indulto, (pena base per il più grave delitto di ricettazione, anni due e mesi sei di reclusione e lire 1.200.000 di multa; pena ridotta, per effetto delle attenunti goneriche, ad anni uno e mesi sei di reclusione e lire 800.000 di multa ed aumentata, poi, per la continuazione, ad anni due di reclusione e lire 1.000.000 di multa).

 

2. All'udienza del 3 luglio 1990 l'avv.De Cori, difensore dell'imputato FRANCESCO PAZIENZA pronunciava replica alla requisitoria del P.G. e alle arringhe dei difensori delle parti civili, esibendo un testo scritto del suo intervento, al riguardo del quale i difensori delle parti civili avv.Baldi ed avv.Trombetti, quest'ultimo anche come sostituto dell'avv.Calvi e per conto del medesimo, avanzavano istanza, ai sensi dell'art.89 c.p.c. per la cancellazione di frasi e parole sconvenienti e offensive esulanti dall'esercizio del diritto di difesa, contenute in quella memoria difensiva e per l'assegnazione ad essi istanti di una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto,

da liquidarsi in via equitativa.

La richiesta è stata legittimamente formulata a norma dell' art.89 c.p.c. giacché in mancanza di espressa norma nel codice di procedura penale, la lite civile, ancorché accessoria al processo penale ed in esso inserita, non può essere insensibile all'istituto della cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti presentati al giudice dalle parti e dai difensori in violazione di un dovere, che sebbene statuito per il processo civile, ha efficacia e latitudine di principio generale.

Orbene dall'esame dello scritto di cui trattasi appare alla Corte, che pur in un'atmosfera processuale talvolta concitata, alcune espressioni esulino dall'ambito correttamente, anche se passionalmente, defensionale, integrando una gratuita e ingiustificata offesa alla dignità' umana e professionale del difensore destinatario.

Cosi' è dell'espressione relativa ali'avv.Baldi (pag.11); "ecco la menzogna fredda, calcolata, strumentale e disonesta", e di

quell'altra, relativa all'avv.Calvi (p.13) "ha mostrato tutto intero il suo livore, che esula dal processo, ha mostrato la sua protervia, la sua arroganza, tutte doti negative che gli appartengono".

Per mera svista è stata disposta col dispositivo la cancellazione anche dell'espressione "pietoso" contenuta nella stessa pagina, che non si riferisce però al Calvi, ma ad un termine che questi avrebbe usato nel qualificare i motivi di impugnazione stesi dall'avv.De Gori, e non è estrapolabile dal contesto.

Le espressioni offensive di cui sopra, ancorché lesive della personalità dei destinatari sono chiaramente frutto di intemperanza e parossismo defensionale non disgiunti tuttavia dall'oggetto del processo, onde non appare del caso disporre oltre alla cancellazione, una sanzione risarcitoria.

 

3) IANNILLI MARCELLO

Non è stato citato in questo giudizio di appello in quanto la statuizione assolutoria della sentenza della Corte d'assise di Bologna che lo riguarda non era stata impugnata né dal Procuratore della Repubblica, né dal Procuratore Generale. Essa e' stata impugnata soltanto dall'Avvocatura dello Stato per le parti civili da essa rappresentate e difese.

Qualunque provvedimento in ordine a tale impugnazione e' pertanto riservato alla Corte di Cassazione funzionalmente competente a conoscere dell'impugnativa e pertanto gli atti vanno ad essa trasmessi per il relativo giudizio.

 

PER QUESTI MOTIVI

Visti gli artt.202, 207, 209, 523 c.p.p. 1930; 192, 530 c.p.p. 1988; 245, 254 Dec.Leg. n.271 del 1989; 1 e segg. D.P.R. 18.12.1981 n.744 e D.P.R. 16/12/1986 n. 865;

1) dichiara manifestamente infondata la

proposta questione di legittimità costituzionale della normativa concernente i termini per la presentazione del motivi di impugnazione;

2} dichiara inammissibile per mancata notifica alle altre parti ed omessa presentazione dei motivi la impugnazione proposta dalle parti civili private Secci Torquato, Dall'Olio Raffaela, Gallon Giorgio, Gamberini Marina avverso la sentenza della Corte di Assise di Bologna in data 11.7.1988 e condanna gli stessi alle spese cui hanno dato causa;

3) dichiara inammissibile per rinuncia l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica nei confronti di RAHO Roberto avverso la suddetta sentenza; dichiara, altresì, inammissibile l'appello proposto dal Procuratore Generale nei confronti dello stesso RAHO per omessa presentazione dei motivi;

4) dichiara inammissibile l'appello proposto dal Procuratore Generale nei confronti di GIORGI Maurizio per omessa presentazione dei motivi;

5) dichiara inammissibile l'appello proposto da HUBER Klaus Friedrik e da RAHO Roberto per omessa presentazione dei motivi e condanna ciascuno al pagamento delle spese cui ha dato causa;

in parziale riforma della medesima sentenza,

A S S O L V E

6) GELLI Licio, MUSUMECI Pietro, BELMONTE Giuseppe, SIGNORELLI Paolo, FACHINI Massimiliano, DELLE CHIAIE Stefano, TILGHER Adriano, BALLAN Marco, GIORGI Maurizio e DE FELICE Fabio dal delitto di cui all' art. 270 bis C.P. perché il fatto non sussiste;

A S S O L V E

7) il SIGNORELLI, il FACHINI, il RINANI, MELIOLI Giovanni e PICCIAFUOCO Sergio dal delitto di cui all'art. 306 C.P. per non aver commesso il fatto;

A S S O L V E

8) il SIGNORELLI, il FACHINI, il RINANI, il PICCIAFUOCO, FIORAVANTI Giuseppe Valerio e MAMBRO Francesca dai delitti di cui ai nn.3 (strage), 4 (omicidio plurimo), 5 (collocazione di ordigno esplosivo), 6 (lesioni volontarie plurime), 8 (attentato a impianto di pubblica utilità), per non aver commesso il fatto;

A S S O L V E

9) GELLI Licio e PAZIENZA Francesco dal delitto di concorso in calunnia aggravata per non aver commesso il fatto;

10) concesse a GIORGI Maurizio attenuanti generiche in ordine al delitti già unificati per continuazione, di cui ai nn.10,11 e 12 della rubrica, riduce la pena al medesimo inflitta ad anni due di reclusione e lire 1.000.000 di multa;

pena interamente condonata;

11) nei confronti di FIORAVANTI Giuseppe

Valerio, MAMBRO Francesca, CAVALLINI Gilberto e GIULIANI Egidio, in conseguenza delle statuizioni assolutorie di cui sopra,

determina

la pena, in ordine al delitto di concorso in banda armata, come segue :

a) FIORAVANTI Giuseppe Valerio, anni tredici di reclusione;

b) MAMBRO Francesca, anni dodici di reclusione;

c) CAVALLINI Gilberto, anni undici di reclusione;

d) GIULIANI Egidio, anni otto di reclusione;

12} quanto al reato di concorso in calunnia

pluriaggravata ascritto al MUSUMECI ed al BELMONTE, esclusa l'aggravante speciale di cui all'art.1 L.6/2/1980 n.15, e ritenuta la

continuazione con i reati in ordine ai quali i medesimi hanno riportato condanna irrevocabile con sentenza 14.3.1986 della Corte di Assise di appello di Roma, rispettivamente alla pena di anni tre, mesi undici, giorni 15 di reclusione e lire 1.200.000 di multa ed alla pena di anni tre, mesi cinque giorni 15 di reclusione e lire 1.000.000 di multa,

a u m e n t a

dette pene di anni tré di reclusione; e, conseguentemente,

determina

unitariamente la pena, quanto al MUSUMECI, in anni 6, mesi undici e giorni 15 di reclusione e lire 1.200.000 di multa e, quanto al BELMONTE, in anni 6, mesi 5, giorni 15 di reclusione e lire 1.000.000 di multa;

d i c h i a r a

detta pena condonata nella misura di anni tre di reclusione;

conferma nel resto e condanna

13) il FIORAVANTI, la MAMBRO, il CAVALLINI ed il GIULIANI, in solido tra loro, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, nei

confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, limitatamente al delitto di banda armata; nonché alla rifusione delle spese sostenute da detta parte civile, per entrambi i gradi di giudizio, che si liquidano complessivamente in lire venti milioni per onorari di difesa, con aggiunta delle spese prenotate a debito;

condanna, inoltre,

14) il BELMONTE ed il BUSUMECI, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili Vale Giorgio, Garolfi Vale Anna Antonia, Fiore Roberto, Rossi Giovanni ed Affatigato Marco;

spese che si liquidano, quanto alla difesa del Vale e della Garolfi, in lire 3.000.000 per onorario; quanto alla difesa di Affatigato e Rossi, in lire 1.000.000 per onorari; e quanto, infine, alla difesa di Fiore, in lire 1.160.000, di cui lire 1.000.000 per onorari; al netto di I.V.A. e Cassa Previdenza Avvocati;

15) rigetta le proposte istanze di concessione di provvisionali ;

16) revoca le misure disposte ai sensi

dell'art.272 c.p.p. 1930 nei confronti del SIGNORELLI e del FACHINI con ordinanza di questa Corte in data 13.2.1990; e nei confronti del PICCIAFUOCO con ordinanza in data 16.7.1990 della prima Corte di Assise di Appello di Bologna;

17) rimette alla Corte di Cassazione il giudizio relativo al ricorso, non convertito in appello, proposto dall'Avvocato dello Stato nei confronti di IANNILLI Marcello avverso la pronuncia assolutoria del medesimo in primo grado, non impugnata dal Pubblico Ministero.

Visto l'art.89 c.p.c.

d i s p o n e

che vengano cancellate dallo scritto di replica presentato dall'avvocato Giuseppe De Gori le seguenti espressioni sconvenienti ed offensive: con riferimento all'avvocato Baldi:

"ecco la menzogna fredda, calcolata, strumentale e disonesta" (pag.11);

con riferimento all'avvocato Calvi:

"ha mostrato tutto intero il suo livore che esula dal processo, la sua protervia, la sua arroganza, tutte doti negative che gli

appartengono" (pag. 13);

nonché l'espressione "pietoso" (pag. 13), riferito al medesimo legale.

Bologna, 18 luglio 1990

 

F.to IL CONSIGLIERE coest. F.to IL PRESIDENTE coest.

(Dott. A. ESTI) (Dott. P. IANNACCONE)

 

 

F.to Il collaboratore di Cancelleria

Dr. Antonio Soluri

 

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

IL 4 APR. 1991

DA F.to Il Collaboratore di Cancelleria

Dr. Antonio Soluri

 

 


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